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Una rivelazione e una benedizione

Dalla rubrica “Storie di volontari” di NPG, a cura di Salesiani per il Sociale.

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Eleonora Biancamano ( 19 anni, vive a Budrio, un paese in provincia di Bologna)

Vi racconto come ho iniziato un’esperienza che mi sta coinvolgendo e… cambiando.
Durante l’anno scolastico 2023/2024 ho deciso di accedere al Servizio Civile Universale presso la mia ex scuola superiore: la Beata Vergine di San Luca a Bologna, una scuola dichiaratamente ispirata a valori cristiani, che sono sempre stati nella mia vita punti di riferimento e di desiderio.
Ho frequentato in questo collegio salesiano le scuole superiori dalla seconda alla quinta, e posso dire che fin ora sono stati gli anni migliori della mia vita.
Ho amato da subito l’ambiente stimolante, le persone che all’interno della sede ti dedicano fin da subito il loro tempo, e mi piaceva passare i pomeriggi a scuola ad aiutare come animatrice o semplicemente stare a contatto con chi lavorava dentro queste mura.
Purtroppo però poi è arrivato il Covid e per un anno a scuola non ho messo piede, come la maggior parte degli studenti italiani; ma comunque ho sentito la vicinanza della scuola e per me questo è stato davvero importante.
A metà della quinta superiore sono venuti in classe mia dei rappresentanti di Servizio Civile a parlare di quest’esperienza e fin da subito sono rimasta colpita: mi sono informata, ho mandato la richiesta, fatto il colloquio e poi mi hanno confermato l’inizio di tale esperienza per settembre: ero felicissima, anzitutto perché sarei rimasta un altro anno in un ambiente conosciuto, anche se con altri compiti, e poi perché intuivo che sarebbe stata una esperienza importante per la mia comprensione di me e la mia crescita. Posso dire che ad oggi sono contentissima della scelta fatta.
Ad essere sincera, oltre ad essere una delle esperienze che volevo assolutamente fare, ho scelto Servizio Civile proprio quest’anno perché ero molto indecisa sul percorso universitario da intraprendere in futuro. Questa indecisione mi ha portato alla scelta di non iniziare l’Università subito finito il liceo, ma aspettare un anno e decidere bene quale il percorso di studi veramente giusto per me.
Avendo già l’anno prima lavorato, nella stagione estiva, come cameriera, preferivo dedicare il mio tempo ad altro, e Servizio Civile mi è apparso come una rivelazione (e benedizione) in quel momento.
A settembre ho quindi iniziato questo percorso nella sede di Bologna insieme ad un altro ragazzo: ho scelto il progetto “Scuola: in carreggiata con te” perché lo ritenevo molto più adatto e vicino alla mia persona: a me è sempre piaciuto studiare, quindi riuscire a lavorare in una scuola a contatto con i ragazzi durante le lezioni o lo studio pomeridiano mi sembrava il miglior modo per riuscire ad aiutare.
Mi sono fin da subito trovata bene, anche perché avendo frequentato qui la scuola superiore, ero sicuramente agevolata nel conoscere gli ambienti e il personale, e quindi non ho avuto problemi ad integrarmi e rimanere sul pezzo.
Mi hanno accolta bene fin da subito, sia i colleghi che i ragazzi, ma essendo comunque molto vicina alla fascia d’età delle superiori, mi hanno affiancata principalmente alla scuola media; anche se comunque non mancano esperienze con i ragazzi del biennio, come le giornate a Rimini di inizio anno scolastico dove sono andata una settimana come animatrice.
Devo dire che c’è della diversità tra le superiori e le medie: alle medie i prof e il personale scolastico tengono molto di più alla disciplina e all’educazione (diciamo, almeno la “buona educazione” e i valori connessi: l’impegno, la socialità, la collaborazione…), come propedeutica per portare poi i ragazzi alle scuole superiori già preparati e almeno con delle buone basi, e poi magari lì fare delle proposte più impegnative. In ogni caso i valori insegnati e praticati dell’integrazione, dell’aiuto, del sostegno e della collaborazione sono mantenuti sempre a un buon livello di stimolo e di pratica.
Ci sono state situazioni che avrei sicuramente potuto gestire meglio: mi è capitata una volta, all’inizio dell’anno, una litigata di due ragazzi e non sapendo bene come gestirla ho preferito parlarne con il prof più vicino. Tante altre invece sono state molto importanti per me perché ho capito che i ragazzi mi vedono come una figura di riferimento e si sentono sicuri a parlare con me.
Di questo percorso ho proprio voglia di parlarne con tutte le persone che sto pian piano conoscendo: alcuni visibili anche nella foto qui sotto, che si riferisce a un momento dei tanti incontri di formazione in presenza (per la cronaca, a Carisolo). Anche con loro si stanno creando legami solidi e con molti mi trovo davvero bene tanto da vederli anche fuori dall’ambiente “di lavoro”.
Per me Servizio Civile si sta dimostrando un percorso non solo di esperienza lavorativa, ma anche di crescita personale: posso dire che mi sta aiutando a capire cosa voglio e cosa non voglio per la mia vita; sono riuscita a scegliere il percorso universitario (psicologia) e sto creando legami bellissimi con persone che prima non conoscevo. Ho rafforzato sicuramente anche la mia fede, il mio rapporto con Dio e il posto che ha nella mia vita, agevolata e aiutata sicuramente anche dalle esperienze e dai momenti di confronto con i ragazzi dell’MGS.
Sono davvero contenta di come sta andando e sono sicura che i Salesiani saranno per sempre la mia seconda casa, anche quando un giorno vivrò in un altro ambiente e perseguendo scelte di vita personali e professionali. Forse sono stata decisamente fortunata… ma auguro a tutti di trovare un posto del genere nella propria vita.

