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Attraverso mille bisticci: storia di Francesco

Da Note di Pastorale Giovanile, rubrica “Ritratti di adolescenti”.

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di AnnaClaudia Losacco *

Credere in qualcosa o in qualcuno è così complicato che, quando lo fai, sei pieno di gratitudine. E per quanto il mio servizio in oratorio non mi abbia mai stancata, c’è sempre “un motore” che mi spinge ad andare avanti: il gruppo che mi è stato affidato qualche anno fa.
Ci troviamo al quartiere Libertà: un quartiere di Bari difficile, denigrato da molti (soprattutto da quelli che non ci vivono), ma che è ricco di persone piene di speranze di vita e di tanti “ragazzini per strada” ricchi di sogni. Quei sogni che per loro è difficile poter realizzare, se non sono propriamente guidati da qualcuno che ci crede.
E se dovessi fare mente locale proprio a quel giorno in cui mi è stato chiesto di seguire quel gruppo di preadolescenti, potrei dire con certezza che non avrei mai scommesso un euro su tutto quello che di lì a poco si sarebbe creato.
È vero, tra i ragazzi non si fa alcuna distinzione. Ma, fra tutte le loro storie, c’è da sempre una che, rispetto alle altre, mi ha particolarmente colpita: la storia di Francesco (nome di fantasia).
Quando l’ho conosciuto per la prima volta aveva soltanto undici anni e la cosa che mi impressionava era proprio il suo modo di relazionarsi con gli altri. Infatti, quando lui conosce persone nuove, non cerca di capire com’è fatto l’altro o tantomeno di intraprendere una conversazione, bensì decide subito di infastidirti e provocarti anche con frasi sgradevoli. In realtà, però, sta solamente cercando di capire com’è fatto l’altro e vedere se questa persona possa essergli simpatica o meno.
Allo stesso tempo, però, sapevo in cuor mio che il suo mondo era più grande di quello in cui si trovavano gli altri e che lui avesse quel qualcosa in più che avrebbe potuto arricchire la mia vita e per questo motivo io avevo il compito di dover capire quale fosse il suo “punto accessibile al bene”.
Francesco sotto tanti aspetti si può ritenere un ragazzo abbastanza fortunato, al quale basta avere un pallone tra i piedi per migliorare la giornata, ma che vive parecchie difficoltà dovute anche dall’età e dal contesto familiare in cui si trova, che non è per niente facile. Perché diciamocelo, essere genitori sarà anche il lavoro più bello e difficile del mondo, ma dover educare un ragazzo sapendo che nessuno in lui ci crede o che un giorno potrebbe diventare lo specchio di ciò che nella realtà dovrebbe evitare… beh, per me è stato un lavoro davvero complicato.
Un episodio che ha rafforzato il nostro legame è stato proprio durante un’esperienza estiva. Dopo un litigio che si sarebbe rivelato il primo di una lunga serie, era arrivato il momento del gioco e, ad un certo punto, mi accorgo che lui decide di estraniarsi dagli altri e di mettersi seduto in disparte. Così, dopo aver notato questo dettaglio, decido di sedermi accanto a lui per poter capire cosa stesse passando in quel momento nella sua testa e poterci fare una lunga chiacchierata. La sua risposta “Ho deciso di mettermi in castigo da solo” mi ha fatto riflettere e tanto pensare a quanta sofferenza lui possa provare nella sua giovane vita, a quante mancanze deve dare peso e a quante cavolate è costretto a fare per poter colmare questi vuoti o per farsi accettare dagli altri e, di conseguenza, mostrarsi per quello che realmente non è. Ed infatti, dopo averlo guardato negli occhi ed avergli chiesto con molta calma un semplice “Come stai?”, Francesco ha esternato tutto il suo mondo e la sua rabbia, piangendo o rimanendo tante volte in silenzio perché preferiva riflettere sulle sue azioni, piuttosto che dire qualcosa di non giusto scaturito dal momento di rabbia e vergogna.
Ora Francesco ha quattordici anni, frequenta il primo anno in una scuola superiore e a breve inizierà il percorso per poter diventare pre-animatore. E per me, non c’è vittoria più bella di questa. Vedere un ragazzo che, attraverso i tuoi gesti ed insegnamenti, prova a mettere in pratica il bene dimostratogli.
E non a caso, ho deciso di iniziare quest’articolo con la citazione di Jovanotti perché, se c’è una cosa che ho capito grazie a lui è che tante volte denigrare o lasciare fuori un ragazzo che talvolta riteniamo “attivo” o “fuori luogo”, in realtà è solo una scusa per chi non ha voglia di perdere tempo per il bene di un giovane. Spingersi altrove, dedicare del tempo, prestare ascolto o attenzione può davvero salvare una vita. Perché è proprio attraverso loro che la mia vita si è riempita di gioia, gratitudine, ricchezza e meraviglia. Perché nei loro occhi e negli occhi di Francesco, Dio mi parla continuamente e quotidianamente mi ricorda che quel “cento volte tanto” mi ha dato solo il coraggio di aiutare e di donare vita a loro e, attraverso loro, a me stessa.

* 23 anni, animatrice dell’oratorio salesiano Redentore di Bari e studentessa in Scienze della Comunicazione all’Università degli studi Aldo Moro di Bari.

Abbandono, conforto, ascolto: storie di Mussa, Angelica, Mariana

Dalla rubrica Ritratti di adolescenti su NPG, a cura dei giovani del MGS.

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Raccontare di un giovane, di un adolescente o di un bambino, significa dipingere quel ritratto che ha caratterizzato la vita di ognuno di noi. E allora partirei proprio da questo, dal ritratto di me, per poi arrivare a quei tanti volti che nel corso della mia vita, attraverso le esperienze oratoriane, hanno aiutato a comprendere chi fossi, i miei sogni, aspirazioni, paure, insicurezze e obiettivi. Volti, occhi e sguardi che mi hanno fatto guardare al mondo da diverse prospettive, giovani che hanno reso e rendono la mia vita qualcosa di unico, nonostante tutto.
Fin da piccola ho sempre amato lo sport e il movimento nella sua complessità e, nonostante l’impossibilità di una pratica agonistica, ho sempre utilizzato questo mezzo per fuggire da ciò che mi facesse male, per evadere da quelle situazioni che non mi facevano stare tranquilla, per trovare conforto, per riscattarmi, per scoprire il mio io. La corsa che tanto amavo, come pratica individuale rispondeva in parte a questo scopo, però non mi bastava, avevo bisogno di comunità, di calore fraterno, di gruppo, di unione, di sorrisi, di condivisione. L’oratorio è stato questo, ha saputo mettere insieme due elementi essenziali che credo siano indispensabili per ogni essere umano, ovvero la voglia di scoprire se stessi e trovare equilibrio psico-fisico, ma anche la costante voglia di non sentirsi soli ed abbandonati.
Le tante esperienze vissute in oratorio, attraverso l’animazione missionaria, le esperienze estive in contesto povero, le esperienze per le strade della mia città, mi hanno aiutata a capire quanto ognuno di noi nella propria diversità è simile. I tanti volti, sguardi incontrati e le tante parole ascoltate, e soprattutto le tante parole non dette, mi hanno aiutato a comprendere quanto ognuno di noi sia accomunato dalla sofferenza che aiuta a cambiare, e dalla voglia di sentirsi accettati e ascoltati, dalla voglia di sentirsi abbracciati. Ecco che in queste righe non voglio raccontare la storia di una singola persona conosciuta, perché sono davvero tante, ma ci tengo a trasmetterti – a te che stai leggendo – che la mia storia di animatrice, educatrice, ragazza è forse molto simile alla tua, anzi è molto simile in alcune sfaccettature a quella dei tanti giovani incontrati durante il mio percorso di vita. Io così come i tanti giovani conosciuti mi sono sentita persa, non accettata, non compresa, usata, ho sempre pensato di non valere nulla, ma ad oggi sono consapevole che grazie a voi giovani mi sento cambiata, maturata, ho potuto capire il significato di quel “punto accessibile al bene” di cui tanto parlava Don Bosco, ho riscoperto me stessa, ma soprattutto ho imparato ad accettare la diversità, le povertà, le tante personalità che ognuno di noi vive quotidianamente.
Ecco che in queste righe dopo averti raccontato una piccola parte di me voglio farti conoscere alcuni volti conosciuti durante la mia vita da oratoriana, ragazzi e ragazze, bambini e bambine, che ad oggi sono la fonte del mio cambiamento, fonte essenziale che giorno per giorno continuano a motivarmi nel mio percorso di studi, formativo e di vita, giovani che mi ricordano che la strada che ho intrapreso possa/debba nel futuro essere messa al loro servizio grazie al valore dello sport.
Mussa, 18 anni; lui mi ricorda i volti dei tanti migranti che hanno lasciato la propria terra, e che sono arrivati sulle coste delle nostre spiagge, lui rappresenta anche il volto di quei tanti senza fissa dimora che occupano le nostre strade, ritrovandosi in contesti disumani. Con Mussa e con tanti altri migranti ho avuto modo di dialogare, scambi di commozione e di occhi lucidi, di sofferenza, di voglia di vivere. Loro mi ricordano quanto possa essere importante lottare per ciò che si crede, per i propri obiettivi. È impressa nella mia mente una frase di Mussa: “Perché il mondo è grandissimo e possiamo starci tutti senza problemi”, ogni volta me la ripeto, quando penso che tutto quello che sto facendo sia inutile, e invece no! C’è posto anche per me, c’è posto per tutti. Mussa mi ricorda la parola ABBANDONO.
Angelica, 7 anni; lei è il volto dell’accoglienza, del prendersi cura. In un momento di pura difficoltà in Guatemala, lei ha saputo tendermi la sua piccola mano, mi è stata accanto, ha saputo comunicare nonostante la difficoltà linguistica. Non mi ha lasciata mai sola, aveva percepito che avevo bisogno di aiuto, e così in maniera silenziosa ha saputo colmare il mio vuoto. Angelica mi ricorda la parola CONFORTO.
Mariana, 19 anni; lei è “amicizia” nata nel momento del racconto, dell’ascolto della propria storia di vita, dove ci si mette a nudo, in cui le proprie fragilità vengono consegnate nelle mani di chi sa ascoltare. Con lei si è creata connessione, spesso tra educatore ed educando ci si ritrova in sintonia perché magari simili in alcuni aspetti, con lei è stato così, ha saputo “tirar fuori” come un’educatrice, una parte di me nascosta. Mariana mi ricorda la parola ASCOLTO.
Abbandono, conforto e ascolto, forse possono essere tre elementi che caratterizzano i giovani di oggi. Nel momento in cui ci si sente soli ed abbandonati si ha semplicemente bisogno di ascolto e conforto. Io nel mio piccolo non ho utilizzato tante parole, perché forse non bastano, ma attraverso uno sguardo come presenza e un abbraccio sono riuscita ad entrate in connessione con loro, ma soprattutto l’approccio di Mussa, Angelica e Mariana dovrebbero essere da esempio anche per noi educatori.
Concludo queste mie riflessioni, come vedi più su di me che su giovani di cui tracciare un ritratto, ma ti ho voluto mostrare, e farti conoscere attraverso piccoli ricordi, tre giovani completamente diversi ma inevitabilmente vicini, tre giovani che hanno saputo colmare i miei vuoti – dalla solitudine, al senso di inadeguatezza, alle incomprensioni, alla mancanza di ascolto – in momenti differenti del mio percorso di educatore, animatore.
All’inizio del mio percorso di animazione pensavo di salvare il mondo o di essere da esempio per tanti giovani, non so se questo sia successo nel corso del tempo, ma ciò che rimane certo è che i tanti giovani conosciuti dai più piccoli ai più grandi, dalle zone di periferia, ai villaggi, alla mia città, sono stati loro il mio più grande esempio. Attraverso di loro ho saputo riconoscere il volto di Cristo: mi hanno aiutata a comprendere la bellezza di una vita degna di essere accolta, vissuta e amata.

