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Don Bosco: una giovinezza fatta da tanti no e altrettanti sì

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Di don Bosco si è scritto e si continua a scrivere che “tutto cominciò da un sogno” e con tale espressione sovente si lascia intendere che egli non fece altro che seguire un itinerario di vita indicatogli fin da fanciullo e ripreso in qualche modo anche più avanti negli anni.
Non è proprio così. A parte il fatto che storicamente il famoso sogno dei nove anni dovette essere poco più che un lampo – e non certo quell’ampio resoconto da lui tracciato 50 anni dopo quando si era in gran parte realizzato (ne abbiamo trattato su questa stessa rivista), – una simile narrazione entra direttamente in conflitto con degli eventi assodati: nell’età delle scelte, vale a dire nella giovinezza e nella prima maturità, Giovanni Bosco si trovò di fronte a delle alternative, dovette operare delle opzioni, prese delle decisioni, senza alcuna certezza di fare quella giusta, quella semplicemente intuita nel sogno infantile.

Adolescente, giovane, respinge concrete possibilità di vita e di futuro

Figlio di contadini, orfano di padre fin dalla prima infanzia, Giovanni Bosco era naturalmente destinato al lavoro nei campi, cui in effetti si avviò quanto prima sia in famiglia, sia nel breve lasso di tempo da preadolescente passato alla cascina Moglia come garzone di stalla. Il fratellastro Antonio non aveva tutti i torti a sostenere che, come futuro contadino, non aveva bisogno di tanti studi. Ma il gusto naturale della lettura e dello studio, la fortuna di incontrare un buon prete di campagna che ne intuì le doti intellettuali, una mamma che aspirava a qualcosa di meglio della vita dei campi per il suo ultimo figlio permisero a Giovannino Bosco di strappare qualche ora al lavoro nei campi per dedicarsi agli studi, ovviamente a prezzo di grandi sacrifici.
Nell’anno trascorso come studente a Castelnuovo (1830-1831) in casa del sarto Roberto Giovanni gli venne offerta la possibilità di rimanere con lui, apprendere bene il mestiere e così un domani prendere il suo posto e con esso la possibilità di essere di eventuale sostegno alla madre anziana. Ma d’accordo con lei respinse la proposta e preferì continuare gli studi a Chieri, a 16 km dal proprio paese. Non era una scelta facile: allontanarsi da casa, ricorrere all’elemosina per pagarsi gli studi, adattarsi a vivere ospite in casa altrui, offrire servizi vari per pagarsi la pigione… Anche a Chieri gli si aprì la strada di poter gestire un domani un esercizio commerciale. Nuovamente rifiutò per il suo desiderio di continuare gli studi.

La scelta dello “stato” di vita

Giunto al loro termine, il diciannovenne Giovanni dovette ancora una volta decidere “cosa fare da grande”. Si sentiva chiamato alla vita sacerdotale, come intuiva dal sogno che si ripeteva, ma “la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato”, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione”.
Optò allora per la vita consacrata; si sottopose all’esame di vocazione presso il convento dei frati Minori Riformati della Madonna degli Angeli a Torino, fu accettato ed era pronto ad entrare in noviziato al convento della Pace in Chieri quando uno strano sogno sulla difficoltà di vivere in un convento lo mise in crisi. Ne uscì a seguito del parere dello zio (sacerdote) dell’amico Comollo con cui si era confidato: rinunciare ad entrare in convento e invece iniziare gli studi in seminario in attesa di conoscere meglio “quello che Dio vuole da lui”.
Superamento l’esame finale di retorica nelle scuole di Chieri, si sottopose ad un nuovo esame, quello per la vestizione clericale. Lo superò e così andò serenamente in vacanza in famiglia a prepararsi alla nuova fase di vita che si apriva davanti a lui. Nell’ottobre ricevette la vestizione clericale dal proprio prevosto ed il 30 ottobre entrò in seminario a Chieri. Aveva vent’anni, aveva ormai scelto di diventare sacerdote, la strada sembrava tracciata… Non poteva certo immaginare quante altre scelte impegnative avrebbe dovuto fare.

