Articoli

Il Filo di Arianna della politica: Maggioranza/minoranza

da Note di Pastorale Giovanile.

***

di Raffaele Mantegazza

Il principio di maggioranza è fondamentale per il funzionamento di una democrazia. All’interno di qualunque sistema democratico e di qualunque sua istituzione è solo la maggioranza a poter decidere della legittimità di una decisione. Occorre però essere molto chiari su questa questione, perché come già il padre della riflessione filosofica sulla democrazia, Alexis de Tocqueville, aveva sottolineato, il rischio di una cosiddetta dittatura della maggioranza è presente anche in un ambito democratico
Cominciamo col dire che una decisione presa a maggioranza è legittima, il che non significa che sia automaticamente giusta in senso morale. Coloro che si trovano in minoranza devono poter continuare non solo a mantenere la loro idea ma anche a poterla diffondere, anche se non possono mettere in dubbio la legittimità della decisione presa. Proprio per questo motivo in alcune situazioni è stato previsto l’istituto dell’obiezione di coscienza, che non mette in discussione la legittimità di una legge, ma permette al singolo in casi particolari di disobbedire.
Dunque occorre che ogni cittadino e cittadina si ponga le seguenti domande: Quando siamo in maggioranza riusciamo ad accettare il parere e le critiche della minoranza? Quando siamo in minoranza riusciamo ad accettare il fatto che la maggioranza ha deciso qualcosa che noi non condividiamo?
Molto spesso nell’azione politica quotidiana, nelle sedi decisionali come ad esempio i consigli comunali, si verifica una dinamica decisamente poco democratica, secondo la quale qualunque suggerimento o consiglio o critica provenga dall’opposizione deve essere squalificata a priori proprio perché viene considerata automaticamente contraria all’idea della maggioranza. Un paese maturo, una democrazia compiuta dovrebbe al contrario prevedere la possibilità di fare proprie le idee della minoranza, ovviamente se sono coerenti col proprio progetto politico e col programma di governo, mostrando come in realtà proprio l’ascolto di chi sta all’opposizione è un elevato elemento di democrazia
Quando però si sta insegnando la democrazia ai ragazzi e ai giovani occorre anche una riflessione ulteriore. È del tutto ovvio che una classe deve decidere democraticamente il proprio rappresentante o una squadra di calcio il proprio capitano e che gli insegnanti o educatori devono tenerne conto; però, a differenza che nella democrazia compiuta e adulta, si può provare a fare una riflessione insieme ai ragazzi sulle modalità decisionali, sui motivi che li hanno portati a scegliere proprio quella persona, sulla eventuale presenza di condizionamenti che li hanno portati ad esprimere un determinato voto. Insomma imparare la democrazia non significa praticarla in maniera diretta e compiuta, ma imparare a riflettere su di essa

Cosa fare

Si provi a discutere il seguente caso.
Siete insegnanti in una scuola superiore. Avete partecipato a un lungo e burrascoso consiglio di classe della II A nel quale si è stabilito a maggioranza che i ragazzi non potranno più recarsi in bagno nelle prime 3 ore di lezione perché si sono resi colpevoli di danneggiamenti alle suppellettili dei bagni. Il collega Rossi è stato il più nettamente contrario alla decisione e dopo due ore di discussione il provvedimento è passato a maggioranza. Il giorno successivo arrivate a scuola alle 8.45 e vedete due alunni della classe uscire dal bagno, chiedete loro che lezione abbiano e loro rispondono “il prof. Rossi”.
– Che cosa prova il protagonista in questa situazione?
– Qual è il messaggio che passa ai ragazzi?
– Quali comportamenti alternativi poteva scegliere il prof. B?

Come pensare

Giorgio Gaber
La collana

Su, venite tutti qua che facciamo un gioco Giochiamo al gioco della collana Per essere bello devono giocare tutti, eh? Adesso ve lo spiego: uno di noi alla volta terrà al collo questa collana e dirà agli altri quello che devono fare e gli altri la ubbidiranno Poi quando gli altri ne avranno voglia diranno a quello che comanda il gioco di togliersi la collana e di darlo a un altro e così via, eh?
Allora vediamo un po’ chi comincia Comincio io per primo che conosco il gioco?
Allora, avanti tutti insieme dite: “Pa-ra-pa” (“Pa-ra-pa”)
Bravi. Adesso dite: “Pi-ri-pi” (“Pi-ri-pi”)
Benissimo. E adesso dite: “Po-ro-po”
(“Po-ro-po” No basta no no No senti non ci divertiamo. Tu ci stai facendo fare delle cose completamente imbecilli!)
Accetto volentieri le critiche. Quindi se lo desiderate cambio discorso Dunque: “Pe-re-pe” “Pu-ru-pu”
(Buh ma basta no basta No senti, avevi detto che quando gli altri volevano potevano farti togliere la collana e questo è il momento!)
Certo. Se lo volete dovete allora decidere a chi andrà la collana Fatelo con calma e pensateci bene. E in questa fase di preparazione guardate attentamente la lucina, ecco questa lucina, la vedete? Pensate, concentratevi, pensate liberamente, non lasciatevi condizionare così, bravi, ecco, così!
Avete deciso?
(Abbiamo deciso, votiamo per te!)
Grazie signori! Sono contento della stima e della fiducia che ancora una volta ci avete concesso. Il nostro governo opera con il consenso del popolo per il bene del popolo
Orsù, tutti insieme verso un mondo migliore: “Pa-ra-pa” (“Pa-ra-pa”) “Pe-re-pe” (“Pe-re-pe”) “Pa-ra-pa”, “pe-re-pe” (“Pa-ra-pa”, “pe-re-pe”)

La lettura e/o l’ascolto di questo testo di Gaber può portare a interessanti riflessioni sulla libertà di voto. È vero ovviamente che in democrazia il voto è libero, ma quali sono i condizionamenti che la stampa e i mass-media, la propaganda, il sistema comunicativo possono operare sul soggetto elettore, senza spesso che questi ne sia del tutto consapevole?