* 25 anni, di Salerno, laureata in scienze motorie e attualmente sta concludendo il percorso di studi magistrali. Frequenta l’oratorio salesiano di Salerno da quando è nata, e al suo interno è animatrice della fascia di 4° superiore (gruppo che segue dalla prima elementare) e animatrice del gruppo missionario VIS Pangea (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo).

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Un sogno che vola Storia di Anita, Giulia, Sofia, Giulia e Veronica

Pubblichiamo una nuova puntata della rubrica: Ritratti di adolescenti, a cura dei giovani del Movimento Giovanile Salesiano.

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Di Anita Marton *

Risuona spesso in me una frase. La tengo appesa sopra la scrivania, è tratta da una poesia di Pedro Salinas; recita: “Quando ti doni, riconquisti te stessa, ti volgi in dentro, cresci”. Mi ricorda che, se vale più dare che ricevere, si riceve sempre più di quanto si dona.
Le ho conosciute al Meeting dei Giovani del Triveneto, a Mestre, appuntamento per tutti gli animatori delle superiori. Io ero lì come accompagnatrice dei ragazzi della mia realtà, loro avevano appena terminato la prima estate da animatrici. Il Don mi ha fatto incontrare un piccolo gruppo di ragazze: avrei dato loro una piccola testimonianza di come ho vissuto e come vivo le mie amicizie, soprattutto nell’impegno del dono verso gli altri. Non sapevo cosa aspettarmi e nemmeno cosa avrei detto, ma quando abbiamo iniziato a parlare, mi sono accorta che erano loro a darmi una bellissima testimonianza di amicizia: avevano una luce che brillava negli occhi, un fuoco nel petto. Mi sono rimaste aggrappate al cuore e non se ne sono andate più. Ci siamo trovate di nuovo, abbiamo parlato ancora, abbiamo condiviso le nostre esperienze, risate, studio e biscotti. E mi hanno raccontato la loro storia, che inizia da un sogno in cordata.

La missione di Anita, Giulia, Sofia, Giulia e Veronica nasce da un desiderio condiviso, germogliato tra i banchi di scuola quando erano in terza media. La realtà da cui provengono è l’Istituto Salesiano “E. Sardagna” di Castello di Godego, in provincia di Treviso, dove convivono l’oratorio e la scuola, primaria e secondaria di primo grado. Come in molti oratori, ci sono gruppi di animazione, ma esiste anche un gruppo di chierichetti, il Santissimo Sacramento, rivolto solo ai ragazzi. Per le ragazze non c’era altro. Per le cinque amiche era bello e stimolante frequentare la scuola e l’oratorio, ma sentivano di dover fare di più, desideravano fare del bene, servire nella misura in cui potevano, nelle cose pratiche e nello sguardo buono verso i compagni. Volevano avere uno spazio e un tempo per vivere più intensamente nella realtà in cui si trovavano, così come già faceva il Santissimo Sacramento. Per quattro mesi hanno custodito questo desiderio nel cuore, si sono confrontate tra loro e con il Don, e piano piano, dal basso e in silenzio, è nata Opzione Mornese. Il nome l’aveva suggerito il don, facendo scoprire alle ragazze la figura di Madre Mazzarello e delle giovani di Mornese, che come loro si davano da fare per gli altri. Il primo anno è stato di attesa e lentezza, era da tracciare la giusta rotta, c’era l’ardore di fare una buona cosa e la paura che tutto si sgretolasse da un momento all’altro. Una piccola stanza, a volte il cortile, diventava il luogo dove incontrarsi: parlavano della loro vita, delle fatiche e delle gioie quotidiane, del loro gruppo, degli amici e dei compagni. Il Don, sempre vigile e presente, le aiutava a navigare. Ogni tanto, invitavano le ragazze di seconda media, perché quel loro desiderio non rimanesse come il lume sotto al giaciglio, ma potesse intercettare altri animi tesi alla ricerca di qualcosa di più. Poi, nell’estate tra la loro terza media e la prima superiore, il gruppo ha preso forma, e a settembre Opzione Mornese è cresciuto. Quelle ragazze di seconda media sono entrate a far parte del gruppo, e a loro volta hanno invitato le ragazze più piccole a parlare con loro, a condividere. Le ragazze di terza media avevano organizzato la raccolta di cibo e beni di prima necessità per l’Ucraina, insieme al Santissimo Sacramento avevano allestito il presepe. Un circolo di bene.

Ora sono in seconda superiore. Da quando hanno finito le medie, non studiano più al Sardagna e frequentano scuole diverse. Adesso è più difficile, perché si cresce, si cambia scuola e incontrarsi tra loro diventa una scelta che costa tempo, rinunce e impegno. Anche portare avanti il gruppo non è semplice, sono ormai tante le ragazze che hanno seguito questo desiderio, e nonostante ci sia il Don e una ragazza più grande che le accompagnano, “è nelle nostre mani, nessuno tira se non tiriamo noi”, mi dicono. Camminare con Opzione Mornese dipende da loro, responsabilizza, mette alla prova quando si presentano solo tre persone agli incontri. Perché rimaniamo? Se nessuno viene, qual è il senso? Ma il sogno nato ormai tre anni fa continua a vivere, e già è partito un nuovo gruppo alle medie, sempre più ragazze si lasciano affascinare da questa missione fatta di amicizia e dono gratuito. Non smettono di sognare in grande: desiderano andare a Mornese, conoscere meglio la storia di Madre Domenica Mazzarello, tornare a casa e trovare un gruppo grande di ragazze che vanno avanti da sole, senza che per forza ci siano loro a guidare. Un desiderio che cammina con i piedi per terra e gli occhi rivolti al cielo.

