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Maturi al punto giusto

Davide Guarneri *

Il diploma, le chiavi di casa, la patente, la scheda elettorale: un esame oltre l’aula di scuola

L’Esame di Stato, più comunemente chiamato Esame di maturità, caratterizza fin dal 1923 la conclusione degli studi scolastici ed è giunto a noi attraversando riforme che l’hanno, a seconda del periodo, reso più o meno selettivo, con la presenza di commissari tutti esterni, o tutti interni, o, come oggi, per metà già conosciuti dal candidato. Tesina, buste, quizzone… sono termini ormai noti a tutti e sono parte di un immaginario studentesco che, pur nel cambiamento delle norme, è caratterizzato da una certa preoccupazione in vista di una prova che è rito di passaggio coinvolgente gli studenti e le loro famiglie, nonché i molti insegnanti che, in qualche modo, si sentono anch’essi sottoposti a verifica.
Lo scorso anno, in Italia, sono stati 520.000 i maturandi, 26.188 le classi interessate: dunque numeri importanti, giovani che giungono al termine di un percorso scolastico che li ha impegnati per almeno tredici anni.
Il “tempo della maturità” incrocia i tempi di molte realtà e di molte persone: è un momento unico ed esclusivo per un giovane che, a conclusione di un percorso si trova a fare i conti con la sua intelligenza, le competenze acquisite, la sua capacità di affrontare prove e imprevisti. Non è, dunque, solo la fine di un percorso scolastico, né solo un passaggio verso l’università o il lavoro: “o lavori, o studi” non è l’unica alternativa proponibile, ancor più oggi.
I maturandi sono giovani, cittadini, figli, che vivono dimensioni diverse e complementari rispetto anche al mondo scuola: alcuni sono attivi in gruppi, associazioni, oratori, società sportive, vivono amicizie e innamoramenti, hanno un po’ la testa altrove e si guardano in giro. Nessuno di loro vorrebbe accrescere le file dei NEET (Not in Education, Employment or Training, ovvero non studiare, non lavorare né seguire percorsi di formazione)[1], e un po’ tutti sono preoccupati del futuro, che spesso il mondo degli adulti presenta loro a tinte fosche.
I mesi precedenti all’esame della maturità sono vissuti dagli studenti come tempo di grande impegno e di sacrificio, ma sono anche occasione di riflessione sulla loro vita e sul loro futuro: in tale periodo, molti di loro diventano maggiorenni. Nell’anno della maturità è come se fossero consegnate loro, insieme al diploma, le chiavi di casa, le chiavi dell’automobile, la tessera elettorale.

*Ufficio per l’Educazione, la Scuola e l’Università della Diocesi di Brescia
Vicepresidente Fondazione Comunità e scuola

Incontrarsi: cultura della fraternità in pastorale universitaria

di Alfonsina Zanatta *

La formazione umana nei luoghi della conoscenza

Le vie pastorali prendono solitamente forma dall’intreccio sinergico di ideali, obiettivi generali, tipologia di formazione e temperamento dei responsabili, contesto in cui ci si trova a operare. Nel caso della pastorale universitaria della diocesi di Vercelli quest’ultimo fattore si è rivelato il primo a innescare i processi: sull’impostazione ha influito considerevolmente la presenza in città del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, ateneo di recente formazione con sedi nelle province di Vercelli, Biella e Novara. L’azione pastorale in e con un’università laica ha sollecitato progettualità nuove e originali, spesso accompagnate da intese culturali ed educative con docenti, ma anche con altri attori culturali: da subito le proposte sono state indirizzate, oltre che agli studenti, anche ai giovani del territorio, attraverso linee condivise con l’amministrazione comunale e con l’associazionismo.
Parallelamente, si è progressivamente delineata una distinzione nell’organizzazione ecclesiale: la pastorale giovanile più all’interno della Chiesa, mentre quella universitaria maggiormente attiva in luoghi extra ecclesiali. In uno scenario così variegato la scelta primaria e fondamentale è stata quella di aver cura della persona, e dunque di tentare un dialogo e un’offerta a partire dalla formazione umana. Attenzione dunque ad ogni singolo studente, colto nella sua dimensione più personale e accompagnato nel fare ordine e sintesi nel suo percorso esistenziale e accademico, e speciale cura della crescita nella conoscenza, e dunque offerta di itinerari, seminari e incontri su argomenti centrali per l’affacciarsi con maturità, responsabilità e stile evangelico nel mondo adulto e nella cultura contemporanea, secondo il modello antropologico cristiano.