Don Bosco: una giovinezza fatta da tanti no e altrettanti sì

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Di don Bosco si è scritto e si continua a scrivere che “tutto cominciò da un sogno” e con tale espressione sovente si lascia intendere che egli non fece altro che seguire un itinerario di vita indicatogli fin da fanciullo e ripreso in qualche modo anche più avanti negli anni.
Non è proprio così. A parte il fatto che storicamente il famoso sogno dei nove anni dovette essere poco più che un lampo – e non certo quell’ampio resoconto da lui tracciato 50 anni dopo quando si era in gran parte realizzato (ne abbiamo trattato su questa stessa rivista), – una simile narrazione entra direttamente in conflitto con degli eventi assodati: nell’età delle scelte, vale a dire nella giovinezza e nella prima maturità, Giovanni Bosco si trovò di fronte a delle alternative, dovette operare delle opzioni, prese delle decisioni, senza alcuna certezza di fare quella giusta, quella semplicemente intuita nel sogno infantile.

Adolescente, giovane, respinge concrete possibilità di vita e di futuro

Figlio di contadini, orfano di padre fin dalla prima infanzia, Giovanni Bosco era naturalmente destinato al lavoro nei campi, cui in effetti si avviò quanto prima sia in famiglia, sia nel breve lasso di tempo da preadolescente passato alla cascina Moglia come garzone di stalla. Il fratellastro Antonio non aveva tutti i torti a sostenere che, come futuro contadino, non aveva bisogno di tanti studi. Ma il gusto naturale della lettura e dello studio, la fortuna di incontrare un buon prete di campagna che ne intuì le doti intellettuali, una mamma che aspirava a qualcosa di meglio della vita dei campi per il suo ultimo figlio permisero a Giovannino Bosco di strappare qualche ora al lavoro nei campi per dedicarsi agli studi, ovviamente a prezzo di grandi sacrifici.
Nell’anno trascorso come studente a Castelnuovo (1830-1831) in casa del sarto Roberto Giovanni gli venne offerta la possibilità di rimanere con lui, apprendere bene il mestiere e così un domani prendere il suo posto e con esso la possibilità di essere di eventuale sostegno alla madre anziana. Ma d’accordo con lei respinse la proposta e preferì continuare gli studi a Chieri, a 16 km dal proprio paese. Non era una scelta facile: allontanarsi da casa, ricorrere all’elemosina per pagarsi gli studi, adattarsi a vivere ospite in casa altrui, offrire servizi vari per pagarsi la pigione… Anche a Chieri gli si aprì la strada di poter gestire un domani un esercizio commerciale. Nuovamente rifiutò per il suo desiderio di continuare gli studi.