Le ho viste di nuovo al Meeting MGS la settimana scorsa, a un anno esatto dal nostro primo incontro. Quando ci siamo salutate, ho pensato che averle conosciute è stata una grazia. Vedere delle ragazze così giovani dare vita a un gruppo come Opzione Mornese con le loro mani, mettersi in gioco e continuare a sognare nonostante le fatiche e i momenti di sconforto, mi dà fiducia. Significa che il Signore ancora lavora nei cuori dei ragazzi, che le amicizie belle e al servizio degli altri esistono e crescono, se custodite e donate. Significa che è molto semplice lamentarsi e molto coraggioso fare un passo per costruire qualcosa. Significa che nelle mie amicizie gli ingredienti devono tornare ad essere correzione fraterna, il sostegno reciproco, essere matite nelle mani di Dio per gli altri; avere quel loro sorriso palpitante nel cuore. È lì che è nato questo sogno. Un sogno che vola, ancora.

* 24 anni, laureanda in Lettere Classiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Appassionata di disegno, scrittura e teatro. Da tempo legata ai salesiani del Triveneto; attualmente fa animazione a un gruppo di ragazzi del triennio delle superiori ed è impegnata nell’MGS Ispettoriale.

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Il filo di Arianna della politica – Propoaganda

di Raffaele Mantegazza

Come parlare 

“Quando il partito dice che il bianco è nero bisogna convincersi che lo è davvero”: che sia una battuta, un aneddoto, una leggenda metropolitana, questa frase è di volta in volta attribuito a demagoghi di destra o di sinistra per mostrare come la propaganda sappia mettere in discussione qualunque verità, ovviamente non dal punto di vista oggettivo ma da quello soggettivo di chi si autoconvince della verità di ciò che viene propagandato.
A rigore ovviamente la propaganda si rivolge a persone adulte, perché ha bisogno comunque di un minimo di base di conoscenza da parte dell’interlocutore. Ma altrettanto ovviamente, più si abbassa il livello culturale di quest’ultimo, più la propaganda diventa becera, rozza, schematica. Forse una visione in bianco e nero del mondo è molto più accettabile da parte di persone semplici e in un effetto circolare disincentiva la loro capacità critiche e la loro ricerca di informazioni verificabili.
In ambito politico però almeno a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo la propaganda è stata sostituita o perlomeno affiancata da qualcosa di molto più subdolo: si inizia infatti ben presto, fin dalla più tenera età, a sottoporre i bambini e le bambine a messaggi iper-semplificati, che colpiscono direttamente le emozioni senza permettere una crescita razionale. A rigore non si tratta più nemmeno di propaganda ma di mero condizionamento, che bypassa quasi completamente il livello della coscienza e dello spirito critico. Stiamo dunque parlando di messaggi molto subdoli, che oltretutto conferiscono all’ascoltatore una specie di senso di superiorità. Si è sentito molto spesso dire a proposito del terrapiattismo o della polemica contro i vaccini che solo coloro che predicavano queste pseudo-verità erano i veri saggi, che tutti gli altri erano ignoranti, schiavi del sistema, squalificati nella loro intelligenza per il semplice fatto di non condividere le idee di questa specie di nuovi profeti.
Questo tipo di propaganda, che a rigore non si potrebbe nemmeno definire tale tanto è ancora più pervasiva della propaganda classica, va dunque a sollecitare e solleticare l’amor proprio e il narcisismo di coloro a cui si rivolge. Ed è ovviamente molto difficile di fronte a un discorso che scavalca totalmente la ragione affrontare queste persone con le armi del ragionamento, delle statistiche, delle cifre, delle prove scientifiche.

Come pensare 

Opere analizzate
– Peter Bichsel, “Un tavolo è un tavolo”, da “Storie per bambini”;
– Hans Magnus Enzensberger, “Ulteriori motivi per cui i poeti mentono”, da “La fine del Titanic”;
– Cesar Vallejo, “Un uomo passa”, da “Spagna allontana da me questo calice”.

La propaganda si serve del linguaggio, e lo fa spesso rimanendo all’interno del linguaggio stesso, come se non le importasse nulla della verità delle proprie affermazioni e del rapporto con la realtà.
Il racconto di Bichsel prova a capire cosa accadrebbe a una persona che pensasse davvero che basti cambiare il nome a un oggetto per cambiare l’identità dell’oggetto stesso. Il delirio raccontato dal narratore è interessante perché molto simile ai discorsi della propaganda che appaiono estremamente seducenti quando modificano le parole quotidiane (basti pensare alle strategie di rinominazione operate da tutti i totalitarismi, nei confronti delle parole straniere, dei nomi di città, dei cognomi, ecc.). Bichsel va fino in fondo nell’illusione di un discorso autoreferenziale che alla fine porta alla totale solitudine
La poesia di Enzensberger invece opera un continuo va-e-vieni tra linguaggio e realtà mostrando come il primo ha un senso solo se in qualche modo fa i conti con la durezza della seconda e non ne rifugge; la stessa cosa avviene nella poesia di Vallejo nella quale la povertà, il dolore, la morte si trovano escluse da un discorso filosofico che non ha alcun altro scopo che non sia celebrare se stesso.

Cosa fare 

Oltre a far discutere i ragazzi sui grandi temi della politica sarebbe opportuno anche abituarli a proteggersi dalla demagogia e dalla propaganda a proposito della loro vita quotidiana. Dunque si potrebbe organizzare un ciclo di comizi tenuti da loro nei panni degli insegnanti, dei professori e dei genitori sui temi:
– È possibile una scuola senza voti?
– Le interrogazioni sono l’unico modo per verificare la preparazione?
– Ha ancora senso l’esame di maturità?
– Le note disciplinari sono uno strumento utile?

Matteo Leone, studente universitario dello IULM di Milano, mi segnala che per l’esame di Public speaking vengono assegnati ai ragazzi alcuni temi sui quali strutturare un breve discorso:
– Gli asparagi e l’immortalità dell’anima
– 4 + 4 = 9
– La cura dell’uva
– Perché seppie con piselli

Come provare

Il “debate” è una metodologia molto usata in ambito scolastico. Come è noto si tratta di proporre ai ragazzi alcuni argomenti sui quali operare prima di tutto una ricerca e una riflessione critica, e poi presentare davanti ai compagni di classe o di istituto un dibattito nel quale ogni squadra di ragazzi ha il compito di illustrare le tesi a favore o contro l’argomento scelto. Si tratta sicuramente di una tecnica interessante, ma il limite che personalmente ne vedo è che troppo spesso l’aspetto competitivo ha la meglio sui contenuti, per cui la discussione spesso si riduce a uno sfoggio di mezzi sofisticati dal punto di vista dialettico ma non a un reale approfondimento. Occorrerebbe in realtà far riflettere i ragazzi sulle procedure utilizzate per arrivare a proporre un discorso e sulle strategie comunicative utilizzate senza necessariamente procedere alla fine a proclamare un vincitore.
Inoltre le regole del gioco prevedono che l’assegnazione delle posizioni pro o contro il tema ai gruppi di ragazzi sia fatta per sorteggio. Se le ragioni di questa scelta hanno un senso (cioè chiedere ai giovani di provare a mettersi nei panni dell’altro) occorre essere molto cauti soprattutto con i ragazzi più giovani proprio perché, come detto sopra, questa operazione può ridursi semplicemente a una ricerca di strategie dialettiche e sofistiche. Forse sarebbe meglio partire dalle reali opinioni dei ragazzi e solo successivamente, dopo aver testato questo metodo, passare alla richiesta di cercare motivazioni per l’idea opposta alla propria.