* Pastorale Universitaria Vercelli.

La parete e il rifugio: tra fatiche e conferme

di Raffaele Mantegazza

La montagna è tutto: è fatica ma è anche gioia, è frescura ma è anche gelo, è rischio e perciò è avventura, è poter-fare ma è anche non-riuscire-a-fare o rinunciare-a-fare. La montagna è tutto perché è la vita, e così dovrebbe essere l’educazione. Accompagnare un ragazzo sulla strada dell’esistenza dovrebbe significare condurlo attraverso percorsi di liberazione ma anche di fatica, insegnargli a godere ma anche a soffrire. Tutto, non la metà di tutto. L’accompagnatore non può trattare la vita come una specie di menu del ristorante, nel quale si sceglie solo ciò che piace o come una specie di percorso a ostacoli predisposto da un sadico.

È piuttosto triste assistere alla contrapposizione in campo educativo tra le posizioni di chi non elogia mai i ragazzi e si limita a criticarli e attaccarli (“altrimenti si adagiano”) e chi invece non vuole mai sottolineare i loro errori per blandirli illudendosi così di averli dalla propria parte. Il genitore che continua a rimproverare e a punire i figli magari portando altri ragazzi come esempi positivi e quello che invece nega l’evidenza davanti alle loro mancanze sono due facce della stessa medaglia: una educazione dimezzata che non si rivolge alla persona intera ma a una personalità spaccata in due a seconda delle convenienze. Ma l’uomo è uno, tutto intero, e deve essere accompagnato educativamente nella sua integralità.

Da qualche tempo è di moda parlare di emozioni in ambito educativo. Ma educare alle emozioni ha senso se ad essere educate sono tutte le emozioni; paura, gioia, rabbia, speranza, ogni umano moto dell’animo deve essere compreso in un progetto educativo. Nulla di umano ci è alieno: la frase di Terenzio non è solo un monito filosofico ma può e deve essere anche un programma pedagogico. In montagna si va con corpo e anima, con paura e rispetto, con gioia e trepidazione.

In un percorso educativo sottolineare esclusivamente la fatica significa mettere in moto un percorso cieco e far entrare i soggetti in un labirinto senza uscita. La fatica insensata distrugge una persona dall’interno, la rode come una malattia. Non è detto che si debba sempre sapere nei dettagli il motivo della fatica richiesta, non è detto che la meta che faticosamente occorre raggiungere sia del tutto chiara e visibile; a volte è la fiducia nell’educatore che permette al ragazzo di affrontare percorsi faticosi. Ma la fatica di per sé non è educativa, essa è un’esperienza che deve essere collocata su uno sfondo di senso, deve avere una finalità, deve stagliarsi sullo sfondo di una relazione. Altrimenti è fatica inutile, e non è il caso di dimenticare che Primo Levi la presenta come uno dei principali strumenti di spersonalizzazione utilizzati dall’anti-pedagogia dei campi di sterminio.

A tu per tu con Bakhita

Liliana Ugoletti *

Sì, è proprio lei, Bakhita, la nuova Santa della terra africana del Sudan.
1° ottobre del 2000: Piazza S. Pietro è vestita a festa e gremita di gente di ogni colore. La grande gigantografia di Madre Giuseppina Bakhita troneggia armoniosa sull’elegante cinquecentesca facciata della Basilica: la madre di tutte le chiese.
La sua testimonianza, il suo messaggio, la sua voce, il suo racconto viaggiano in tutto il mondo, non si spengono in sordina, come avrebbe desiderato: “… me ne vado, adagio adagio…”, ma tracciano una scia luminosa di continuità tra passato, presente, futuro.
Una filosofia essenziale ha guidato la vicenda terrena di Bakhita, nonostante la mancata fanciullezza per le ingiustificate malvagità e il ripetersi quotidiano, nell’età adulta, di piccole sofferenze, trampolino di lancio per la sua santità.
“Unico mio desiderio è di far contento il Signore”.
È la Santa “moretta”, come amano chiamarla gli abitanti di Schio, ma lei si definisce la donna semplice, tranquilla, a volte timida. Il suo sorriso dolce, sincero conquista tutti, grandi e piccoli. Con i bambini ha un rapporto particolare: è la suora di cioccolata che li accoglie ogni mattina e loro giocano a toccarla divertiti perché non si sporcano le mani.