Come provare

Attività: “Election Day”

L’esperienza di eleggere un proprio rappresentante nelle dinamiche di una scuola o di una classe è un valido pretesto per un assaggio di democrazia rappresentativa. Peccato che i decreti delegati permettano ai ragazzi di eleggere propri rappresentanti solamente a partire dalla scuola superiore, escludendone la scuola media inferiore. Ma è possibile far eleggere ai ragazzi un capoclasse o meglio ancora farli riflettere sulle dinamiche di gruppo attraverso la seguente attività.
Si forniscono ad ogni ragazzo quattro bigliettini chiarendo che le risposte sono del tutto anonime. Si procede poi a formulare la prima domanda, la cui risposta deve essere scritta sul primo bigliettino:
in caso di una gita scolastica con quale compagno divideresti la stanza d’albergo per una notte?
Ritirati e non letti i bigliettini si procede con le altre domande:
– un professore ha dato alla classe una punizione ingiusta; a quale compagno assegneresti il compito di andargli a parlare per convincerlo a ritirare la punizione?
– la classe ha fatto una colletta per un acquisto comune; a quale compagno affideresti per tre giorni la cassa di 1000 euro?
– a quale compagno chiederesti aiuto per un compito in classe di (…)
Solo a questo punto si proceda a leggere i bigliettini stipulando la classifica delle preferenze. Ovviamente questo gioco ha come obiettivo il reperimento di quattro differenti figure di leader, e precisamente:
– il leader amicale, ovvero il ragazzo che è maggiormente in grado di tessere relazioni umane nel gruppo;
– il leader “politico”, ovvero il ragazzo rispetto al quale la squadra si sente rappresentata in situazioni difficili;
– il leader “affidabile” ovvero il ragazzo di cui ci si fida per onestà e soprattutto per serietà;
– il leader per competenze.

È da considerare significativa da parte di un singolo ragazzo una raccolta di preferenze pari a ¼ del gruppo. Ovviamente è possibile che non tutti i quattro ruoli siano ricoperti in modo preponderante da qualcuno (può darsi una dispersione di voti), come è possibile che una sola persona possa avere la predominanza su più aree (è assai difficile però che un ragazzo conquisti la maggioranza dei voti su tre aree). Questo gioco è molto utile anche per la scelta del capoclasse: in questo caso ricordando che il capoclasse deve esser espresso dalla classe e non dal docente, può esser utile chiedere in anticipo ai ragazzi quale area ritengano più significativa per la scelta del capoclasse, e dunque fare una specie di “scaletta”.

Cosa domandarsi

Anche a partire dall’esempio sopra riportato un gruppo di educatori potrebbe chiedersi:
– quante decisioni vengono veramente prese a maggioranza?
– quanto tempo dedichiamo alla discussione prendendo in considerazione i suggerimenti di tutti?
– come si comporta un educatore quando non condivide una decisione presa dalla maggioranza, ma in qualche modo è chiamato a renderla operativa con i ragazzi?

Il filo di Arianna della politica – Propoaganda

di Raffaele Mantegazza

Come parlare 

“Quando il partito dice che il bianco è nero bisogna convincersi che lo è davvero”: che sia una battuta, un aneddoto, una leggenda metropolitana, questa frase è di volta in volta attribuito a demagoghi di destra o di sinistra per mostrare come la propaganda sappia mettere in discussione qualunque verità, ovviamente non dal punto di vista oggettivo ma da quello soggettivo di chi si autoconvince della verità di ciò che viene propagandato.
A rigore ovviamente la propaganda si rivolge a persone adulte, perché ha bisogno comunque di un minimo di base di conoscenza da parte dell’interlocutore. Ma altrettanto ovviamente, più si abbassa il livello culturale di quest’ultimo, più la propaganda diventa becera, rozza, schematica. Forse una visione in bianco e nero del mondo è molto più accettabile da parte di persone semplici e in un effetto circolare disincentiva la loro capacità critiche e la loro ricerca di informazioni verificabili.
In ambito politico però almeno a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo la propaganda è stata sostituita o perlomeno affiancata da qualcosa di molto più subdolo: si inizia infatti ben presto, fin dalla più tenera età, a sottoporre i bambini e le bambine a messaggi iper-semplificati, che colpiscono direttamente le emozioni senza permettere una crescita razionale. A rigore non si tratta più nemmeno di propaganda ma di mero condizionamento, che bypassa quasi completamente il livello della coscienza e dello spirito critico. Stiamo dunque parlando di messaggi molto subdoli, che oltretutto conferiscono all’ascoltatore una specie di senso di superiorità. Si è sentito molto spesso dire a proposito del terrapiattismo o della polemica contro i vaccini che solo coloro che predicavano queste pseudo-verità erano i veri saggi, che tutti gli altri erano ignoranti, schiavi del sistema, squalificati nella loro intelligenza per il semplice fatto di non condividere le idee di questa specie di nuovi profeti.
Questo tipo di propaganda, che a rigore non si potrebbe nemmeno definire tale tanto è ancora più pervasiva della propaganda classica, va dunque a sollecitare e solleticare l’amor proprio e il narcisismo di coloro a cui si rivolge. Ed è ovviamente molto difficile di fronte a un discorso che scavalca totalmente la ragione affrontare queste persone con le armi del ragionamento, delle statistiche, delle cifre, delle prove scientifiche.

Come pensare 

Opere analizzate
– Peter Bichsel, “Un tavolo è un tavolo”, da “Storie per bambini”;
– Hans Magnus Enzensberger, “Ulteriori motivi per cui i poeti mentono”, da “La fine del Titanic”;
– Cesar Vallejo, “Un uomo passa”, da “Spagna allontana da me questo calice”.

La propaganda si serve del linguaggio, e lo fa spesso rimanendo all’interno del linguaggio stesso, come se non le importasse nulla della verità delle proprie affermazioni e del rapporto con la realtà.
Il racconto di Bichsel prova a capire cosa accadrebbe a una persona che pensasse davvero che basti cambiare il nome a un oggetto per cambiare l’identità dell’oggetto stesso. Il delirio raccontato dal narratore è interessante perché molto simile ai discorsi della propaganda che appaiono estremamente seducenti quando modificano le parole quotidiane (basti pensare alle strategie di rinominazione operate da tutti i totalitarismi, nei confronti delle parole straniere, dei nomi di città, dei cognomi, ecc.). Bichsel va fino in fondo nell’illusione di un discorso autoreferenziale che alla fine porta alla totale solitudine
La poesia di Enzensberger invece opera un continuo va-e-vieni tra linguaggio e realtà mostrando come il primo ha un senso solo se in qualche modo fa i conti con la durezza della seconda e non ne rifugge; la stessa cosa avviene nella poesia di Vallejo nella quale la povertà, il dolore, la morte si trovano escluse da un discorso filosofico che non ha alcun altro scopo che non sia celebrare se stesso.

Cosa fare 

Oltre a far discutere i ragazzi sui grandi temi della politica sarebbe opportuno anche abituarli a proteggersi dalla demagogia e dalla propaganda a proposito della loro vita quotidiana. Dunque si potrebbe organizzare un ciclo di comizi tenuti da loro nei panni degli insegnanti, dei professori e dei genitori sui temi:
– È possibile una scuola senza voti?
– Le interrogazioni sono l’unico modo per verificare la preparazione?
– Ha ancora senso l’esame di maturità?
– Le note disciplinari sono uno strumento utile?