Cosa domandarsi 

I ragazzi sono esposti alla logica della propaganda soprattutto nelle sue versioni più subdole e sottili, ma sono anche a volte in grado di raccogliere e criticare informazioni vere e autentiche. Occorre che gli adulti si pongano qualche domanda in proposito:
– Quali sono le principali fonti di informazione alle quali accedono i giovani?
– Cosa significa per loro che una informazione è “vera”?
– Quali sono le strategie di verifica delle informazioni che essi usano?
– Qual è la differenza tra una notizia vera e una notizia popolare?
– Qual è il tasso di penetrazione dell’atteggiamento misterico e narcisistico di posizioni come quelle dei terrapiattisti secondo i quali solo chi crede nelle loro affermazioni è saggio e dunque non c’è bisogno di alcuna dimostrazione?
– Qual è il lavoro di rielaborazione critica di una informazione compiuto dai ragazzi prima di comunicarla ad altri?
– Come le risposte alle domande di cui sopra mutano (o meno) a seconda del mutare dello strumento di accesso alle informazioni (fonti orali, fonti cartacee, digitale, ecc.)?
– …

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Storie di Pietro – Esperienza Live: Comunità educatori e giovani Santa Maria la Longa – Gorizia – Udine

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Storie di Pietro è una storia di storie. Presa nel suo complesso, non è reale, ma i frammenti che la compongono sono la trasposizione di esperienze vissute. Li abbiamo raccolti perché riteniamo che la narrazione aiuti sia il lettore che lo scrittore a dare senso ai vissuti. Pensiamo che vedere il proprio pezzettino come parte di una storia più grande aiuti a sentire che siamo parte di un’esperienza più grande, che non siamo soli in quello che viviamo. Per questo abbiamo integrato nella storia anche gli episodi meno coerenti con la figura di Pietro e abbiamo lasciato che la trama si sfilacciasse in tante direzioni: ci interessava dare voce a tutte le esperienze nella loro unicità e volevamo evitare il rischio di semplificare eccessivamente la complessità della vita, di incasellarla nella trama di un libro. Vedendo che la scrittura aiutava i ragazzi a scavare dentro le proprie vite, a trovare i momenti di svolta, a prendere consapevolezza dei propri passi e dei cambiamenti, abbiamo incoraggiato il loro lavoro e abbiamo fatto il possibile per salvare l’autenticità del racconto, anche a scapito dello stile e dell’organicità del testo.
La composizione del libro ha richiesto un percorso lungo qualche mese, scandito da alcune tappe fondamentali che hanno seguito il cammino del Live. L’Esperienza Live è già un incrocio di storie, si configura infatti come un percorso fatto di incontri in cui persone di età e provenienze diverse provano a condividere un cammino di formazione. L’identità stessa del Live è continuamente in divenire per la necessità di adeguarsi ai cambiamenti delle persone che lo compongono e dell’ambiente in cui vivono. Per coltivare l’appartenenza a questa esperienza, i ragazzi hanno bisogno di riconoscersi in un immaginario collettivo, che nel libro ha preso il nome di Pietro. Si accorgono così che, ognuno nella propria realtà, si muovono nelle stesse dimensioni, che assumono una forma visibile nei capitoli della storia.
Il momento fondamentale per rinnovare e riconoscere l’identità dell’esperienza Live è da sempre il campo estivo, che nel 2022 si è incentrato sul personaggio di Pietro. Spuntato come una novità, a metà tra il serio e il faceto, il nome di Pietro ha iniziato a circolare tra i partecipanti al campo quasi come se fosse uno di loro, un ragazzo nuovo da conoscere e con cui interagire. Inaspettatamente si poteva scoprire una sua traccia: su una parete compariva, scritta su un foglio, una testimonianza di una persona a lui vicina, oppure si poteva trovare un oggetto che gli apparteneva o un ricordo della sua vita accompagnato dal commento di Pietro stesso. Ogni nuova traccia contribuiva a costruire nei ragazzi un’immagine di Pietro. All’inizio molti si chiedevano se fosse una persona vera o inventata ed era difficile rispondere: a tutti è stato detto che il personaggio era frutto della fantasia, ma che poteva essere ognuno di noi.
Stando così le cose, era giusto che ognuno contribuisse a definirne l’identità, ecco perché accanto alle testimonianze comparivano anche fogli bianchi, che chiedevano ai ragazzi di immaginare una parte della persona o dell’ambiente di Pietro: cosa gli piace? Quali parole di incoraggiamento si è sentito dire? Come sono i suoi compagni di classe? Cosa dice a Dio? Come ha conquistato la sua ragazza? I fogli bianchi si riempivano giorno dopo giorno con le parole dei tanti “Pietro” che volevano metterci una parte di sé. Durante tutto il campo, i ragazzi hanno continuato a ricevere spunti su Pietro e allo stesso tempo a darne, finché si è delineata una figura talmente complessa e disorganica che era chiaro, a quel punto, che Pietro eravamo tutti noi. .
Nel frattempo si è cercato di stimolare nei ragazzi il desiderio di scrivere, di raccontare la vita di Pietro, di cui a quel punto non esisteva nulla di definito, a parte il nome. Si è formata una redazione provvisoria, che ha provato a iniziare un lavoro di sistematizzazione delle informazioni su Pietro e allo stesso tempo di sollecitazione reciproca alla scrittura. Ma il passo necessario per scrivere era staccarsi dall’immagine di Pietro e rientrare in sé. Per questo ognuno dei ragazzi ha realizzato una mappa in cui ha rappresentato la propria vita, illustrando in ogni ambito (famiglia, scuola, passioni, amicizia…) le relazioni che gli danno forma. Hanno scelto simboli diversi per esprimere la qualità di queste relazioni e hanno messo al centro della mappa ciò che in questo periodo è il punto da cui tutta la loro vita assume senso (o lo perde). La mappa è stata uno strumento per fare chiarezza, per prendere consapevolezza delle relazioni e per iniziare un dialogo di condivisione sui propri vissuti.
A fine campo è stato chiaro che non poteva bastare un libro a esprimere tutta la ricchezza e la complessità dell’esperienza degli adolescenti e del loro cammino nel Live. Per questo l’idea del libro si è trasformata nel progetto di una mostra interattiva, che permettesse alle persone di entrare fisicamente nella vita dei ragazzi: esplorare le “stanze” della loro esperienza quotidiana, seguire il loro percorso di crescita nel Live e infine approdare al cuore della missione di don Bosco, la cura dei ragazzi più bisognosi.
Tutto questo progetto, il libro come la mostra, ha richiesto ai ragazzi lo sforzo di entrare in sé per conoscersi e per far emergere gli aspetti che normalmente rimangono nascosti al mondo adulto e forse anche ai loro occhi; allo stesso modo chiede agli adulti lo sforzo di entrare nella vita dei ragazzi per poterne cogliere le pieghe, valorizzare le bellezze, curare le ferite, costruendo relazioni educative vere.

I ragazzi del Live

«Pietro siamo noi. Pietro raccoglie i frammenti delle nostre vite.
A volte è difficile spiegare come viviamo dentro di noi ciò che ci accade, quello che l’adolescenza oggi è per noi, ciò che ci passa nel cuore…
Vorremmo qui provare a raccontarvelo con semplicità e trasparenza, dietro al nome che tutti ci rappresenta.
Pietro siamo noi.»

 

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Abitare la sinodalità. Tre questioni prioritarie e cinque istanze operative

Dal numero di settembre/ottobre di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Stiamo entrando nel vivo del discernimento ecclesiale sulla sinodalità

La messa a punto è durata abbastanza, adesso finalmente si parte in maniera decisa. Dopo aver preso una certa rincorsa, allungatasi con la pandemia, finalmente in questo anno educativo pastorale stanno arrivando nella loro fase centrale i due grandi cammini sinodali in atto: quello universale e quello italiano.
Mi pare importante dire fin dall’inizio che i percorsi lenti, ragionati e profondi sono quelli che alla lunga portano al cambiamento vero e duraturo. Quando vogliamo davvero affrontare temi di lungo respiro – come quello relativo alla corretta forma della Chiesa nel terzo millennio – non bisogna avere troppa premura: sappiamo che la fretta può essere una cattiva consigliera.
Avevamo profetizzato che il decennio 2020-2030 sarebbe stato caratterizzato dalla “sinodalità missionaria”. Lo avevamo fatto con un Dossier programmatico, di quelli che vanno sempre tenuti a prima vista tra i numeri di NPG: i lettori attenti non avranno dimenticato che nel primo numero del 2020 avevamo approfondito proprio questo tema, riconoscendo in esso qualcosa di assolutamente generativo: Una chiesa sinodale per la missione. Cammini di conversione spirituali, formativi e pastorali ne era il titolo[1]. Converrebbe riprenderlo in mano per la sua freschezza e attualità, perché ciò che lì si immaginava oggi sta prendendo corpo. Nelle prime righe si diceva:

Questo è il primo numero NPG del 2020. Siamo all’inizio del III decennio del III Millennio. Nessuno potrà dire con precisione che cosa accadrà, sia a livello sociale sia a livello ecclesiale, nei prossimi dieci anni. Vi siete resi conto che in questo numero non c’è l’editoriale. Perché questo Dossier è un vero e proprio “lungo editoriale” che apre il decennio 2020-2030. È quindi qualcosa di programmatico, che vuole aprire i prossimi dieci anni attraverso un rinnovato impulso che si raccoglie intorno all’idea di “sinodalità missionaria”. In questo modo non facciamo altro che fare nostro l’esito del Sinodo con e per i giovani e rilanciarlo con coraggio, convinti che si tratta davvero di una chiave interpretativa preziosa e irrinunciabile per gli anni che ci aspettano[2].