Quale missione sacerdotale? nessuna per ora (1841-1844)

Trascorse oltre 5 anni di studio e di formazione in seminario (novembre 1835-maggio 1841), non senza coltivare qualche dubbio sulla sua vocazione sacerdotale, subito fugato dal suo direttore spirituale, amico e conterraneo, don Giuseppe Cafasso.
Ordinato sacerdote nel giugno 1841, dopo l’estate trascorsa in paese gli vennero subito offerte tre possibilità: una, lontano dal paese, a Genova, come maestro-precettore in casa di un ricco signore con l’ottimo stipendio di mille lire annue; e due vicino a casa: cappellano di Murialdo con doppio stipendio rispetto al solito o vicecurato a Castelnuovo. Lo zelante neosacerdote non sapeva che fare, per cui ancora una volta andò a consigliarsi a Torino da don Cafasso. Questi udite tre le proposte le scartò tutte dicendo: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Venite con me al convitto di Torino”. A 26 anni compiuti don Bosco, pieno di giovanile entusiasmo sacerdotale, doveva dunque sospendere ogni progetto apostolico coltivato lungo gli anni di seminario per dedicarsi ad ulteriori studi teologici.

La proposta decisiva

Lungo il triennio di studio al Convitto (1841-1844) ebbe modo di fare varie esperienze sacerdotali sotto la guida di don Cafasso. Due in particolare: al Convitto venne ad insediarsi presto attorno a lui una sorta di oratorio festivo di qualche decina di ragazzi lavoratori, che poi nei giorni feriali lui visitava sul posto di lavoro; di sabato poi si recava personalmente nelle carceri minorili sempre con piccoli doni da distribuire (dolci, frutta, immaginette). Il tutto sotto lo sguardo attento di don Cafasso, che evidentemente era molto interessato al futuro del giovane compaesano.
I problemi si posero al termine del triennio di studio. L’anziano don Giuseppe Comollo, con il parere favorevole dell’arcivescovo Fransoni, lo chiese come economo-amministratore della propria parrocchia. Come dire di no al proprio vescovo? A toglierlo dagli impicci ci pensò il rettore del Convitto, il teologo Luigi Guala, che gli dettò personalmente la lettera di rinuncia.
Gli si avanzarono allora tre altre proposte: vicecurato di Buttigliera d’Asti, oppure ripetitore di morale al Convitto, oppure direttore stipendiato dell’erigendo piccolo ospedaletto accanto al Rifugio, fondato e mantenuto dalla ricca marchesa Barolo per centinaia di “ragazze a rischio”. Non sapeva che fare: solo sentiva il bisogno di non abbandonare i suoi “poveri giovani” che continuamente lo cercavano. Ora questo gli sarebbe stato possibile solo accettando la terza proposta: infatti la predicazione e le confessioni delle ragazze del Rifugio prima e la direzione dell’Ospedaletto poi gli avrebbero concesso spazi di tempo libero per i suoi giovani. Come suo solito si confidò con don Cafasso che però prese tempo: avrebbe deciso dopo le vacanze estive.
Passarono rapidamente e don Cafasso non gli suggeriva nulla. Don Bosco si fece allora coraggio e gli chiese espressamente il suo parere, che avrebbe ritenuto “volontà di Dio “. Don Cafasso gli consigliò di accettare la direzione dell’Ospedaletto, sotto la responsabilità del direttore spirituale delle varie istituzioni della marchesa, don Giovanni Borel, che per altro aveva fatto alla marchesa proprio il suo nome per il suddetto ruolo.