Matteo Leone, studente universitario dello IULM di Milano, mi segnala che per l’esame di Public speaking vengono assegnati ai ragazzi alcuni temi sui quali strutturare un breve discorso:
– Gli asparagi e l’immortalità dell’anima
– 4 + 4 = 9
– La cura dell’uva
– Perché seppie con piselli

Come provare

Il “debate” è una metodologia molto usata in ambito scolastico. Come è noto si tratta di proporre ai ragazzi alcuni argomenti sui quali operare prima di tutto una ricerca e una riflessione critica, e poi presentare davanti ai compagni di classe o di istituto un dibattito nel quale ogni squadra di ragazzi ha il compito di illustrare le tesi a favore o contro l’argomento scelto. Si tratta sicuramente di una tecnica interessante, ma il limite che personalmente ne vedo è che troppo spesso l’aspetto competitivo ha la meglio sui contenuti, per cui la discussione spesso si riduce a uno sfoggio di mezzi sofisticati dal punto di vista dialettico ma non a un reale approfondimento. Occorrerebbe in realtà far riflettere i ragazzi sulle procedure utilizzate per arrivare a proporre un discorso e sulle strategie comunicative utilizzate senza necessariamente procedere alla fine a proclamare un vincitore.
Inoltre le regole del gioco prevedono che l’assegnazione delle posizioni pro o contro il tema ai gruppi di ragazzi sia fatta per sorteggio. Se le ragioni di questa scelta hanno un senso (cioè chiedere ai giovani di provare a mettersi nei panni dell’altro) occorre essere molto cauti soprattutto con i ragazzi più giovani proprio perché, come detto sopra, questa operazione può ridursi semplicemente a una ricerca di strategie dialettiche e sofistiche. Forse sarebbe meglio partire dalle reali opinioni dei ragazzi e solo successivamente, dopo aver testato questo metodo, passare alla richiesta di cercare motivazioni per l’idea opposta alla propria.

Cosa domandarsi 

I ragazzi sono esposti alla logica della propaganda soprattutto nelle sue versioni più subdole e sottili, ma sono anche a volte in grado di raccogliere e criticare informazioni vere e autentiche. Occorre che gli adulti si pongano qualche domanda in proposito:
– Quali sono le principali fonti di informazione alle quali accedono i giovani?
– Cosa significa per loro che una informazione è “vera”?
– Quali sono le strategie di verifica delle informazioni che essi usano?
– Qual è la differenza tra una notizia vera e una notizia popolare?
– Qual è il tasso di penetrazione dell’atteggiamento misterico e narcisistico di posizioni come quelle dei terrapiattisti secondo i quali solo chi crede nelle loro affermazioni è saggio e dunque non c’è bisogno di alcuna dimostrazione?
– Qual è il lavoro di rielaborazione critica di una informazione compiuto dai ragazzi prima di comunicarla ad altri?
– Come le risposte alle domande di cui sopra mutano (o meno) a seconda del mutare dello strumento di accesso alle informazioni (fonti orali, fonti cartacee, digitale, ecc.)?
– …

Abbonamenti

 

Il filo di Arianna della politica – Il potere

di Raffaele Mantegazza

Come parlare

Il potere ce l’hanno sempre gli altri. Il dittatore, il presidente, il capufficio, il preside: sembra quasi che il potere sia un oggetto che qualcuno detiene e che qualcun altro può sottrargli. Non stiamo dicendo che questa rappresentazione del potere sia sbagliata, ma è molto semplicistica. Il potere probabilmente è un sistema di relazioni, un modo di rapportarsi con le altre persone; c’è ovviamente chi usufruisce di maggior potere e chi lo subisce, ma pensare il potere in dimensione relazionale vuol dire provare a capire come ridistribuirlo e come affrontare le iniquità e gli squilibri.
In fin dei conti il principio di divisione dei poteri, già per il fatto di parlare al plurale, ci mostra una possibile strada. Il potere è una questione di equilibrio e di squilibrio, di relazioni che vanno controllate, monitorate e se necessario modificate.
Chi ha il potere dunque in una classe scolastica? Da un certo punto di vista sicuramente l’insegnante, ma anche il leader positivo o negativo, il ragazzo o la ragazza più grandi, il gruppetto che determina l’umore e la possibile collaborazione dei ragazzi alla lezione. Impostare il potere come strategia di relazioni aiuta i ragazzi e le ragazze a capire che stiamo parlando di un oggetto molto complesso, che non si riduce all’utilizzo della violenza fisica.
C’è inoltre un potere evidente, che si manifesta in modo esplicito, che si presenta in tutta la sua fisicità e la sua forza, anche con la violenza; e c’è accanto ad esso un potere più suadente, più sottile, evidente nella pubblicità o in una certa propaganda elettorale. C’è un potere che ti fa star male, che ti ferisce, che ti punisce, ma c’è anche un potere che ti fa stare bene, un poter-fare le cose, un poter alleviare le sofferenze. Ogni visione solamente negativa del potere ci sottrae la possibilità di comprenderlo in tutte le sue articolazioni, e ci nega l’opzione di stare all’interno del potere con l’intenzione di promozione e di miglioramento della dignità umana su questo pianeta.
Dunque proporre il problema del potere ai ragazzi e alle ragazze significa aiutarli a capire come il potere circola tra di loro; non solo il potere dei genitori e degli insegnanti, ma tutte le relazioni nelle quali qualcuno tra loro, nei loro gruppi, nelle loro aggregazioni, sente di esercitare o di subire un potere. E tutti gli spostamenti, i cambiamenti, le ridefinizioni che questo sistema subisce e agisce con il passare del tempo. Abituare a vivere il potere nella quotidianità è fondamentale per poi capire quanto la ritualizzazione del potere tipica dei meccanismi democratici ammorbidisca da un certo punto di vista la sua pervasività e lo renda padroneggiabile o perlomeno controllabile.
Esiste poi un potere che cancella, che punisce, che ferisce, il tipico potere della censura, ma anche un potere che costruisce, che fa essere le cose; e c’è poi anche un potere che lascia essere, che si fa da parte, che lascia il campo agli altri. Quando si parla di educazione alla politica, il tema del potere deve essere trattato in ogni suo aspetto, altrimenti si conduce a una a semplificazione che porta a pensare semplicemente che si possa prendere il potere e cambiare le cose; il che ovviamente è anche vero; ma se non si modificano le dinamiche di relazione tra le persone, la semplice presa del potere di per sé non può assolutamente bastare.