Ora possiamo dire che i nodi stanno pian piano venendo al pettine, sia a livello universale che a livello italiano. Ma procediamo con ordine, visto che si tratterà di mantenere i nervi saldi e di avanzare con piena consapevolezza, evitando di lasciarci trascinare dall’emotività degli eventi.

Il percorso universale: le novità e i temi della prima sessione

I riflettori ecclesiali nel prossimo ottobre saranno tutti puntati sulla prima delle due sessioni della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione e missione. Il tutto, lo sappiamo, ha preso avvio nell’ottobre del 2021 e si concluderà con la seconda sessione prevista per l’ottobre 2024.
Varie sono le novità che sono state annunciate: la partecipazione di un buon gruppo di laiche, laici, consacrate e consacrati a cui è stato concesso dal Santo Padre il diritto di voto; lo svolgimento nell’ampia Aula Paolo VI che renderà possibile il dialogo e il confronto a gruppi – che nel Sinodo prendono il nome di “circoli minori” – come mai è avvenuto nelle precedenti convocazioni sinodali; la conferma del metodo della “conversazione spirituale” come modo di procedere. Soprattutto è stato presentato uno “Strumento di lavoro” assai diverso dai precedenti, in quanto è stato impostato per rendere possibile un autentico discernimento operativo sui temi emersi nella fase di ascolto. L’obiettivo sembra essere chiaro: «Sarà di rilanciare il processo e di incarnarlo nella vita ordinaria della Chiesa, identificando su quali linee lo Spirito ci invita a camminare con maggiore decisione come Popolo di Dio»[3].
La parte più ampia dell’Instrumentum laboris è composta dalle schede di lavoro per l’assemblea sinodale, divise nelle tre “questioni prioritarie” che sono emerse dall’ascolto su scala universale. Trattate nei nn. 43-60, sono queste.
La prima riguarda la “comunione” ed è così formulata: Una comunione che si irradia. Come essere più pienamente segno e strumento di unione con Dio e di unità del genere umano? Viene così riconosciuta che «la vita sinodale non è una strategia di organizzazione della Chiesa, ma l’esperienza di poter trovare una unità che abbraccia la diversità senza cancellarla, perché fondata sull’unione con Dio nella confessione della stessa fede»[4].
La seconda approfondisce la “missione”, ed è così espressa: Corresponsabili nella missione. Come condividere doni e compiti a servizio del Vangelo? Attraverso il tema in oggetto viene chiarito che «la missione non è marketing di un prodotto religioso, ma costruzione di una comunità in cui i rapporti siano trasparenza dell’amore di Dio e quindi la vita stessa diventi annuncio»[5].
La terza rilancia la “partecipazione”: Partecipazione, compiti di responsabilità e autorità. Quali processi, strutture e istituzioni in una Chiesa sinodale missionaria? Qui emerge la convinzione che «istituzioni e strutture non bastano a rendere sinodale la Chiesa: sono necessarie una cultura e una spiritualità sinodali, animate da un desiderio di conversione e sostenute da un’adeguata formazione»[6].

Il cammino italiano: un anno dedicato alla fase sapienziale

Atterriamo adesso a casa nostra, sapendo che anche quest’altro cammino sinodale sta entrando nel vivo del confronto. Abbiamo raccolto il materiale di due anni di ascolto, dedicato alla “fase narrativa” del processo. Ora si tratta di fare un passo in avanti, entrando nella “fase sapienziale”. È il momento qualitativo del percorso, quello del discernimento vero e proprio, ovvero della distinzione di ciò che abbiamo raccolto per purificarlo ed elevarlo. Devono emergere dei criteri capaci di guidare il cambiamento auspicato, che poi dovrà concretizzarsi nella terza fase – quella profetica, ovvero dedicata alle scelte – che si realizzerà nell’anno 2024-25.
Anche qui, nella fase di ascolto, sono emerse alcune costanti, che possiamo definire anche “costellazioni”.
La prima riguarda la missione secondo lo stile della prossimità. Al centro ci sta la capacità di partecipare e di creare relazione, imparando l’arte di accogliere, dialogare e includere, generando una “pastorale ospitale”. L’attenzione alla persona e alle nuove connessioni culturali sembra essere sempre più decisiva.
La seconda si concentra sui linguaggi, la cultura e la proposta cristiana. Di fronte all’irrilevanza della nostra presenza ci si domanda come risvegliare quella capacità di mediazione culturale che da sempre ha caratterizzato la vita della Chiesa in tutte le epoche. La riflessione teologica, insieme alla mediazione liturgica, sembrano avere un ruolo da riscoprire per rientrare in dialogo con il mondo contemporaneo e per un rinnovato annuncio della fede.
La terza costellazione è orientata verso la formazione alla fede e alla vita. Sembra essere oramai assodata la necessità di una diversa impostazione della formazione in tutti gli ambiti, che deve essere improntata alla sinodalità e quindi alla corresponsabilità, facendo anche perno su esperienze formative condivise tra laici, presbiteri e religiosi. Una formazione con almeno tre fuochi: che si radichi nella Parola di Dio, che prepari per esercitare l’arte dell’accompagnamento spirituale e formi alla vita cristiana attraverso esperienze significative nei contesti ordinari della vita.
La quarta attenzione è riservata al grande tema della corresponsabilità. Qui ci sono molte questioni annesse e connesse, di cui ecco le principali emerse: la riscoperta della dignità battesimale, la dignità e il ruolo delle donne, le nuove ministerialità che la vita della Chiesa sta suggerendo, la guida della comunità in assenza di un presbitero residente, la figura stessa del prete che a parere di molti va radicalmente ripensata, la rivitalizzazione degli organismi ordinari di partecipazione e infine il dialogo sul ministero dell’autorità.
Infine, la quinta costellazione riguarda le strutture. Il livello burocratico e gestionale è sempre più opprimente e troppe volte toglie respiro ed entusiasmo all’annuncio del vangelo. Siamo consapevoli che si sprecano tante energie, talenti e danaro per mantenere strutture che hanno fatto il loro bene, ma anche il loro tempo. Si sente la necessità che le strutture siano più snelle, più a misura d’uomo, più pensate in ordine alla cura delle relazioni. Tutte le istanze strutturali – siano esse materiali, amministrative, pastorali e spirituali – andranno sottoposte a verifica in ordine alla missione propria della Chiesa.

Verso una rinnovata opzione preferenziale per i giovani

Dopo aver dato uno sguardo alle tematiche generali che stanno emergendo nei due percorsi, proviamo ora a stringere il campo sul nostro proprio, quello dei giovani e della pastorale giovanile. Nell’Instrumentum laboris viene ribadita la continuità con i cammini compiuti dai recenti Sinodi, riconoscendo che

i riferimenti all’urgenza di dedicare adeguata attenzione alle famiglie e ai giovani non puntano a stimolare una nuova trattazione della pastorale familiare o giovanile. Il loro scopo è aiutare a mettere a fuoco come l’attuazione delle conclusioni delle Assemblee sinodali del 2015 e del 2018 e delle indicazioni delle successive Esortazioni Apostoliche Post-Sinodali, Amoris laetitia e Christus vivit, rappresenti un’opportunità di camminare insieme come Chiesa capace di accogliere e accompagnare, accettando i necessari cambiamenti di regole, strutture e procedure[7].

Quindi prima di tutto, per la pastorale giovanile si tratterà ancora una volta di non lasciar cadere ciò che è stato generato nel percorso sinodale vissuto insieme con i giovani e che per alcuni aspetti attende ancora di essere recepito con forza e concretizzato con coraggio.
Interessante poi una doppia attenzione che emerge dalla sezione operativa dell’Instrumentum laboris, quella offerta nella Schede di lavoro per l’assemblea sinodale, che sono state predisposte «per facilitare il discernimento sulle tre priorità che con maggiore forza emergono dal lavoro di tutti i continenti, in vista dell’identificazione dei passi concreti a cui ci sentiamo chiamati dallo Spirito Santo per crescere come Chiesa sinodale»[8].
La prima considerazione fa riferimento al mondo digitale e al fatto che per le giovani generazioni questa sembra essere una modalità oramai ordinaria per affacciarsi al vangelo. Non sempre la comunità ecclesiale ne è consapevole. La questione è quindi quella del linguaggio, dei metodi e soprattutto degli ambienti. Va riconosciuto che nell’ambiente onlife «la costruzione di reti di relazioni rende possibile alle persone che lo frequentano, in particolare i giovani, di sperimentare nuove forme per camminare insieme»[9].
La seconda mi pare più di visione e di prospettiva, e viene così espressa:

Le sintesi delle Conferenze Episcopali e le Assemblee continentali chiedono con forza una “opzione preferenziale” per i giovani e per le famiglie, che li riconosca come soggetti e non oggetti della pastorale. Come potrebbe prendere forma questo rinnovamento sinodale missionario della Chiesa, anche attraverso l’attuazione delle conclusioni dei Sinodi del 2014-2015 e del 2018?[10]

L’espressione “opzione fondamentale per i giovani”, che viene ripresa anche in un altro punto[11], riprende vigore perché è rimessa al centro dalla restituzione della fase di ascolto. Dice – cosa per noi decisiva – che tutta la comunità cristiana è chiamata ad avere un’attenzione specifica alle giovani generazioni. Dice quindi che la pastorale giovanile non è affare di esperti e di una “pastorale del bonsai” portata avanti da alcuni attori privilegiati, ma è affare che chiama in causa tutta la Chiesa nel suo insieme. Dice ancora che noi – dedicati in maniera privilegiata a questa missione giovanile – non possiamo isolarci, ma abbiamo il compito creare un più ampio coinvolgimento possibile nella Chiesa in vista del bene dei giovani che ci sono affidati.