Chi è Bakhita?

Giovanni Paolo II l’ha definita “Sorella universale”. Benedetto XVI ampiamente l’ha citata nella “Spe salvi” e Papa Francesco la porta come esempio in più circostanze dedicandole un ampio passaggio nell’enciclica “Gaudete et exsultate”. È la donna forte, simbolo di come Dio trasformi le persone liberandole dalle loro schiavitù.
Bakhita, la neretta, originaria del Darfur, fatta schiava alla fine del secolo scorso, in una terra come il Sudan dove ancora oggi la schiavitù è cosa normale. Liberata, portata in Italia, extracomunitaria… analfabeta, conosce l’amore di Dio per gli uomini e si fa suora. È grande l’amore per la sua Africa e lo consegna a noi: “Ricordatevi del mio Paese, della mia gente … Oh, come volerei laggiù… Una voce interna mi diceva che non l’avrei più riveduta”.
Bakhita è affascinata dal suo Signore, il “Paron”, come bonariamente preferisce chiamarlo nel dialetto veneto, la lingua italiana da lei parlata e non trova altro modo che ricambiarlo facendosi santa, così, semplicemente, senza grandi azioni, senza stupire. In lei, nel suo essere religiosa, la gente vede la santità e avvicinandola si sente coinvolta da quell’affetto di madre che solo una donna può avere per i suoi figli e si sente toccata dall’amore di Dio. “Sono Fortunata… il Signore mi vuole bene”.

*Religiosa Canossiana

La messa è finita. Iniziamo a pregare

Il numero 04/2020 di Note di Pastorale Giovanile è disponibile online in modo gratuito (si può scaricare anche da qui). Segnaliamo un articolo di Elena Massimi.

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Capita spesso, particolarmente in celebrazioni che vedono un’ampia partecipazione giovanile, ma non solo, di non avere un attimo di respiro, di arrivare all’Ite missa est talmente stanchi, solo desiderosi di un po’ di silenzio, di pace, di “riposo”. Ministranti affaccendati, coro che riempie ogni momento “vuoto”, come se dovesse intrattenere i fedeli, sacerdoti che spiegano passo passo la celebrazione….un fluire “a tutto gas” di gesti, parole, suoni, senza una pausa, “una fermata”, un “attimo di silenzio”. Partecipiamo all’eucarestia con l’impressione di non pregare e attendiamo con ansia la fine della Messa per il meritato (sempre se ci viene concesso) momento di silenzio e di preghiera.
Questa non è liturgia: le parole e i gesti possono vivere solo se messi in relazione al silenzio, alle pause, alle soste… Allo stesso tempo però constatiamo come anche celebrazioni scandite da tempi lunghi di silenzio e meditazione, possano risultare ugualmente poco proficue. Il silenzio viene allora vissuto come “assenza di rumore e di parola” e non come “vertice di una comunione”.
Dovremmo forse fare memoria delle parole di R. Guardini, ancora così attuali: “A mio avviso la vita liturgica inizia con il silenzio. Senza di esso tutto appare inutile e vano […]. Il tema del silenzio è molto serio, molto importante e purtroppo molto trascurato. Il silenzio è il primo presupposto di ogni azione sacra”( R. GUARDINI, Il testamento di Gesù, 33).
Se, quindi, il silenzio è il presupposto imprescindibile di ogni azione liturgica, dovremmo iniziare a domandarci in quali momenti della celebrazione eucaristica farlo, come gestirlo, quali i criteri, le vie, perché possa divenire luogo di ascolto profondo.

 

Vivere in un mondo digitalizzato. Un invito a coltivare uno sguardo profondo

Pubblichiamo l’editoriale di don Rossano Sala sul prossimo numero di Note di Pastorale Giovanile.

Sono connesso dunque esisto!