Come pensare

→ Opera analizzata: Nella mia ora di libertà di Fabrizio de Andrè

In questa canzone l’autore immagina che un prigioniero voglia eliminare tutto ciò che potrebbe fargli dimenticare di trovarsi in carcere, e in particolare per questo motivo rinuncia all’ora di libertà. È come se volesse incarcerare psicologicamente i suoi stessi secondini mantenendo le distanze da essi e relegandoli al ruolo di guardie.
Si possono porre a questo proposito alcune domande:
– È giusto questo atteggiamento che cerca un allontanamento totale dalla guardia senza nessuna possibilità di incontrarsi umanamente?
– quale potrebbe essere invece un gesto fatto dal prigioniero o dalla guardia per trovare un incontro al di là dei ruoli?
– quali sono le altre situazioni nelle quali rischiamo di essere imprigionati nei ruoli di potere e non riuscire ad uscirne vedendo l’umanità nell’altro?

→ Opera analizzata: La ronda dei prigionieri di Vincent van Gogh

In questo quadro i prigionieri girano a vuoto continuamente.
Anche qui si possono porre alcune domande:
– dove si trova il potere in questo quadro?
– qual è il sentimento che possano provare i prigionieri sapendo che stanno camminando senza fare nulla e senza produrre nulla?
– se dovessimo aggiungere al quadro la figura del secondino, lo faremmo visibile oppure nascosto mentre osserva i prigionieri?
– quale gesto di ribellione possono fare i prigionieri per riuscire a contrapporsi al potere che stanno subendo?

Cosa fare

L’educatore Vladimir Makarenko racconta che nella sua comunità, quando si trattava di punire un ragazzo che aveva trasgredito alle regole, chiedeva sempre ai suoi coetanei quale sarebbe stata la punizione migliore; e doveva sempre intervenire per rendere meno severa l’applicazione delle regole, perché la punizione scelta dei ragazzi era sempre eccessiva. Si potrebbe ragionare in modo molto aperto con i ragazzi sul tema del rapporto tra trasgressione e punizione, su quanto il potere sia qualche cosa che punisce ma anche qualcosa che permette di fare e di produrre.
Ad esempio si può proporre un gioco consistente nel fatto di immaginare che in un gruppo di ragazzi a turno per un’ora ognuno possa far fare agli altri tutto ciò che vuole, e in una seconda situazione in cui sempre a turno ognuno possa offrire agli altri una parte del suo talento: quali sarebbero le differenze tra le due situazioni? A questo proposito sarebbe anche interessante proporre l’ascolto del monologo La collana di Giorgio Gaber.

Come provare

Quando si lavora con un gruppo di adolescenti, è molto importante provare a capire come gestiscono il loro potere e i loro rapporti reciproci. Da questo punto di vista un esercizio estremamente utile è quello di farli provare a decidere su temi per loro importanti come gli orari, la strutturazione delle attività, la scansione della verifica in una classe, ecc.
Dopo averli osservati durante la loro discussione, è interessante far emergere gli impliciti, i ruoli di potere, le negoziazioni, le modalità attraverso cui hanno preso una decisione.
Quando un gruppo di ragazzi non è mai stato investito da una responsabilità di decidere, non si può porre la questione del potere in modo astratto, così come non la si può porre nemmeno quando i ragazzi sono totalmente abbandonati a loro stessi senza avere un adulto che cerca di aiutarli a prendere le decisioni.

Cosa domandarsi

Ovviamente è estremamente importante per l’educatore porsi delle domande a proposito del proprio potere e del proprio ruolo, ad esempio:
– quanto potere gioco con questi ragazzi specifici?
– quanto mi lascio eventualmente travolgere dal mio ruolo di potere magari senza rendermene conto, e così ferisco i ragazzi e le ragazze?
– quanto sto riproducendo con questo gruppo di giovani le dinamiche di potere che ho subito alla loro età, e rispetto alle quali non sono ancora sufficientemente risolto?
– quanto sono da condividere il mio potere nel rapporto collegiale e di collaborazione con gli altri educatori?

Abbonamenti

Il filo di Arianna della politica: il potere

Da Note di Pastorale Giovanile.

***

Raffaele Mantegazza

Come parlare

Il potere ce l’hanno sempre gli altri. Il dittatore, il presidente, il capufficio, il preside: sembra quasi che il potere sia un oggetto che qualcuno detiene e che qualcun altro può sottrargli. Non stiamo dicendo che questa rappresentazione del potere sia sbagliata, ma è molto semplicistica. Il potere probabilmente è un sistema di relazioni, un modo di rapportarsi con le altre persone; c’è ovviamente chi usufruisce di maggior potere e chi lo subisce, ma pensare il potere in dimensione relazionale vuol dire provare a capire come ridistribuirlo e come affrontare le iniquità e gli squilibri.

In fin dei conti il principio di divisione dei poteri, già per il fatto di parlare al plurale, ci mostra una possibile strada. Il potere è una questione di equilibrio e di squilibrio, di relazioni che vanno controllate, monitorate e se necessario modificate.

Chi ha il potere dunque in una classe scolastica? Da un certo punto di vista sicuramente l’insegnante, ma anche il leader positivo o negativo, il ragazzo o la ragazza più grandi, il gruppetto che determina l’umore e la possibile collaborazione dei ragazzi alla lezione. Impostare il potere come strategia di relazioni aiuta i ragazzi e le ragazze a capire che stiamo parlando di un oggetto molto complesso, che non si riduce all’utilizzo della violenza fisica.
C’è inoltre un potere evidente, che si manifesta in modo esplicito, che si presenta in tutta la sua fisicità e la sua forza, anche con la violenza; e c’è accanto ad esso un potere più suadente, più sottile, evidente nella pubblicità o in una certa propaganda elettorale. C’è un potere che ti fa star male, che ti ferisce, che ti punisce, ma c’è anche un potere che ti fa stare bene, un poter-fare le cose, un poter alleviare le sofferenze. Ogni visione solamente negativa del potere ci sottrae la possibilità di comprenderlo in tutte le sue articolazioni, e ci nega l’opzione di stare all’interno del potere con l’intenzione di promozione e di miglioramento della dignità umana su questo pianeta.

Dunque proporre il problema del potere ai ragazzi e alle ragazze significa aiutarli a capire come il potere circola tra di loro; non solo il potere dei genitori e degli insegnanti, ma tutte le relazioni nelle quali qualcuno tra loro, nei loro gruppi, nelle loro aggregazioni, sente di esercitare o di subire un potere. E tutti gli spostamenti, i cambiamenti, le ridefinizioni che questo sistema subisce e agisce con il passare del tempo. Abituare a vivere il potere nella quotidianità è fondamentale per poi capire quanto la ritualizzazione del potere tipica dei meccanismi democratici ammorbidisca da un certo punto di vista la sua pervasività e lo renda padroneggiabile o perlomeno controllabile.