Ripartiamo ancora una volta da Emmaus

Solo da questa carrellata che annuncia le tematiche e i metodi di lavoro, possiamo dire che di carne al fuoco ne abbiamo parecchia per quest’anno educativo e pastorale che incomincia. Noi siamo parte della Chiesa e quindi cerchiamo le giuste modalità per abitare quella sinodalità che si annuncia come profezia di fraternità capace di ridare slancio e passione alla nostra missione.
Colpisce e stupisce che ancora una volta, come è stato suggerito da tutto il percorso che abbiamo vissuto con i giovani durante il Sinodo a loro dedicato, che la narrazione dei discepoli di Emmaus continua a rimanere ispirativa di tutto il processo in atto. Da una parte, sappiamo che nell’ultima Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana i criteri per il discernimento comunitario operativo

sono stati desunti, in particolare, dall’icona della fase sapienziale, l’incontro di Emmaus (Lc 24,13-35), che intreccia l’esperienza pasquale dei discepoli con la celebrazione eucaristica, in chiave sinodale. In questa luce, ci si è confrontati sull’azione molteplice dello Spirito Santo nei singoli battezzati, nella comunità cristiana, nell’umanità e nell’intero cosmo[12].

Dall’altra il metodo della conversazione spirituale, riconosciuto come pienamente adeguato per il cammino sinodale in atto, viene dalle Sacre Scritture. Ancora una volta si sottolinea l’importanza decisiva dell’episodio in cui Gesù incontra e cammina con i due viandanti smarriti che si allontanano da Gerusalemme:

Nel Nuovo Testamento, numerosi sono gli esempi di questo modo di conversare. Paradigmatico è il racconto dell’incontro del Signore risorto con i due discepoli in cammino verso Emmaus (cfr. Lc 24,13-35, e la spiegazione che ne dà Christus vivit al n. 237). Come mostra bene la loro esperienza, la conversazione nello Spirito costruisce comunione e reca un dinamismo missionario: i due, infatti, fanno ritorno alla comunità che avevano abbandonato[13].

NOTE

[1] Cfr. «Note di pastorale giovanile» 1 (2020) 5-39.
[2] R. Sala, L’idea di “sinodalità missionaria”. La necessaria conversione dal fare per all’essere con, in «Note di pastorale giovanile» 1 (2020) 6-18. 6
[3] XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Instrumentum laboris per la prima sessione, n. 3.
[4] Ivi, n. 49.
[5] Ivi, 52.
[6] Ivi, 58.
[7] Ivi, n. 15.
[8] Ivi, Schede di lavoro per l’assemblea sinodale, Introduzione.
[9] Ivi, Scheda B.2.1., punto d) e domanda n. 6.
[10] Ivi, Scheda B.2.1, domanda n. 3.
[11] «Nella linea dell’Esortazione Apostolica Post-Sinodale Christus vivit, come possiamo camminare insieme ai giovani? In che modo una “opzione preferenziale per i giovani” può essere al centro delle nostre strategie pastorali in chiave sinodale?» (Ivi, Scheda B.1.2, domanda 4).
[12] 77a Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana, Comunicato finale del 25 maggio 2023.
[13] XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Instrumentum laboris per la prima sessione, n. 3.

 

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Marcel Callo: molto, troppo cattolico per non essere arrestato e condannato

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Alla lettura della biografia di Marcel Callo scritta da J. B Jégo (Un exemple, Marcel Callo. Rennes, Editions Riou-Reuzé 1946, 194 pp.) il famoso cardinale arcivescovo di Parigi, Emmanuel Shuard, scriveva all’autore nel febbraio 1947: “Inoltre voi avete fatto dell’agiografia. Senza dubbio non bisogna anticipare i giudizi della Chiesa, che soli sono decisivi, ma cosa manca a questo eroe perché sia proclamato santo”? Esattamente il 4 ottobre di quarant’anni dopo papa San Giovanni Paolo II lo elevava alla gloria degli altari fra la schiera dei nuovi beati.
Non è forse il primo scout francese ad essere beatificato, neppure il primo membro della JOC (Jeunesse Ouvriére Chrétienne = Giovani lavoratori cristiani) a raggiungere tali altezze spirituali, ma di certo quella di Marcel Callo è una figura di giovane degna di uscire dai ristretti confini nazionali per essere conosciuta universalmente.

Marcel Callo: chi era costui?

Marcel nacque a Rennes in Bretagna il 6 dicembre 1921, secondo di nove figli di una famiglia molto religiosa. Il fratello maggiore Jean sarebbe diventato sacerdote. Crescere in una numerosa famiglia lo ha abituato fin da piccolo alla condivisione delle cose, all’esercizio del rispetto delle opinioni altrui, alla disponibilità verso gli altri: ne avrebbe fatto tesoro negli anni avvenire. Leader in mezzo ai compagni di scuola, scanzonato come era, non dimostrò grande interesse negli studi, ma comunque, intelligente come era, riuscì a superare le prove scolastiche della fanciullezza. Nello stesso tempo però frequentava la vicina comunità dell’Adorazione e il monastero delle Clarisse, servendovi la messa da puntuale chierichetto ed eccellente cantore. Dell’Eucaristia sarebbe sempre stato un fervido promotore fra i compagni, soprattutto dopo aver fatto la prima comunione e la cresima. A 12 anni entrò fra gli scout (la troupe 5° Rennes), nel cui seno acquisì i valori educativi vivendone i momenti salienti delle uscite e delle attività, fermo restando che “il dovere dello scout comincia a casa”. In breve tempo era pronto per un grande salto.
Dovendo prepararsi al futuro e nello stesso tempo contribuire al benessere economico della famiglia, a 13 anni, appena finite le scuole, entrò come apprendista in un laboratorio tipografico. Di animo molto sensibile e cristianamente formato, non si trovò a suo agio. La dove passava tutta la giornata, in mezzo ad operai adulti, regnavano sovrane la volgarità e l’irreligione. Le passioni adolescenziali cominciarono presto poi a farsi sentire e dovette ricorrere alla preghiera e all’aiuto della mamma che non mancò di fargli balenare l’idea di entrare in seminario come il fratello maggiore. Rifiutò, voleva “fare del bene” fuori, nel mondo.

Operaio, membro della JOC

Accolse così, appena compiuto i 14 anni, l’invito dell’abbé Martinais ad entrare nella JOC, un’associazione ecclesiale di giovani lavoratori e delle classi popolari che svolgeva un’attività formativa, educativa e di evangelizzazione con e per i giovani lavoratori stessi. Fondata in Belgio nel 1925 dal canonico Joseph-Léon Cardijn, l’associazione si stava sviluppando pure all’estero.
Marcel accettò a condizione di poter continuare il suo cammino da scout. Prestò però si rese conto dell’impossibilità della duplice appartenenza per i tanti e impegnativi legami con il movimento jocista. In essa si impegnò decisamente tanto da diventare in tempi brevi presidente della sua sezione, la Saint-Aubin. Da leader carismatico quale si apprestava ad essere, divenne l’amico e il confidente di tutti i membri e l’anima delle loro attività. La sezione crebbe numericamente, operativamente e spiritualmente, nonostante un ambiente operaio che considerava i giovani lavoratori cristiani dei traditori.
Viveva a fondo il suo ideale:

“Voglio diventare sempre più una guida JOC, un combattente in prima linea puro e gioioso. Nel mio grande amore per i miei fratelli, voglio conquistare giovani lavoratori. Voglio vivere in te, Gesù. Voglio pregare con te. Per la tua gloria voglio donare tutta la mia forza e tutto il mio tempo, in ogni momento della mia vita”.