È sempre più una realtà che il mondo giovanile viva immerso nella nuova atmosfera offerta dalla connessione alla rete virtuale: la vita reale tende a coincidere con l’interazione senza interruzione con la rete, creando non semplicemente un doppione della vita “in carne e ossa”, ma un suo perfezionamento o una sua mutazione. Attraverso i personal media in qualunque momento si può essere contemporanei con tutti gli eventi che avvengono nel mondo (pensiamo, ad esempio, alle potenzialità di “Twitter” che ci rende partecipi in tempo reale degli eventi che accadono). Il concetto stesso di vita diviene socializzato in un modo nuovo, in una forma deterritorializzata in cui lo spazio e il tempo assumono forme differenti rispetto all’esistenza passata.
In questo nuovo mondo ciò che viene a mancare radicalmente, dal punto di vista educativo, è la possibilità dell’assistenza nel senso classico del termine: per definizione i personal media sono individuali e prevedono un uso “asociale” e non accompagnato, perché l’educatore non può essere presente e non può quindi “assistere”. Se invece il personal media è utilizzato per relazionarsi ad altri – come di solito avviene –, attraverso un social network, allora in questo nuovo areopago è possibile che un singolo educatore o un’istituzione di pastorale giovanile sia presente, ma certamente in una maniera molto differente rispetto al passato: egli è presente, ma in forma leggera e amicale, paritaria e non gerarchica. È il giovane che decide con chi essere collegato e con chi relazionarsi: la privacy garantita dal personal media esclude di principio la presenza di un educatore e lascia il soggetto in situazione di sostanziale solitudine autoreferenziale nella gestione della propria relazione con le offerte della rete.
Il vero fulcro della decisione e dell’azione è il soggetto individuale ritenuto in genere responsabile e capace di decidere al meglio delle sue amicizie, delle sue frequentazioni e soprattutto delle sue azioni in rete. Sappiamo però, dai dati emergenti e soprattutto dall’esperienza educativa, che non è sempre così: gli adolescenti e i giovani appaiono troppe volte vittime sottomesse di questi strumenti più che gestori responsabili della loro “libertà virtuale”. Solo per fare un esempio, la diffusione a macchia d’olio della pornografia, del sexting e del gioco d’azzardo via internet sono piaghe del mondo giovanile – e non solo – che non si possono sottovalutare, ma emergono come segni di un autismo esistenziale e una relazione oggettivante che deve far riflettere seriamente la società nel suo insieme, nel momento in cui si vorrebbe proporre come società educante.

Continuare a pensare nell’era digitale

La rete allora, potremmo dire, non solo tendenzialmente ci rende più stupidi – in quanto indebolisce e riduce la capacità di lettura profonda della realtà e ci toglie quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigile e reattivo – ma ci offre opportunità inedite e non filtrate di scadere in alcuni comportamenti che rischiano di non solo di essere moralmente inqualificabili, ma di diventare patologici sotto ogni punto di vista, disgregando un tessuto sociale, culturale e morale condiviso che sempre fa da piattaforma ad una civiltà umana degna di questo nome.
Per i giovani questo non può che aumentare la fatica nello sforzo di diventare adulti, accordando la propria esistenza con le esigenze di verità, di bontà, di bellezza, di giustizia e di santità che risiedono nel loro cuore e che rischiano di essere sempre più schiacciate:

Alla fine, quello che è davvero importante non è tanto il processo del divenire quanto ciò che diventiamo. Negli anni Cinquanta Martin Heidegger osservò: “La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore”. La nostra capacità di impegnarci nel “pensiero meditante”, che Heidegger vedeva come la vera essenza dell’umanità, potrebbe soccombere a un troppo rapido progresso. L’avanzata tumultuosa della tecnologia rischierebbe di sommergere quei raffinati pensieri, emozioni, e percezioni che nascono soltanto dalla contemplazione e dalla riflessione[1].

Un indebolimento e una maggiore fragilizzazione dell’umano sono delle conseguenze inevitabili al fatto che siamo sommersi da un’enorme quantità di materiale comunicativo, che non abbiamo il tempo di valutare, ma che siamo costretti ad assumere in forma bulimicamente irriflessa. Il sovraffollamento della carta stampata, delle centinaia di canali televisivi e di connessioni continue segnano certamente una vera e propria aggressione mediatica organizzata da cui difendersi e prendere distanza critica. Capacità che, senza ombra di dubbio, nessun adolescente e nessun giovane possiede per natura propria e nemmeno per grazia infusa. Ciò che fino a questo momento risulta essere assodato è che «siamo di fronte a una crisi di proporzioni epocali: si sta verificando una sorta di sfaldamento dello statuto antropologico tradizionale dell’individuo»[2].

