Never too far away
Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” di Note di Pastorale Giovanile, a cura del MGS Italia.
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di Giacomo Mazzoli (25 anni, giovane del MGS Lombardia Emilia, secondo di quattro fratelli, cresciuto all’oratorio di Bologna. Ama lo sport, in particolare la pallavolo, suonare il pianoforte e scalare in montagna)
A undici anni, in compagnia di papà e zio, grandi appassionati di montagna, scalai il mio primo ghiacciaio. Successe in un weekend di inizio settembre, in una valle poco frequentata della Valle d’Aosta, su di una cima, l’Entrelor (3430 m), vetta tra le più impervie del Gran Paradiso, senza un rifugio dove prendere lo slancio per la scalata. Sembrava che non solo la montagna, ma tutta la valle ponesse una sfida a chiunque le si avvicinasse: “Sei proprio sicuro?”. Perché, lo sanno tutti i montanari, non si tratta solo di una fatica nelle gambe, per camminare o arrampicarsi, ma di uno sforzo in tutto il corpo, trasportando, nel proprio zaino, una tenda, i viveri per due giorni, oltre a picozza, ramponi e quanto è necessario per la salita. Ad oggi riconosco senza dubbi che fu una delle fatiche più grandi di tutta la mia vita, una di quelle che restano impresse: un vero e proprio “battesimo” della montagna, un’impresa che lascia il segno. Sarà anche per questo che l’immagine che mi viene in mente quando penso alla fede e al suo cammino (composto da un vero rapporto con Dio, fatto di amore, amicizia, ma anche di dubbio e di buio) è proprio quella di una montagna. Esagerando un po’, direi che la fede è una cosa da veri scalatori. Anzi, per continuare la similitudine, la salita verso un monte è tanto più significativa quando si percorrono valli poco conosciute, senza comfort e rifugi, magari molto faticose: sono tutti ingredienti che permettono all’esperienza di cambiarci e di parlare al cuore.
Per me è stato così in montagna, per me è così nell’esperienza di fede.
Di essa ho fatto un’esperienza travolgente, al punto da sentire il cuore toccato e guarito. Nella mia adolescenza, in oratorio e a scuola, sono stato fortunato perché ho potuto vivere amicizie vere, e questo mi ha tirato fuori dal rischio di chiudermi in me, da risolvere da solo le cose, di non condividere pensieri e scoperte importanti. Penso davvero che un cristiano senza amici rischia seriamente di perdersi, perché negli amici Gesù si rivela nei modi più diversi, e l’amicizia condivisa è sempre un amore donato da una fonte più grande. Certo, sono stato anche ferito e “tradito”, specie quando ero più piccolo, e non nascondo che da più grande ho purtroppo anche ferito.
Fin da piccolo ho frequentato numerosi gruppi in parrocchia e ricordo con grande piacere quello dei ministranti. Ci si trovava il sabato pomeriggio a fare grandi partite di calcio, pizzate, spendendo tempo insieme; e poi la serietà della preparazione e la gioia di una messa domenicale dove avvertivo quella presenza dell’amico Gesù già sperimentata nel quotidiano della settimana precedente con gli amici. Ecco, nella mia adolescenza mi sono sentito davvero amato. Anche dagli educatori, che erano amici un po’ più grandi, che mi vedevano per quello che ero e che mi allargavano gli orizzonti.
Ho frequentato per sei anni anche il gruppo scout, ma non è stata per me una grande esperienza. In questo contesto ho fatto la scoperta delle mie debolezze e fragilità, di cui ancora oggi ringrazio perché le esperienze difficili permettono a ciascuno di noi di maturare, di chiedere aiuto e di abbattere le difese di cui ci circondiamo continuamente.
Ho già accennato alla fede come di un punto fermo per me: in essa sento di aver incontrato Uno che mi ha fatto sentire amato non per quello che sarei diventato, ma proprio per quello che sono adesso, il me stesso con pregi e difetti. Ecco, cambiare o essere. Quante volte l’accento nella fede è posto sul cambiamento. Cosa certamente necessaria, anche perché cambio, “divento” ogni giorno. Ma alla base c’è una accettazione incondizionata, grazie alla quale si spengono le domande “Vado bene così?” “È la strada giusta?”. Il fatto che la vita cambi è un frutto (importantissimo) di questa esperienza, non la condizione sine qua non. Un po’ come accade in montagna: se scali il Gran Paradiso e ammiri il panorama vivendo la fatica, superando le crisi e condividendo il tutto con i compagni, ritorni a casa cambiato, diverso, sicuro che la vita ha orizzonti molto più alti di quelli che pensavi.
Questa è stata per me l’esperienza interiore più decisiva, ed è avvenuta grazie a una persona adulta con cui ho riletto la mia vita e scoperto questa sconvolgente ma limpidissima verità: Dio mi ama comunque, e ama te comunque. Questo e nient’altro che questo. E così per tutti i miei giorni, all’oratorio, a scuola, in università ho sentito come una grande spinta interiore a testimoniare ciò, anzitutto vivendo personalmente questa nuova consapevolezza.
Pensate, proprio a Bologna, in una realtà universitaria ostile al messaggio evangelico in tutte le salse, è possibile e ve lo posso garantire. Questa assoluta certezza mi ha anche aiutato parecchio, da studente, negli studi, negli esami da preparare e nei pomeriggi passati a risolvere esercizi ad Ingegneria Energetica: è come una luce interiore che illumina anche i lunghi pomeriggi di studio, volti a preparare gli esami. Sento che anche la passione per lo studio forse viene proprio da qua, da questa consapevolezza che Dio mi ama. Ed è inevitabile tradurre ciò in una mano tesa verso i miei compagni, condividendo con loro anche momenti di studio durissimi. Quello che vorrei esprimere è appunto una fede che prende corpo e vita nel mio ambiente, fatto di lavoro e buone relazioni amicali.
Cosa farò in futuro? Quale forma prenderà questa mia consapevolezza? Non lo so ancora, diciamo che “sono in dialogo con Dio”: è un gioco di pazienza e ascolto tra me e Lui. Ma tutto parte da là, dal sentirsi amati e pensati da sempre. Certo, tra le esperienze affascinanti vissute c’è l’oratorio, un luogo in cui spendersi e dove è possibile comunicare agli altri quest’Amore. Non un luogo dove si è strumentalizzati, ma dove si accoglie, anche chi è “lontano”. Questa esperienza “mi ha salvato”, mi ha fatto incontrare lo spirito di servizio, di amicizia, tutte cose poco comuni nelle relazioni ordinarie e nella società.
Certamente non sono riuscito ad esprimere in toto quanto sento e vivo, ma suggerisco, a chi fosse interessato, di leggere quella specie di “mappa” esistenziale che è il libro “Sentirsi amati” di Henry Nouwen. Oppure di ascoltare la canzone “Never too far away” dei Newsboys.
From your best moments to your darkest hours
You’re held inside the hands of supernatural power
Don’t you ever forget, you are a child of God
Un saluto a chi mi leggerà, e l’augurio di vivere ciò che la montagna insegna a tutti gli alpinisti: il silenzio, l’incontro con se stessi, il sublime.