La rivoluzione digitale: questioni in gioco economiche e non solo
Stefano Quintarelli
Torniamo a dove tutto è cominciato.
La rivoluzione industriale determinò una profonda riorganizzazione sociale rispetto alla precedente economia prevalentemente agricola. La pressione del mercato veniva scaricata sui lavoratori che spesso vivevano ai limiti della sussistenza, e si acuivano i conflitti sociali che talvolta sfociarono in moti violenti. I ricchissimi oligarchi condizionavano l’informazione, il potere politico e quello giudiziario. Grazie al potere di cui disponevano, non mitigato da istituzioni e regole di tutela, il valore aggiunto era accumulato dal capitale, a scapito dei lavoratori.
Dalla metà dell’Ottocento e per buona parte del Novecento il mondo si divise sulla base di ricette alternative di soluzione al conflitto nella ripartizione del valore tra capitale e lavoro.
Il paradigma di questo conflitto era riassunto nelle parole finali del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels che si concludeva con la famosa frase “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”.
Una risposta degli stati socialisti furono aziende di stato, slegate dal mercato, in modo da isolare la pressione sui salari, unitamente ad una ferrea regolamentazione dei rapporti di lavoro mediati dal Partito. In Occidente prevalse un modello di regolamentazione più articolato che vide la nascita di istituzioni quali i sindacati con il loro diritto di sciopero; interventi legislativi che definirono diritti minimi ed incomprimibili per i lavoratori in materia di lavoro, pensione e salute; la progressiva possibilità di partecipazione dei lavoratori nella proprietà diffusa delle aziende; la nascita dell’Antitrust per mitigare il potere economico e con esso l’influenza dei potentati economici sulla politica. Il modello occidentale che è emerso vincitore dopo la fine dell’utopia sovietica è tuttavia messo alle corde dalla Rivoluzione Digitale e necessita di un ripensamento o, quantomeno, di alcuni interventi significativi.