Esiste poi un potere che cancella, che punisce, che ferisce, il tipico potere della censura, ma anche un potere che costruisce, che fa essere le cose; e c’è poi anche un potere che lascia essere, che si fa da parte, che lascia il campo agli altri. Quando si parla di educazione alla politica, il tema del potere deve essere trattato in ogni suo aspetto, altrimenti si conduce a una a semplificazione che porta a pensare semplicemente che si possa prendere il potere e cambiare le cose; il che ovviamente è anche vero; ma se non si modificano le dinamiche di relazione tra le persone, la semplice presa del potere di per sé non può assolutamente bastare.

Come pensare

→ Opera analizzata: Nella mia ora di libertà di Fabrizio de Andrè

In questa canzone l’autore immagina che un prigioniero voglia eliminare tutto ciò che potrebbe fargli dimenticare di trovarsi in carcere, e in particolare per questo motivo rinuncia all’ora di libertà. È come se volesse incarcerare psicologicamente i suoi stessi secondini mantenendo le distanze da essi e relegandoli al ruolo di guardie.
Si possono porre a questo proposito alcune domande:
– È giusto questo atteggiamento che cerca un allontanamento totale dalla guardia senza nessuna possibilità di incontrarsi umanamente?
– quale potrebbe essere invece un gesto fatto dal prigioniero o dalla guardia per trovare un incontro al di là dei ruoli?
– quali sono le altre situazioni nelle quali rischiamo di essere imprigionati nei ruoli di potere e non riuscire ad uscirne vedendo l’umanità nell’altro?

→ Opera analizzata: La ronda dei prigionieri di Vincent van Gogh

In questo quadro i prigionieri girano a vuoto continuamente.
Anche qui si possono porre alcune domande:
– dove si trova il potere in questo quadro?
– qual è il sentimento che possano provare i prigionieri sapendo che stanno camminando senza fare nulla e senza produrre nulla?
– se dovessimo aggiungere al quadro la figura del secondino, lo faremmo visibile oppure nascosto mentre osserva i prigionieri?
– quale gesto di ribellione possono fare i prigionieri per riuscire a contrapporsi al potere che stanno subendo?

Continua a leggere
Abbonamenti

Presentazione della rubrica “Il filo d’Arianna della politica”

di Raffaele Mantegazza

Durante uno dei miei viaggi ho conosciuto una guida turistica, un uomo estremamente simpatico e gentile, con una grande capacità comunicativa. Entrato in confidenza gli chiesi qualcosa a proposito del suo lavoro; lui mi disse che la prima regola che veniva insegnata a coloro che guidavano i gruppi italiani nei viaggi organizzati era: “non parlate mai di calcio e di politica”. Una regola ferrea pensata per evitare qualunque tipo di conflitti con i turisti.

Evidentemente la politica è un oggetto complesso, si porta dietro tutta una scia di conflitti e di nodi non risolti, e soprattutto in ambito educativo molti condividono questa regola imposta alle guide turistiche; non si parla di politica, farlo significa condizionare, fare propaganda, plagiare. Questa confusione tra scienza della politica e propaganda, tra educazione alla politica e indottrinamento ha alle spalle una lunga storia nel nostro Paese, a partire ovviamente dal regime fascista che educava certo alla politica ma a una politica totalitaria e distruttrice, ma anche dalla storia più recente, dalla quale ci si tiene ben alla larga, come se nominare Silvio Berlusconi o Massimo d’Alema avesse immediatamente il sapore della propaganda e trasformasse un ambito educativo in una Tribuna elettorale.
In questa rubrica cercheremo di capire come muoversi nel labirinto della politica attraverso il filo di Arianna dell’educazione. Capiremo anzitutto che la politica non è soltanto quella che viene rappresentata dalle istituzioni, anche se quest’ultima è fondamentale e ogni cittadino o cittadina civile dovrebbe conoscerla anche molto a fondo. Capiremo però che la politica è anche altro, è il proprio modo di collocarsi all’interno di una comunità e di una collettività, e dare senso e valore ai gesti quotidiani in una prospettiva che li trascende e che va oltre. Questo andare oltre è tipico anche dell’educazione, e infatti a questo proposito educazione e politica possono stringersi la mano.

Fare politica significa credere nel futuro, alimentare la speranza, pensare ad una collettività futura per uomini e donne felici e solidali; in fin dei conti significa realizzare la speranza di Martin Luther King: “non potrò essere felice finché uno solo dei miei fratelli sarà schiavo”; fare educazione significa dare futuro a un ragazzo o una ragazza, immaginarseli adulti, e quindi compiere un gesto politico nel senso di tenere insieme il progetto individuale (rivolto a questo specifico giovane che ho davanti a me) e il progetto collettivo per la polis nella quale cresce e che lo vedrà sempre più protagonista. Quando si dice che i giovani non amano la politica si fa un’affermazione frettolosa e superficiale: nei miei corsi di scuola di politica svolti sul territorio ho visto ragazzi che hanno un’idea altissima, quasi platonica dell’uomo politico, che deve essere di esempio, ancora più onesto delle persone oneste ancora più irreprensibile del cittadino modello. Un’idea nobile di politica che a volte i ragazzi vedono smentita nei fatti. Ma anche questa rischia di essere un’affermazione superficiale: nel nostro Paese ci sono tanti ottimi amministratori ed eccellenti uomini e donne di politica che hanno messo l’interesse collettivo davanti a quello individuale o di partito, e dei quali e della quale purtroppo si parla troppo poco. Semmai i ragazzi accusano gli adulti di fuggire di fronte ai temi politici e soprattutto di ignorare il contributo che i giovani possono fornire alla politica nel senso più ampio: la storia degli organi di rappresentanza studentesca spesso ignorati dagli adulti all’interno della scuola e soprattutto dell’Università ha un enorme peso sulla percezione che i giovani hanno del rapporto tra adulti e democrazia.

La moda del parlar male della politica a prescindere dalle analisi più specifiche è parallela e speculare a quella del non parlarne. Noi scegliamo invece di parlare di politica e scegliamo di farlo proprio partendo da quelli che sono i fondamenti, riferendoci continuamente alla Costituzione che è il vero testo fondante della nostra democrazia, e proponendo esempi concreti e praticabili con gruppi di ragazzi e di ragazze di qualunque provenienza.