La scelta dello “stato” di vita

Giunto al loro termine, il diciannovenne Giovanni dovette ancora una volta decidere “cosa fare da grande”. Si sentiva chiamato alla vita sacerdotale, come intuiva dal sogno che si ripeteva, ma “la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato”, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione”.
Optò allora per la vita consacrata; si sottopose all’esame di vocazione presso il convento dei frati Minori Riformati della Madonna degli Angeli a Torino, fu accettato ed era pronto ad entrare in noviziato al convento della Pace in Chieri quando uno strano sogno sulla difficoltà di vivere in un convento lo mise in crisi. Ne uscì a seguito del parere dello zio (sacerdote) dell’amico Comollo con cui si era confidato: rinunciare ad entrare in convento e invece iniziare gli studi in seminario in attesa di conoscere meglio “quello che Dio vuole da lui”.
Superamento l’esame finale di retorica nelle scuole di Chieri, si sottopose ad un nuovo esame, quello per la vestizione clericale. Lo superò e così andò serenamente in vacanza in famiglia a prepararsi alla nuova fase di vita che si apriva davanti a lui. Nell’ottobre ricevette la vestizione clericale dal proprio prevosto ed il 30 ottobre entrò in seminario a Chieri. Aveva vent’anni, aveva ormai scelto di diventare sacerdote, la strada sembrava tracciata… Non poteva certo immaginare quante altre scelte impegnative avrebbe dovuto fare.

Quale missione sacerdotale? nessuna per ora (1841-1844)

Trascorse oltre 5 anni di studio e di formazione in seminario (novembre 1835-maggio 1841), non senza coltivare qualche dubbio sulla sua vocazione sacerdotale, subito fugato dal suo direttore spirituale, amico e conterraneo, don Giuseppe Cafasso.
Ordinato sacerdote nel giugno 1841, dopo l’estate trascorsa in paese gli vennero subito offerte tre possibilità: una, lontano dal paese, a Genova, come maestro-precettore in casa di un ricco signore con l’ottimo stipendio di mille lire annue; e due vicino a casa: cappellano di Murialdo con doppio stipendio rispetto al solito o vicecurato a Castelnuovo. Lo zelante neosacerdote non sapeva che fare, per cui ancora una volta andò a consigliarsi a Torino da don Cafasso. Questi udite tre le proposte le scartò tutte dicendo: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Venite con me al convitto di Torino”. A 26 anni compiuti don Bosco, pieno di giovanile entusiasmo sacerdotale, doveva dunque sospendere ogni progetto apostolico coltivato lungo gli anni di seminario per dedicarsi ad ulteriori studi teologici.