La decisione sofferta

Don Bosco non si allontanava così da Torino, aveva un stipendio sicuro con cui mantenersi, ma per l’assistenza ai suoi giovani, tanto per incominciare mancava un luogo in cui radunarli. Con il consenso della marchesa iniziò con la sua camera (il corridoio e le scale) al Rifugio, ma fu subito chiaro che colà non c’era posto per contenere i ragazzi che aumentavano ogni domenica. Don Borel chiese allora altro spazio alla marchesa che generosamente lo concesse non essendo ancora in funzione l’ospedaletto. L’arcivescovo acconsentì che un locale venisse trasformato in cappella (8 dicembre 1844).
Ma era evidente che era tutto provvisorio. In effetti vari mesi dopo, in prossimità dell’apertura dell’ospedaletto (10 agosto 1845) dovette cercare altro luogo per radunare i giovani. Dal maggio al dicembre peregrinò prima al vicino cimitero di S. Pietro e poi ai Mulini Dora in città. Scacciato da entrambi i posti, dal gennaio all’aprile 1846 fu la volta di casa Moretta e prato Filippi a Valdocco, finché in aprile approdò alla sede definitiva, casa Pinardi a Valdocco. L’Oratorio itinerante dei mesi precedenti aveva trovato una sede stabile
Ma furono mesi di grande impegno anche fisico per don Bosco: svolgere i suoi compiti di cappellano dell’Ospedaletto ma nello stesso tempo cercare ogni domenica nuove chiese dove portare la massa dei suoi giovani a messa; trovare spazio per far loro catechismo e farli giocare; visitarne alcuni lungo la settimana sul luogo di lavoro; pubblicare qualche libretto devozionale ed anche una Storia ecclesiastica di ben 400 pagine ecc. La salute ne risentì tanto che ad inizio gennaio la marchesa, preoccupata, chiese a don Borel di farlo riposare fuori città. Ma i ragazzi non potevano fare a meno del loro don Bosco: andavano da lui a frotte a confessarsi, costringendolo poi a riportarli in città.

La scelta definitiva

Presa in affitto parte di casa Pinardi nell’aprile 1846, don Bosco poteva in certo modo dirsi soddisfatto, anche se c’erano molti lavori da fare per adattarla alle esigenze dei suoi giovani oratoriani e dunque ulteriori spese da sostenere. Ma una nuova tegola gli stava cadendo in testa. A metà maggio la marchesa scriveva a don Borel che stimava moltissimo la persona di don Bosco, che apprezzava oltre ogni dire il lavoro spirituale che egli faceva, ma proprio per questo, vedendolo stanchissimo, chiedeva che si mettesse immediatamente a riposo se voleva continuare a svolgere il suo servizio di cappellano dell’Ospedaletto. Ma aggiungeva una richiesta pesantissima: don Bosco doveva proibire ai suoi giovani di venire ad attenderlo quando usciva dalla sua camera al Rifugio, stante il pericolo di inopportuni incontri con le “figlie di mala vita” colà da lei accolte.
Non aveva tutti i torti la marchesa, ci teneva alle sue opere di carità materiale e spirituale, ma per il trentunenne sacerdote era un autentico aut aut: o con la marchesa e le sue ragazze con tanto di sicuro stipendio, ovvero scindere a fine luglio il contratto “professionale” e dedicarsi a tempo pieno ai suoi giovani oratoriani, cercando altrove i mezzi di sussistenza. A quanto scrive lui stesso, non dovette pensarci su troppo: scelse i suoi “poveri giovani” cui nessuno si interessava, con la conseguenza che mentre la ricca marchesa avrebbe facilmente trovato un sostituto di don Bosco, questi da agosto si sarebbe trovato senza stipendio.
I due mesi di maggio e di giugno 1846 furono molto impegnativi per don Bosco. La stanchezza accumulatosi lo portò ai primi di luglio allo sfinimento. Una probabile polmonite lo inchiodò al letto per tutto il mese, riducendolo in fin di vita, fra la costernazione dei suoi giovani che con le loro preghiere – avrebbe detto don Bosco – la strapparono dalla morte sicura. Nella guarigione don Bosco lesse la volontà di Dio di dedicare la sua vita ai giovani e così, dopo aver trascorso al paese tre mesi di convalescenza con mamma Margherita, con la stessa mamma ai primi di novembre ritornò a casa Pinardi, dove don Borel in agosto aveva fatto trasportare dalla cameretta del Rifugio i suoi effetti personali.

Ma non era ancora finita!