A questo punto può sorgere una domanda: l’educazione alla politica si colloca sul terreno delle emozioni o su quello della razionalità? È del tutto evidente che questi due terreni, per quanto separabili, si incontrano poi nell’esperienza quotidiana di ciascuno. Una politica che parli soltanto alla parte razionale dell’essere umano rischia di essere vanificata dallo scatenarsi di quel mondo emotivo che caratterizza ciascuno di noi: l’esperienza tragica della Repubblica di Weimar e della sua Costituzione avanzatissima travolta dalle emozioni nere scatenate dal nazismo dovrebbe servire da monito; del resto una politica che si rivolge soltanto alle emozioni è estremamente pericolosa, perché va a vellicare quel mondo senza farlo crescere, senza portare le emozioni al concetto e alla ragione.
Il nostro discorso dunque si articolerà in quello spazio di cerniera che collega mondo emotivo e mondo cognitivo e che potremmo definire spazio “prepolitico”; non più emozione e non ancora progetto. È in questo spazio grigio (non nel senso della “zona grigia” di Primo Levi, ma di un territorio che vive anche di sfumature e di ombre) che si colloca la possibilità di educare alla politica.
Il nostro viaggio attraverserà alcune parole chiave, alcuni termini che non possono mancare nel vocabolario di chi si occupa o si interessa di politica e che cercheremo di indagare in tutto il loro spessore semantico e soprattutto storico; semantico perché le parole hanno un significato preciso e soprattutto in ambito politico esse non sono mai neutre; storico perché la politica ha una storia, non è stata inventata ieri e deve essere conosciuta con un atteggiamento di curiosità e interesse per il passato, anche quello più lontano da noi. Molto spesso si afferma retoricamente che è assurdo che i nostri ragazzi studino Cesare e non Aldo Moro; dato per scontato che il fatto che i nostri giovani arrivino alla maggiore età senza che la scuola spieghi loro la storia degli ultimi 50 anni è una totale follia, non è certo Cesare a dover essere sacrificato. Anzi Cesare e Aldo Moro si integrano a vicenda nella loro infinita lontananza perché l’interesse per Cesare nasce sempre da un’esigenza contemporanea, come diceva Benedetto Croce: “il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di ‘storia contemporanea’, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni”.

Anzitutto analizzeremo la parola Politica, come termine introduttivo a tutto il discorso; e poi parole quali Potere, Conflitto, Democrazia, Dittatura/totalitarismo, Partecipazione, Istituzione, Movimento/partito, Maggioranza/minoranza, Leader, Violenza/nonviolenza, Propaganda.
Ogni articolo sarà strutturato in più parti:
– come parlare (una indagine sul vero significato delle parole, nella consapevolezza che saper attribuire il giusto significato a un termine è già un gesto politico);
– come pensare (un approfondimento culturale che porti la politica a confrontarsi con i grandi pensatori, artisti, intellettuali, scienziati, ecc.);
– cosa fare (proposte di lavoro educativo concreto con i ragazzi e le ragazze);
– come provare (cosa significa “fare politica” anche al di fuori delle istituzioni);
– cosa domandarsi (qualche dubbio e qualche domanda aperta).

Speriamo che alla fine di questo viaggio ci sia la passione per la politica; che ce la faccia amare un po’ di più e temere o disprezzare di meno, e soprattutto che ci convinca che alla politica, come a tutte le cose belle e importanti della vita, si può e si deve educare.

Abbonamenti

Grammatica civica / Marcello, Xi Ling, Fatima: dal pronome al nome

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Raffaele Mantegazza

 

Dante, perché Virgilio se ne vada
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada
Purgatorio, XXX, 55-57

L’incontro di Dante con Beatrice è altamente drammatico. Il poeta sta piangendo amaramente per la scomparsa improvvisa di Virgilio che ha concluso il suo ruolo di mentore e lo ha lasciato solo, quando la donna della sua vita inizia un lunghissimo rimprovero, così aspro e violento che addirittura le beate che accompagnano Beatrice intercederanno per Dante cercando di placare l’ira della donna. È un incontro che fa vergognare il poeta e lo fa pentire dei suoi errori. Sembrerebbe un incontro negativo, il più drammatico di tutti quelli finora svoltisi all’Inferno o nel Purgatorio. Ma l’aspetto che maggiormente colpisce in questi versi è che Beatrice è la prima e l’unica persona in tutta la Divina Commedia a chiamare Dante per nome. L’ha notato Jorge Luis Borges: nessuno, nemmeno Virgilio, si è mai rivolto e si rivolgerà mai al poeta fiorentino pronunciando quel vocativo “Dante” che in bocca a Beatrice quasi intenerisce tutte le rampogne che seguiranno.

Che cosa c’è in un nome? Ovviamente c’è la storia, le esperienze di vita, quel qualcosa di magico che ci fa voltare per strada quando sentiamo il nostro nome anche se il richiamo non è rivolto a noi. Con il nostro nome ci identifichiamo, sia che lo amiamo, sia che non ci piaccia; è la base dei nomignoli, dei soprannomi, delle storpiature a volte affettuose a volte crudeli. È la nostra seconda pelle, un intrico di vocali e consonanti che ci definisce, che ci fa essere “qualcuno” di fronte agli altri e di fronte al mondo. Il nome ci fa diventare dei “tu”, e di fronte a chi ci dà del “tu” diventiamo anche degli “io”.
È mia abitudine [1] dare del “lei” agli studenti universitari perché ritengo che l’Università sia un luogo di adulti e vi si debbano intrattenere relazioni adulte, ma sia a me che ai miei studenti piace molto che li chiami per nome a lezione o durante l’esame. “Buongiorno, Simone, iniziamo l’esame”: un modo per dire che l’esame lo devi sostenere proprio tu, ragazzo di vent’anni, che questo nome rende irripetibile e insostituibile, e che io ho ben presente la tua identità di adolescente giustamente filtrata dal ruolo di studente. Gli studenti hanno un numero di matricola: usarlo per qualcosa di altro che per questioni di archiviazione burocratica dei dati significa mettere in campo una relazione spersonalizzata, un rapporto che ha ben poco di umano. Per inciso non ho mai sentito niente di più sciocco dell’affermazione secondo la quale gli studenti universitari sono ormai grandi e non hanno bisogni di tipo pedagogico, emotivo e educativo. Come se questi bisogni finissero con la maggiore età, come se avessero una data di scadenza come i pomodori che si acquistano al supermercato. Semmai occorre considerarli come bisogni adulti, e farli entrare nella relazione educativa in modo differente da come si farebbe con un bambino appunto.

Ho usato sopra l’espressione “i miei studenti”. Questa è la chiave probabilmente per accedere al mondo dell’educazione civica dal versante pedagogico. Questo è il segno di quella straordinaria magia che viene messa in atto dalla relazione educativa, che fa sì che un nome sia qualche cosa di diverso da una semplice parola, e che un nome ripetuto, un’omonimia, non sia mai una vera ripetizione. Tutto questo ci fa veramente accedere al mondo della cittadinanza. I “miei” studenti sono “miei” perché non li possiedo, né individualmente né in serie; ma il loro essere “miei” è segno di una relazione di cura che ha ben chiaro in mente il momento nel quale io non sarò più il loro professore e loro non saranno più i miei studenti, ma torneremo ad essere solamente cittadini. Ho scritto “i miei studenti”, ma probabilmente avrei dovuto scrivere il “mio” Stefano, il “mio” Ionu, la “mia” Chiara. La relazione educativa non si lascia facilmente descrivere a parole, perché cambia ogni giorno al variare dei personaggi e al variare di ciascun personaggio in sé medesimo.