Arrivò al punto di essere soprannominato “Gesù Cristo”. Anziché offendersi, cercò di esserne degno.
Durante otto anni di attività jocista, dal 1935 al 1943, Marcel diede il massimo di se stesso, imparando sulla sua pelle la necessità della pazienza (aveva un carattere piuttosto irruento) con i soci religiosamente meno formati ma soprattutto coltivando il grande ideale cristiano, con il quale affrontare le difficoltà di ogni giorno. Con il suo forte ascendente sui compagni, in prima persona animava ritiri spirituali, circoli di studio, organizzava feste, promuoveva attività teatrali, lanciava catena di comunioni.
Si propose un programma di vita: “avere un cuore di fanciullo per Dio, un cuore di giudice per se stesso, un cuore di fratello per il prossimo”. I sacramenti dell’Eucarestia e della confessione” lo sostennero sempre anche nei momenti della malattia per la continua esposizione del piombo della tipografia. Lo accompagnava spiritualmente il cappellano della sezione abbé Martinais.
La dottrina del Corpo mistico di Cristo – rilanciata dall’apposita enciclica di papa Pio XII – sosteneva il movimento e ispirava i suoi migliori lavoratori. Nel 1937 Marcel partecipò a Parigi al Congresso per il X anniversario della JOC. Intanto ventunenne, si era fidanzato con Margherita, una compagna della JOC, e più tardi programmarono di annunciare il loro fidanzamento in occasione dell’ordinazione del fratello.

La guerra in città e la chiamata al servizio lavorativo obbligatorio

Nel frattempo, con l’anno 1943, la guerra mondiale era arrivata fino a Rennes. La prima disgrazia che colpì la famiglia Callo fu la morte di Maddalena, la terza figlia, durante un’incursione aerea dell’8 marzo. Contemporaneamente Marcel fu chiamato per andare a lavorare in Germania. Come altri, avrebbe potuto non presentarsi, ma ciò avrebbe esposto a rappresaglie il padre e il fratello, che stava per essere ordinato prete. Inoltre non voleva abbandonare i soci della JOC che avevano deciso di presentarsi.
Il 19 marzo 1943, il giorno del funerale della sorella, Marcel partì “come missionario” per il campo di Zella-Mehlis in Turingia, al centro della Germania, dove arrivò fisicamente e moralmente provato anche in seguito a un’intossicazione alimentare. Si era ferito un dito in una macchina, soffriva di mal di denti, emicranie e coliche. Gli avevano rubato il portafoglio e gli avevano detto che la sua famiglia era stata bombardata. Lo sorreggevano la bibbia che aveva postati con se, alcuni libri e note personali.
Alloggiati nelle baracche del campo con lui vi erano altri francesi. Vennero assegnati alla fabbrica di armi Walther, dove erano impiegati circa tremila lavoratori per dieci o undici ore al giorno. Trascorrevano il resto del tempo nelle baracche, affamati e infreddoliti. I deportati e i prigionieri, qualunque fosse la loro nazionalità, erano maltrattati dalle guardie. Nell’anno precedente all’arrivo di Marcel vi era stata una sola Messa e un’unica assoluzione collettiva. Oltre a questo dispiacere c’erano le prostitute francesi che avevano seguito i deportati. Scrisse in una delle sue numerose lettere conservate (oltre 180 in tredici mesi, spiritualmente profonde, inviate per lo più a famigliari e amici della JOC):

«I due mesi dopo il mio arrivo furono estremamente duri. Non avevo voglia di far niente. Non provavo sentimenti. Mi rendevo conto che mi stavo dissociando a poco a poco. Improvvisamente Cristo mi scosse e mi fece capire che ciò che stavo facendo non era buono. Mi disse di andare e di prendermi cura dei miei compagni. Allora la mia gioia di vivere ritornò».

Tra i deportati e in altri campi nella regione vi erano altri jocisti. Presto si misero in contatto per programmare il loro apostolato. Marcel iniziò organizzando messe con un prete tedesco che conosceva il francese e poteva confessare. Convinse altri ad adempiere al precetto pasquale e presto riuscì a organizzare una Messa mensile alla quale potevano partecipare deportati e prigionieri. Il suo gruppo jocista si incontrava nelle foreste. Vi erano altri gruppi e altre attività: musica, teatro, feste di cui era l’animatore; anche una squadra di calcio in cui giocava. Insegnò ai suoi compagni alcuni giochi, allo scopo di fornire distrazioni salutari e di costruire una rete di contatti per far circolare le informazioni sulla Messa.
Dalla famiglia gli arrivavano cattive notizie: la mamma ammalata, l’impossibilità di partecipare alle feste per l’ordinazione sacerdotale del fratello. Dalla Francia pure cattive notizie: arresti di joicisti e di seminaristi, uccisioni di preti. Il 3 agosto fu arrestato pure e imprigionato il fondatore dei jocisti francese, abbé George Guérin per aver mantenuto, malgrado la proibizione delle associazioni, l’attività della JOC. Alta e solenne, ma sostanzialmente inutile, la protesta del card. Suhard il 24 agosto, a nome di tutto l’episcopato francese. La repressione contro le associazioni e cattoliche non si fermò né in Francia né tantomeno in Germania.

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Educare alla preghiera liturgica nella catechesi per i fanciulli e gli adolescenti /2

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Elena Massimi

Proseguiamo dal numero precedente, i cui titoletti erano:
1. Avere chiaro il punto di partenza e di arrivo
2. Preparare la preghiera/celebrazione con cura
3. L’importanza del luogo… non si prega ovunque!
4. Le «cose» nella preghiera
5. Utilizzare un linguaggio non infantile

6. Cura del gesto
«I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (Sacrosanctum Concilium 34). Qualsiasi gesto, azione, canto… tutto nella liturgia deve essere “fatto bene”, con serietà e impegno. Gli spostamenti, gli atteggiamenti, le posture, le parole, i gesti, i canti, il silenzio, tutto deve essere messo in un “buon ordine”, ciò che segue con ciò che precede. Anche tramite la cura del gesto i fanciulli e i ragazzi sperimenteranno come la preghiera sia una “cosa seria”.

7. Il silenzio (prima-durante-dopo la preghiera)
Anche sul tema del silenzio ci lasciamo aiutare dal Direttorio per le Messe dei fanciulli:
«Anche nelle Messe per i fanciulli, “si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio come parte della celebrazione”, per evitare il pericolo di perdersi troppo nell’attività esterna; anche i fanciulli sono, a modo loro, veramente capaci di meditare. Hanno però bisogno di esser guidati, per imparare, secondo i diversi momenti (per esempio dopo la comunione o anche dopo l’omelia) a concentrarsi in sé stessi o a fare una breve riflessione o a innalzare in cuor loro lodi e preghiere al Signore. Si deve inoltre porre l’attenzione – e con diligenza maggiore che non nelle Messe per adulti – che i testi liturgici vengano pronunziati in maniera intelligibile, senza fretta e con debite pause» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 37).
Come per la Messa, anche nella preghiera bisogna prestare attenzione al silenzio, prima, durante e dopo la fine della preghiera. È utile infatti fare un po’ di silenzio prima di cominciare la preghiera proprio per creare un clima ad essa favorevole; durante la preghiera, ad esempio dopo l’ascolto della Parola di Dio, proprio per far imprimere nell’animo la Parola stessa, e anche dopo, per non passare immediatamente dalla preghiera ad altra attività. Inoltre, curare da subito i necessari seppur brevi spazi di silenzio, è realmente propedeutico alla partecipazione alla celebrazione eucaristica.

8. Una particolare attenzione al canto
«Il canto, se deve avere grande importanza in tutte le celebrazioni, soprattutto la deve avere in queste messe per i fanciulli, portati come essi sono per natura alla musica. Il canto perciò deve essere curato con il massimo impegno, tenuto presente il carattere particolare dei diversi popoli, e la capacità concreta dei fanciulli presenti» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 30).
Il numero del Direttorio citato mette in luce l’importanza del canto nella celebrazione eucaristica ove partecipano i fanciulli. Ma quali canti utilizzare nelle preghiere fatte durante il percorso di catechesi fuori della liturgia? Poiché la pedagogia, etimologicamente parlando, consiste nel “condurre i bambini” verso la condizione adulta, è evidente che i canti liturgici da privilegiare – non esclusivamente – sono i canti di assemblea. È necessario proporre sin dall’inizio anche quei canti che raggiungono le differenti generazioni. Infatti il canto stesso dovrà essere un fattore d’unione e non di divisione. I fanciulli sono aperti a qualsiasi genere di musica (questo per chi insegna musica è una evidenza), quindi, perché non approfittare del cammino di iniziazione cristiana per far gustare il canto propriamente liturgico ai bambini, non temendo di insegnare canti di valore, seppur adatti alle capacità tecniche dei bambini?