La proposta decisiva

Lungo il triennio di studio al Convitto (1841-1844) ebbe modo di fare varie esperienze sacerdotali sotto la guida di don Cafasso. Due in particolare: al Convitto venne ad insediarsi presto attorno a lui una sorta di oratorio festivo di qualche decina di ragazzi lavoratori, che poi nei giorni feriali lui visitava sul posto di lavoro; di sabato poi si recava personalmente nelle carceri minorili sempre con piccoli doni da distribuire (dolci, frutta, immaginette). Il tutto sotto lo sguardo attento di don Cafasso, che evidentemente era molto interessato al futuro del giovane compaesano.
I problemi si posero al termine del triennio di studio. L’anziano don Giuseppe Comollo, con il parere favorevole dell’arcivescovo Fransoni, lo chiese come economo-amministratore della propria parrocchia. Come dire di no al proprio vescovo? A toglierlo dagli impicci ci pensò il rettore del Convitto, il teologo Luigi Guala, che gli dettò personalmente la lettera di rinuncia.
Gli si avanzarono allora tre altre proposte: vicecurato di Buttigliera d’Asti, oppure ripetitore di morale al Convitto, oppure direttore stipendiato dell’erigendo piccolo ospedaletto accanto al Rifugio, fondato e mantenuto dalla ricca marchesa Barolo per centinaia di “ragazze a rischio”. Non sapeva che fare: solo sentiva il bisogno di non abbandonare i suoi “poveri giovani” che continuamente lo cercavano. Ora questo gli sarebbe stato possibile solo accettando la terza proposta: infatti la predicazione e le confessioni delle ragazze del Rifugio prima e la direzione dell’Ospedaletto poi gli avrebbero concesso spazi di tempo libero per i suoi giovani. Come suo solito si confidò con don Cafasso che però prese tempo: avrebbe deciso dopo le vacanze estive.
Passarono rapidamente e don Cafasso non gli suggeriva nulla. Don Bosco si fece allora coraggio e gli chiese espressamente il suo parere, che avrebbe ritenuto “volontà di Dio “. Don Cafasso gli consigliò di accettare la direzione dell’Ospedaletto, sotto la responsabilità del direttore spirituale delle varie istituzioni della marchesa, don Giovanni Borel, che per altro aveva fatto alla marchesa proprio il suo nome per il suddetto ruolo.

La decisione sofferta

Don Bosco non si allontanava così da Torino, aveva un stipendio sicuro con cui mantenersi, ma per l’assistenza ai suoi giovani, tanto per incominciare mancava un luogo in cui radunarli. Con il consenso della marchesa iniziò con la sua camera (il corridoio e le scale) al Rifugio, ma fu subito chiaro che colà non c’era posto per contenere i ragazzi che aumentavano ogni domenica. Don Borel chiese allora altro spazio alla marchesa che generosamente lo concesse non essendo ancora in funzione l’ospedaletto. L’arcivescovo acconsentì che un locale venisse trasformato in cappella (8 dicembre 1844).
Ma era evidente che era tutto provvisorio. In effetti vari mesi dopo, in prossimità dell’apertura dell’ospedaletto (10 agosto 1845) dovette cercare altro luogo per radunare i giovani. Dal maggio al dicembre peregrinò prima al vicino cimitero di S. Pietro e poi ai Mulini Dora in città. Scacciato da entrambi i posti, dal gennaio all’aprile 1846 fu la volta di casa Moretta e prato Filippi a Valdocco, finché in aprile approdò alla sede definitiva, casa Pinardi a Valdocco. L’Oratorio itinerante dei mesi precedenti aveva trovato una sede stabile
Ma furono mesi di grande impegno anche fisico per don Bosco: svolgere i suoi compiti di cappellano dell’Ospedaletto ma nello stesso tempo cercare ogni domenica nuove chiese dove portare la massa dei suoi giovani a messa; trovare spazio per far loro catechismo e farli giocare; visitarne alcuni lungo la settimana sul luogo di lavoro; pubblicare qualche libretto devozionale ed anche una Storia ecclesiastica di ben 400 pagine ecc. La salute ne risentì tanto che ad inizio gennaio la marchesa, preoccupata, chiese a don Borel di farlo riposare fuori città. Ma i ragazzi non potevano fare a meno del loro don Bosco: andavano da lui a frotte a confessarsi, costringendolo poi a riportarli in città.