 

La rosa dei venti

di Simone Bosetti [1]

Un punto importante della Christus vivit è la revisione della pastorale giovanile in chiave vocazionale. Nell’esortazione apostolica di Papa Francesco leggiamo infatti: “Siamo chiamati dal Signore a partecipare alla sua opera creatrice, offrendo il nostro contributo al bene comune sulla base delle capacità che abbiamo ricevuto. […] Di conseguenza, dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale”[2].
Per un giovane, specialmente nel momento delle grandi domande, ogni proposta concorre a costruire le scelte fondamentali della vita: un incontro di catechesi sulla politica, sull’accoglienza, sulle relazioni, un’esperienza estiva, una vita comune!
Sappiamo bene che nel momento in cui siamo in ricerca, non è necessario che, per renderla tale, l’etichetta “percorso di discernimento” sia visibile su ogni proposta a cui aderiamo.
È necessario allora che durante la costruzione di ogni proposta, secondo i più svariati argomenti, possa esserci un’attenzione particolare ai risvolti vocazionali e in generale alle domande vitali che essa può suscitare.
In quest’ottica prende forma “La Rosa dei 20”. Nata su un rilancio dell’Arcivescovo di Milano, Mons. Mario Delpini, tale iniziativa propone ai giovani un’esperienza di vita comune di nove mesi nei territori della nostra diocesi (nel mese di ottobre 2019 è partita la prima concreta esperienza, alla quale stanno partecipando 5 giovani, in un appartamento messo a disposizione da una parrocchia di Milano).

[1] Vicepresidente giovani dell’Azione Cattolica Ambrosiana

Vita comune come esperienza evangelica

 

Marco Fusi [1]

Da diversi anni a questa parte la vivacità pastorale di sacerdoti, religiosi/e ed educatori sta generando una esperienza di annuncio e insieme di consolidamento della fede in diverse parrocchie e in varie realtà ecclesiali. La vita comune si diffonde in modo particolare nelle Diocesi lombarde quale occasione speciale di fraternità tra adolescenti, 18enni e giovani. Alcuni oratori assumono sempre più il volto di una casa con stanze, cucina, sale da pranzo e per incontri; diversi luoghi della comunità vengono provvidenzialmente ripensati in chiave giovanile e fraterna, assumono una identità e un nome nuovo come ad esempio ‘Nazareth’, ‘Betel’, ‘Ermon’, ‘Betania’, per esprimere il desiderio di congiungere in modo armonico Parola e quotidianità, fede e vita, Dio e amicizia.
Si tratta di un sentiero promettente, un semplice e germinale segno dei tempi che domanda alla Chiesa di non abbandonare la sua anima domestica, anzi di svoltare sempre più verso la sua essenziale natura di comunità dei credenti chiamati da Gesù a stare insieme nella diversità.
La Christus vivit, esortazione post-sinodale consegnataci da papa Francesco, ci esorta a dirigerci con determinazione in questa direzione che i giovani stessi con i loro accompagnatori ci stanno suggerendo:
“Fare “casa” in definitiva «è fare famiglia; è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere. Una casa, lo sappiamo tutti molto bene, ha bisogno della collaborazione di tutti. Nessuno può essere indifferente o estraneo, perché ognuno è una pietra necessaria alla sua costruzione» […]”

[1] Ordinato sacerdote nel 2004, dopo aver svolto il suo ministero come vicario parrocchiale negli oratori di Rho (MI) e Vimercate (MB), dal 2019 è responsabile del Servizio per i Giovani e l’Università dell’Arcidiocesi di Milano.