9. Curare l’«entrare nella preghiera»
«Il portale sta tra l’esterno e l’interno; tra ciò che appartiene al mondo e ciò che è consacrato a Dio. E quando uno lo varca, il portale gli dice:
“Lascia fuori quello che non appartiene all’interno, pensieri, desideri, preoccupazioni, curiosità, leggerezza. Tutto ciò che non è consacrato, lascialo fuori. Fatti puro, tu entri nel santuario”.
Non dovremmo varcare così frettolosamente, quasi di corsa, il portale! In raccolta lentezza dovremmo superarlo e aprire il nostro cuore perché avverta quello che il portale gli dice. Dovremmo, anzi, prima sostare un poco in raccoglimento perché il nostro avanzare sia un avanzare della purezza e del raccoglimento. […] Qui invece lo spazio è riservato per Dio. Lo sentiamo nei pilastri che si drizzano verso l’alto, nelle pareti ampie e robuste, nella volta elevata: sì, questa è la casa di Dio, l’abitazione di Dio in una maniera speciale, interiore» (R. Guardini).
Come ben ricorda R. Guardini, curare l’entrata nella preghiera è fondamentale. Come già accennato va valorizzato il silenzio, per una buona disposizione di coloro che pregano, un tempo per la concentrazione, proprio come condizione previa per poter pregare. A questo va aggiunto che, in quelle preghiere che hanno una certa durata di tempo (questo non significa che seppur in una forma ridotta non debbano essere presenti nei brevi momenti di preghiera iniziali) è opportuno prevedere dei riti di introduzione, un canto, una parola di saluto da parte di chi guida la preghiera, una orazione… un po’ come nella celebrazione dell’eucarestia.

10. Dulcis in fundo… la proclamazione della Parola e la preghiera dei Salmi
È bene ricordare come in ogni preghiera cristiana, e quindi anche in quelle per i fanciulli o ragazzi, non possa mai mancare la Sacra Scrittura. Sicuramente i brani scritturistici o i salmi da utilizzare non potranno essere scelti senza tener conto dell’età e della formazione dei destinatari, ma la Scrittura è talmente ricca che è impossibile non trovare testi accessibili anche ai più piccoli. Inoltre, non dimentichiamoci che una pericope biblica o un salmo, fuori del momento di preghiera, può essere approfondito e spiegato adeguatamente, proprio in vista di un suo utilizzo in una celebrazione.

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Ignoranti in materia di vita?

Da Note di Pastorale Giovanile – Rubrica: Dicono di sé… dicono di noi. I giovani narrano e si narrano.

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di Gloria Sortino

Almeno una volta ci è stato detto “nella vita non si smette mai di imparare” senza capire di quale “materia” si stesse parlando! Fin dalle scuole elementari abbiamo assunto come latte materno un modello di apprendimento “a sezioni” fatto di italiano, matematica, storia e geografia, altre discipline ed è inevitabilmente diventato parte della nostra persona. Possiamo così contare su una conoscenza buona ma limitata, che si riduce all’ora di verifica in classe e destinata a svanire nei secondi successivi. Gli occhi stanchi e disillusi degli alunni, che vede un insegnante quotidianamente, sono l’effetto di un sistema che allontana la disciplina scolastica dalla vita odierna e la consegna direttamente all’iperuranio dei concetti astratti. Spesso dai professori proviene l’invito ad avere uno sguardo d’insieme sulle materie, che sappia andare oltre il semplice insegnamento; peccato che siano gli stessi a stufarsi nel sentire un’esposizione che oltre alla materia, contenga anche sogni e passioni. Questo non vuol dire che viene negata la possibilità di esprimere i propri interessi, semplicemente non rientrano in un programma didattico da seguire obbligatoriamente. Per questo motivo noi giovani non riusciamo facilmente a rispondere al monito della vita “non smettere mai di imparare”, perché ci sembra di aver raggiunto il nostro obiettivo solo con la valutazione in pagella. Eppure, circa duemila anni fa a Roma, Quintiliano aveva già intuito che la socialità data dall’educazione fosse un’occasione per imparare a vivere insieme agli altri e a trovare la motivazione per il raggiungimento di ottimi risultati. Sottolineava anche la figura del docente come promotore dei rapporti interpersonali con gli allievi e punto di riferimento non solo per la conoscenza, ma anche per i problemi della propria esistenza. Infatti, tra i banchi di scuola, non si condividono solo penne e appunti, ma anche lacrime, sorrisi e consigli di vita. Sono i luoghi in cui le storie si intrecciano e crescono giorno per giorno; nella secondaria di II grado tra un verso della Divina Commedia e una formula matematica, cominciano a forgiarsi il carattere e il pensiero critico, tuttavia questo processo dovrebbe essere già iniziato molto prima. Si matura la consapevolezza che, oltre le pagine, si impara anche dal dialogo e dal continuo confronto che accompagnano le nostre giornate, per diventare i protagonisti di una vita che ci aspetta, finite le famose cinque lunghe ore, studiando all’università, inserendosi nel mondo del lavoro.

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Tra i diritti e i doveri non ci sia in mezzo il mare!

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Chiara Giancona

Quante volte nelle discussioni diciamo la frase “questo è un mio diritto!”, ma quante altre ne conosciamo veramente il senso. I diritti nella nostra visione giovanile vengono visti come qualcosa che è già lì, che qualcun altro ha ottenuto per noi, quindi spesso vengono dati per scontato. Non ci rendiamo conto del vero valore che hanno e di come si starebbe se non ce li avessimo: dai diritti inviolabili fino ad arrivare al diritto allo studio, alla salute, all’aborto, al voto e così via. Come sarebbe la nostra vita senza? Eppure, in passato la scuola non era aperta a tutti, le donne non potevano scegliere se abortire o meno, per non parlare del diritto di voto che non era dato a tutti. I nostri avi hanno combattuto per farci avere questi diritti, per consegnarci un mondo migliore e noi lo diamo per scontato? Assolutamente no! Dobbiamo ogni giorno ricordarne il valore quando andiamo all’università, al lavoro, e rivendicarli nel giusto modo quando ce ne sarà bisogno e non rivendicarli solo quando ci fa comodo per ottenere solamente quello che ci interessa senza capirne il valore. Mentre dei doveri molte volte ce ne dimentichiamo totalmente, senza ricordarci che ad ogni diritto ne corrisponde sempre uno e non c’è un diritto senza un dovere.

Iniziando dal più semplice a quello più importante: mantenere pulite le nostre città, rispettare luoghi pubblici e le regole del convivere civilmente, non guidare in stato di ebrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti per noi stessi e per la vita degli altri, dei coetanei, dei genitori. Al contrario invece ci sono altri giovani che tengono ai propri diritti, li rispettano, non li considerano scontati e gli danno voce, al contempo rispettano i doveri in una maniera intransigente come dei cittadini modello e gli altri dovrebbero prendere esempio.

E gli adulti come ci vedono in questo ambito? Veniamo considerati come una generazione persa: non diamo valore a nulla, non abbiamo rispetto per gli altri e per noi stessi. Forse qualcuno è così, ma non lo siamo tutti! Teniamo in considerazione quanti si dedicano alla battaglia per l’ambiente meglio degli adulti, quanti intraprendono un percorso politico credendo veramente negli ideali a differenza di adulti che cambiano partiti come magliette; giovani che studiano e cercano di cambiare il mondo in maniera positiva, per risolvere i problemi lasciati dagli adulti, dalla crisi climatica alla crisi economica per esempio. Per non parlare di quante volte gli adulti si dimenticano dei giovani mettendoli in secondo piano, pensando solo ai propri bisogni e non a quelli delle generazioni future. Apprezziamo, invece, quegli adulti che contano su di noi, che ci vedono come il futuro, che cercano di farci crescere e aiutare, che capiscono realmente il nostro valore: tanti insegnanti, i nostri genitori, gli educatori. Il Presidente della Repubblica Mattarella nel discorso di fine anno ha detto: “Guardiamo al domani con gli occhi dei giovani. Raccogliamo le loro speranze. Facciamo si che il futuro delle giovani generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra sfuggendo la pretesa di scegliere per loro, di condizionarne il percorso”.

Nota della Redazione.
Il senso di questa rubrica è dare voce ai giovani, lasciar loro raccontare le loro fatiche, le loro scoperte, i loro dubbi e le loro certezze. Anche su temi molto sensibili, come si dice, e delicati, come l’aborto citato nell’articolo. A noi, adulti, anche come rivista ecclesiale, il compito di ascoltarli, di ragionare insieme, di raccontare anche “altre” ragioni. Con lealtà.

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