“Tu!” “Io?” “Sì, tu!”. Così Giulio Carlo Argan dà voce al capolavoro La chiamata di Levi di Caravaggio. C’è tutto lo stupore dell’essere chiamato, una chiamata del tutto inattesa, una vocazione che viene a svegliare dal torpore l’ultima persona che si riterrebbe degna di una relazione con il Maestro: cosa che peraltro Gesù è solito fare per tutta la sua avventura terrena. Un tesissimo scambio dialettico che mi sembra emblematico del rapporto io-tu proprio dell’educazione. Io mi rivolgo a te, proprio a te, come l’Imperatore nella novella di Kafka: “L’imperatore – così si dice – ha inviato a te, al singolo, all’umilissimo suddito, alla minuscola ombra sperduta nel più remoto cantuccio di fronte al sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha mandato un messaggio dal suo letto di morte”. Moltissimi anni fa un ragazzo di 14 anni mi raccontava il suo orgoglio perché, nel suo paese sul lago di Como, un anziano al bar lo aveva scelto come compagno in una sfida a scopa. Il fatto di essere stato scelto, indicato, chiamato a sé da una persona che poteva avere l’età di suo nonno aveva dato a questo ragazzo una sferzata di energia positiva. Questo accade sempre nella relazione educativa quando l’allievo si rende conto che le parole del maestro sono rivolte a lui in modo specifico, che c’è qualcuno cioè che si prende cura di lui chiamandolo per nome ed entrando, delicatamente, nella sua vita. E che lo chiama a una nuova vita, perché il nome che entra nella relazione educativa è qualcosa di differente da quello registrato all’anagrafe; è un nome affettivizzato, investito di un progetto, un nome giocato al futuro: il nome di un mio allievo che voglio guidare alla conquista di una nuova identità.
L’educazione è dunque una chiamata; potremmo definirla una vocazione se questa parola non fosse stata sprecata retoricamente per definire l’educatore (“non è un mestiere, è una vocazione!”, il che semmai dovrebbe valere per ogni mestiere realmente scelto dal profondo dell’anima), mentre invece ad essere “vocato” è l’allievo, è lui ad essere chiamato fuori dall’ex-ducere che viene messo in moto dal gesto dell’educatore.

Ma la grande sfida dell’educazione, quella che la rende indispensabile per la formazione del cittadino, è che questo rapporto non resta mai soltanto una relazione duale. Nel rapporto tra maestro e allievo è racchiusa tutta la società. Anche se l’allievo è portato a pensare “fra i tanti ha scelto me”, lo scopo del maestro è quello di fargli concludere: “fra i tanti ha scelto tutti, uno per uno”. Così un registro di classe non è mai semplicemente un elenco, ma un accostare storie, esperienze del mondo; non è soltanto una lista di dati biografici, ma un tentativo di predisporre un reagente all’interno del quale i nomi e le persone provano a conoscersi. Anche i ragazzi si chiamano per nome tra loro, e segretamente chiamano i loro maestri con un nomignolo o con un soprannome, non importa se sarcastico o ironico, l’importante è che sia aperta una comunicazione che non è mai solo tra due persone ma virtualmente tra tutti coloro che sono maestri e tutti coloro che sono allievi, ovvero tra tutti gli esseri umani.
Questo è il senso dello slogan “non uno di meno” che deve costituire il criterio regolatore di ogni azione educativa in una democrazia. La questione non è soltanto mettere a disposizione di tutti risorse e contenuti, ma arrivare al cuore e alla mente di ciascuno senza peraltro ridurre l’educazione a un rapporto privatistico; è tenere insieme il singolo e la collettività: da questo punto di vista allora l’educazione civica non è distribuzione di informazioni, ma è un approccio educativo che nella sua stessa forma è civico al di là di ciò che si insegna. Si può infatti insegnare la Costituzione in modo non solidale, tradendone lo spirito, come si può insegnare la matematica creando veri cittadini e cittadine.

Quello che è davvero civico è il rapporto tra maestro e allievo all’interno di un gruppo, che poi riverbera ovviamente anche nel rapporto tra gli insegnanti tra loro, tra questi e genitori, tra tutti i cittadini. In questo senso la collegialità è uno straordinario strumento di crescita civile e democratica di un gruppo di insegnanti; le riunioni collegiali sono dei microcosmi di democrazia, creano quella collettività adulta che poi andrà a confrontarsi con la collettività di bambini e dei ragazzi, mostrando con l’esempio quotidiano come è possibile crescere solo confrontandosi con gli altri, imparando dai propri errori, cercando di mettere in comune le buone pratiche e gli elementi di scoperta e di innovazione.
Con il nome, il primo elemento linguistico della nostra venuta al mondo, la parola che ci garantisce l’accesso alla cittadinanza e al mondo dei diritti dei doveri, si chiude questa grammatica civica. Una grammatica individualizzata, personalizzata; la “mia” e la “nostra grammatica” per una cittadinanza che non solo non ignora i nomi dei cittadini e delle cittadine, ma ne fa il perno per la costruzione di un mondo giusto per tutti.

NOTA

1 Parte di questo articolo è scritto in prima persona per motivi che dovrebbero risultare chiari dalla lettura.

 