 

Famiglie e giovani nel recente cammino sinodale della Chiesa

Gustavo Cavagnari

La consapevolezza ecclesiale riguardo alla famiglia

Consapevole che il matrimonio e la famiglia sono tra i beni più preziosi «da cui la società non può prescindere»,[1] la Chiesa ha da sempre sostenuto, aiutato, accompagnato e illuminato coloro che vivono o si preparano a vivere il proprio progetto coniugale e familiare. La Costituzione pastorale sulla Chiesa del Concilio Vaticano II ha ricordato ancora una volta che il matrimonio è «l’intima comunità di vita e d’amore coniugale» stabilita dall’alleanza tra un uomo e una donna e strutturata con leggi proprie,[2] e la sua Costituzione dogmatica sulla Chiesa ha anche fatto presente che «da questo connubio procede la famiglia».[3]
Se tra le numerose questioni che destarono l’interesse del Concilio il matrimonio e la famiglia meritarono particolare menzione, questo è dovuto anzitutto al fatto che la loro verità ultima la si trova nel disegno divino rivelato pienamente in Gesù Cristo. Con la redenzione da Lui operata (Ef 5,21-32), il Signore riportò il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (Mc 10,1-12) restaurandoli a immagine della Trinità (AL 63). Per la fede cattolica, dunque, è proprio nel piano di Dio Creatore e Redentore che «la famiglia scopre non solo la sua “identità”, ciò che essa “è”, ma anche la sua “missione”, ciò che essa può e deve “fare”».[4]
In questa luce si comprende perché la Chiesa considera «il servizio alla famiglia uno dei suoi compiti essenziali».[5] Eppure, perché questo impegno pastorale possa avverarsi, la Chiesa è conscia che, oltre alla Sacra Scrittura e alla sua stessa tradizione magisteriale sull’argomento (AL 6), occorre «uno sguardo lucido e assolutamente realistico alla realtà della famiglia oggi, nella varietà e complessità dei contesti culturali in cui si trova».[6]

L’Insegnamento della Religione nella scuola e nel mondo di oggi: davvero una risorsa educativa?

L’esperienza di un insegnante di religione nella scuola secondaria di secondo grado

di Francesco Luppi

“Qui la meta è partire” (Ungaretti). Partire ti costringe a lasciare certezze, a selezionare ricordi, a cristallizzare volti, a sentire nostalgia. E’ toccato anche a me sperimentare un po’ di tutto ciò: quest’estate ho saputo che avrei lasciato la scuola dove sono stato per otto anni. Mi accingevo a partire per un mare sconosciuto lasciando un porto sicuro in cui, tra normali fatiche e altrettante gioie, avevo costruito legami belli e fecondi con colleghi e studenti.
Alcuni miei alunni, venuti a sapere di questo mio passaggio, mi hanno inviato bigliettini che mi hanno riempito il cuore di gioia e tenerezza. Sì, perché uno dei tratti privilegiati del mio mestiere è la possibilità di creare relazioni vere con ragazzi che vivono un’età fondamentale della vita: l’adolescenza. Ecco alcune delle cose belle che mi hanno scritto: “Grazie prof! In questi anni lei non ha fatto religione ma ci ha mostrato come vivere”; oppure: “Grazie perché l’ora di religione ci ha permesso di esprimerci davvero, attraverso il dialogo e il confronto, senza dover aderire a dogmi preconfezionati…”; e ancora: “Sono state lezioni interessanti perché l’attualità è entrata in classe e non ci ha riproposto qualcosa di già sentito e a noi lontano”.
Dopo aver letto questi bigliettini, al di là dell’affetto e della stima, è sopraggiunto in me un senso di sconforto e parziale fallimento; con tutta la fatica che faccio a spiegare e far comprendere il senso dei 10 comandamenti, mi vedo scritto che non faccio religione? O con lo sforzo di rendere ragione oggi di tematiche attinenti la bioetica, la morale sociale, l’affettività rimanendo fedele al patrimonio della Chiesa cattolica, mi trovo scritto che l’attualità è entrata in classe quasi a scalzare un passato religioso che sa di “vecchio”? O ancora: l’apparente novità del dialogo e del potersi esprimere che i miei studenti avrebbero fatto “quasi in esclusiva” nella mia ora e non in tutte le materie scolastiche? Insomma, come sempre, i ragazzi ti mettono in discussione, spingendoti a comprendere meglio sia questo tempo sia la disciplina. Sono proprio i cuccioli d’uomo a mostrare i segni di una possibilità che si affaccia all’orizzonte e che chiede di essere guardata con franchezza e senza paura.