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La paura di deludere e il coraggio di vivere

Da Note di Pastorale Giovanile, rubrica “Dicono di sé…dicono di noi”

di Giulia Ruscica e Luca Savatteri

Negli ultimi anni si sente parlare troppo spesso di giovani come noi che vanno incontro al suicidio.
La maggior parte delle volte nessuno, o quasi, è a conoscenza della sofferenza che portano dentro di sé e questo è un problema da attribuire alla società in cui viviamo, quella sempre pronta a giudicare. Non si sentono liberi di poter parlare di come stanno neanche con la famiglia e con gli amici più stretti, ed è per questo che si tengono tutto dentro fino a non farcela più.
E noi? Se provassimo ad aprirci agli altri, scopriremmo di non essere gli unici ad avere delle difficoltà o a sentire certe emozioni, ma poiché si tende a non parlarne, pensiamo che le altre persone stiano vivendo una condizione migliore e fingiamo di viverla anche noi, considerando “inferiore” o “inadatto” chi invece mette alla luce le proprie problematiche.
Inoltre, vengono rese pubbliche con grande enfasi le notizie di coloro che riescono ad ottenere ottimi risultati e posizioni, elogiandoli e facendo sentire al resto di noi di aver fallito.
Si ha paura di deludere i genitori, gli insegnanti, gli amici e per ultimi se stessi; si è spaventati di essere emarginati o rimanere troppo indietro, e tutto questo scatena un insieme di emozioni negative che possono portare a preferire la morte piuttosto che la vita.
Ci è capitato di leggere di alcuni universitari che hanno organizzato tutto ciò che sta attorno alla laurea, coinvolgendo parenti e amici, ma una volta arrivati a quel momento si sono tolti la vita, perché in realtà non c’era nessuna laurea ad aspettarli: dovevano ancora finire di fare gli esami di alcune materie! Si tratta di ragazzi che hanno avuto paura di affrontare la vita, i loro studi e la loro famiglia; hanno finto che andasse tutto bene senza parlarne a qualcuno, arrivando a compiere l’atto che ha posto fine alla loro sofferenza. E questo succede sia in ambito scolastico che lavorativo, perché la società chiede e pretende troppo da noi, escludendoci subito quando non si arriva a mantenere il canone richiesto.
Ci sentiamo schiacciati dalla paura di fallire sin dalla scuola superiore, nel momento in cui si deve capire cosa fare nel resto della vita. È positivo se si ha già un’idea di che lavoro svolgere e quindi se e con quali studi proseguire, ma non per tutti è così. Gli adulti credono che il tempo sia sufficiente per attuare una scelta, ma gli ambiti lavorativi sono troppi, così come le facoltà universitarie; gli orientamenti a scuola vengono svolti troppo tardi, quando già i test di ammissione sono iniziati e informarsi da soli su tutto non è facile. Ciò provoca ancora più ansia; non solo dobbiamo preoccuparci di studiare per la maturità, ma anche per i vari test o concorsi, con la paura di non superarli e perdere un anno. Non dovrebbe neanche essere considerato un problema se il test può essere ripetuto l’anno successivo, ma ancora una volta è la società ad imporre una corsa a chi è più bravo e veloce.
Dovremmo cercare di dare meno ascolto ai giudizi altrui, concentrandoci più sui nostri obiettivi e con i nostri tempi, perché non si può buttare l’importante dono della vita solo per non essere stati i più veloci a prendere un titolo di studio o a raggiungere una buona posizione nel lavoro.
Come cantava Battisti su un testo di Mogol: «I giardini di marzo si vestono di nuovi colori (…) ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è». E allora ci si chiede come si può trovare quel coraggio, come si può “trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha”? Forse la risposta sta proprio nel cercarla, nel porsi costantemente queste domande e nell’osservare come le risposte a queste ultime cambino giorno dopo giorno. Circa trent’anni fa l’artista Maurizio Cattelan rappresentava con l’opera “Charlie don’t surf” la mancata libertà dei ragazzi attraverso uno studente con le mani inchiodate al banco da un paio di matite. Oggi, invece, quella libertà che prima si percepiva come mancante, viene quasi sentita come ingombrante, e superflua. Oggi Charlie probabilmente è riuscito a sbarazzarsi di quelle matite che lo tenevano fermo, tuttavia ora che non ha più quel vincolo, come avrà reagito? Io lo immagino finalmente alzarsi, osservare le sue mani, ma con un briciolo di amarezza domandarsi: “E adesso?”.

* Studenti dell’I.S. Majorana-Arcoleo di Caltagirone

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