“Grammatica civica”: la nuova rubrica sull’educazione alla cittadinanza

di Raffaele Mantegazza

Il tema della cultura civica e dell’educazione alla cittadinanza è tra i più discussi negli ultimi anni, segno questo di un bisogno che per fortuna il mondo adulto sta affrontando: quello di educare i ragazzi ad essere realmente cittadini di una compiuta democrazia. Perché la democrazia non è un meccanismo che si ripete automaticamente, e non è neppure un istinto naturale che si trasmette con il DNA: è un modo di essere, un costume, un modo di vivere la vita che va rigiustificato e ripresentato ad ogni generazione.
È certo opportuno prevedere nelle scuole momenti specifici di educazione civica, con una loro programmazione e verifiche ad hoc. Ma se tutta la società adulta deve farsi carico della crescita civile delle nuove generazioni, è l’intero mondo dell’educazione ad essere chiamato in causa. Forse l’educazione alla cittadinanza potrebbe costituire il pretesto per abbattere le barriere tra la scuola e il cosiddetto “extrascuola” (iniziando dall’eliminare questa orrenda denominazione) e anche a far penetrare le cosiddette “discipline” scolastiche nel mondo della vita quotidiana?
E se provassimo con la spesso ostica grammatica?
La grammatica italiana non prevede i pronomi civici. Proviamo a inventarli in questa rubrica. Il pronome (o l’aggettivo usato come pronome) ci è famigliare (chi non ha mai detto “io”?) ma è anche una parte del discorso misteriosa; si colloca alla giuntura tra l’identità del singolo “Io sono Marco, unico e irripetibile” e la possibile generalizzazione “anche Lucia è ‘io’ in una frase che la prevede come soggetto”
Pensare l’altro come un soggetto. Pensare me stesso come un complemento di termine. Chiedermi qualcosa a proposito dell’altro, degli altri. Ragionare sul singolo e sul gruppo. Passare dall’anonimato del “lo farà qualcun altro” alla responsabilità del “lo faccio io” alla estensione dell’etica di gruppo “lo facciamo noi”, all’universalizzazione di un etica umana “lo fanno tutti”. E in questo ultimo esempio, passare dal “lo fanno tutti” come routine o imitazione al “lo fanno tutti perché ciascuno singolarmente è convinto che questo sia il bene
Una Grammatica della cultura civica. Il nome, con tutto il suo carico di individualità, di emozione e di storia e con tutte le storture delle rinominazioni (i nomignoli, gli insulti, i numeri tatuati ad Auschwitz); l’aggettivo, e la potenza della qualificazione, che può trasformarsi in stigma (cattivo, puzzolente, diverso) ma può anche liberare la forza nascosta all’interno del soggetto (“nessuno mi aveva mai detto che sono bravo”); il verbo che esprime in sé tutte le possibilità dell’azione umana (la memoria dei verbi passati, la progettualità del futuro semplice, il senso di concatenazione degli eventi del futuro anteriore, la speranza del condizionale, la responsabilità del congiuntivo, il senso di comando un po’ perturbante dell’imperativo.
Intanto proviamo a declinare alcuni pronomi o aggettivi nel senso di una educazione al saper stare con gli altri, al rispetto e alla co-produzione delle regole, alla cittadinanza attiva.

 

 

Continua a leggere
Abbonamenti a NPG

Oltre la vetta

di Raffaele Mantegazza

Poi, a un certo punto, si arriva. La meta si staglia sempre più vicina all’orizzonte, resta da superare l’ultimo canalone, l’ultima cresta, quegli ultimi metri che fanno venire il dubbio sull’opportunità dell’impresa, e poi è finita. Un percorso educativo deve raggiungere le mete che si prefigge; magari in tempi differenziati, apprezzando le deviazioni, però chi educa deve sforzarsi di realizzare ciò che ha programmato. Troppo spesso la progettazione educativa è attuata in modo poco serio e perciò non ottiene i risultati; troppo spesso le finalità dell’intervento educativo sono indicate in modo fumoso. “Favorire la socializzazione, aumentare l’empatia, integrare, potenziare l’autostima” sono frasi che non significano nulla, come se per definire la finalità di una gita sul Cervino si scrivesse “arrivare in cima a un cono di pietra”. Le finalità devono essere definite in modo specifico, gli scopi educativi devono essere pensati sulla base della persona che si vuole guidare; e non sono mai definiti una volta per tutte, perché vanno ripensati riletti e riadattati a seconda del percorso. Ma una volta che si arriva ad una definizione sufficientemente condivisa, lo scopo dell’educatore è e deve essere portare l’educando a raggiungere questi fini. Quando non accade, c’è sempre l’alibi per le mete non raggiunte: è colpa della scuola, è colpa della famiglia, è colpa di internet, è colpa della società. L’arte di educare consiste nel proporre mete raggiungibili, con tempi diversi, anche con strade differenti, arrivare che è l’unico modo per saper ripartire. E nell’assumersi la responsabilità delle vette non raggiunte; non è colpa della montagna se l’alpinista è stato bloccato a metà strada da una bufera; è lui che non ha ascoltato la montagna per programmare la sua scalata.

 

Continua a leggere
Abbonamenti a NPG

La parete e il rifugio: tra fatiche e conferme

di Raffaele Mantegazza

La montagna è tutto: è fatica ma è anche gioia, è frescura ma è anche gelo, è rischio e perciò è avventura, è poter-fare ma è anche non-riuscire-a-fare o rinunciare-a-fare. La montagna è tutto perché è la vita, e così dovrebbe essere l’educazione. Accompagnare un ragazzo sulla strada dell’esistenza dovrebbe significare condurlo attraverso percorsi di liberazione ma anche di fatica, insegnargli a godere ma anche a soffrire. Tutto, non la metà di tutto. L’accompagnatore non può trattare la vita come una specie di menu del ristorante, nel quale si sceglie solo ciò che piace o come una specie di percorso a ostacoli predisposto da un sadico.

È piuttosto triste assistere alla contrapposizione in campo educativo tra le posizioni di chi non elogia mai i ragazzi e si limita a criticarli e attaccarli (“altrimenti si adagiano”) e chi invece non vuole mai sottolineare i loro errori per blandirli illudendosi così di averli dalla propria parte. Il genitore che continua a rimproverare e a punire i figli magari portando altri ragazzi come esempi positivi e quello che invece nega l’evidenza davanti alle loro mancanze sono due facce della stessa medaglia: una educazione dimezzata che non si rivolge alla persona intera ma a una personalità spaccata in due a seconda delle convenienze. Ma l’uomo è uno, tutto intero, e deve essere accompagnato educativamente nella sua integralità.

Da qualche tempo è di moda parlare di emozioni in ambito educativo. Ma educare alle emozioni ha senso se ad essere educate sono tutte le emozioni; paura, gioia, rabbia, speranza, ogni umano moto dell’animo deve essere compreso in un progetto educativo. Nulla di umano ci è alieno: la frase di Terenzio non è solo un monito filosofico ma può e deve essere anche un programma pedagogico. In montagna si va con corpo e anima, con paura e rispetto, con gioia e trepidazione.

In un percorso educativo sottolineare esclusivamente la fatica significa mettere in moto un percorso cieco e far entrare i soggetti in un labirinto senza uscita. La fatica insensata distrugge una persona dall’interno, la rode come una malattia. Non è detto che si debba sempre sapere nei dettagli il motivo della fatica richiesta, non è detto che la meta che faticosamente occorre raggiungere sia del tutto chiara e visibile; a volte è la fiducia nell’educatore che permette al ragazzo di affrontare percorsi faticosi. Ma la fatica di per sé non è educativa, essa è un’esperienza che deve essere collocata su uno sfondo di senso, deve avere una finalità, deve stagliarsi sullo sfondo di una relazione. Altrimenti è fatica inutile, e non è il caso di dimenticare che Primo Levi la presenta come uno dei principali strumenti di spersonalizzazione utilizzati dall’anti-pedagogia dei campi di sterminio.