Si potrebbe pensare che, pagato in giugno l’affitto di casa Pinardi e con la mamma accanto, nell’autunno 1846 il futuro potesse apparire meno oscuro, forse anche roseo. Ma non fu proprio così. I secondi anni quaranta furono gravidi di problemi. Anzitutto rimaneva costante il problema economico, nonostante l’aiuto di don Borel, di don Cafasso, della mamma e forse anche – ma don Bosco non lo scrisse mai – della stessa generosa marchesa. Sorse poi presto la difficoltà di trovare dei collaboratori, sacerdoti e laici, stabili per il suo oratorio “festivo” tutto da inventare e che presto si arricchì di scuole serali, con un piccolo internato per giovani senza tetto. Emerse in tempi brevi il problema di farsi accettare dal clero locale che vedevano don Bosco come colui che sottraeva i giovani dalle loro parrocchie. Scoppiò il problema giovanile con molti dei suoi oratoriani e collaboratori che autonomamente si coinvolsero direttamente nelle battaglie risorgimentali e poi lo lasciarono praticamente solo. Spuntò prepotentemente il problema sociale per cui raggruppamenti giovanili potevano essere pericolosi nel caldo clima risorgimentale che annunziava il ‘quarantotto”.
E a seguire, il problema politico della nascita del Regno d’Italiain opposizione allo Stato Pontificio, che l’anno 1860 aveva provocato una dura perquisizione domiciliare a Valdocco per sospetti intrallazzi con la Santa Sede; negli anni sessanta la difficoltà per don Bosco di farsi approvare la società salesiana e le sue costituzioni; negli anni settanta la lunga e dolorosa incomprensione con mons. Gastaldi; negli anni ottanta il complicato insediamento delle missioni in Patagonia…
Pensare che don Bosco abbia avuto una giovinezza facile per cui aveva davanti una sorta di autostrada da percorrere, quella del sogno, senza dover fare delle continue e non facili scelte lungo gli anni, è porsi fuori dalla storia. Così come tradire la storia è pensare che da giovane sacerdote (ma anche più avanti negli anni come si è appena accennato) di fronte a tante difficoltà non si sia mai posto la domanda se “continuare o lasciare” il suo Oratorio.
Se don Bosco è diventato quello che tutti conosciamo, se poi ha raggiunto la gloria degli altari è perché nella giovinezza e nella prima età adulta, sempre ben consigliato da adulti, ha saputo dire tanti no ed altrettanti sì; e questi sì non ha avuto paura a pagarli a caro prezzo, convinto che fosse la volontà di Dio. Solo pochi mesi prima di morire si rese conto che il sogno infantile si era realizzato e scoppiò in pianto. Ne aveva tutte le ragioni.

PS. Con questo intervento sulla giovinezza di don Bosco si chiude la serie di profili della rubrica SANTI GIOVANI E GIOVINEZZA DI SANTI che abbiamo lanciato nel 2019. Amiamo pensare che siano stati occasione, per i giovani lettori ed educatori, di attente riflessioni su come e quando Dio chiama ad una vita di santità da altare (o almeno della porta accanto come direbbe papa Francesco). Ci torna gradito in questo momento il fatto che fra i patroni per la giornata della GMG di Lisbona 2023 siano stati scelti, fra gli altri, don Bosco “educatore di santi” e i beati Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo, Chiara Badano e Caro Acutis”, tutti personaggi di cui abbiamo narrato vita e santità in questa rubrica.

Marcel Callo: molto, troppo cattolico per non essere arrestato e condannato

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Alla lettura della biografia di Marcel Callo scritta da J. B Jégo (Un exemple, Marcel Callo. Rennes, Editions Riou-Reuzé 1946, 194 pp.) il famoso cardinale arcivescovo di Parigi, Emmanuel Shuard, scriveva all’autore nel febbraio 1947: “Inoltre voi avete fatto dell’agiografia. Senza dubbio non bisogna anticipare i giudizi della Chiesa, che soli sono decisivi, ma cosa manca a questo eroe perché sia proclamato santo”? Esattamente il 4 ottobre di quarant’anni dopo papa San Giovanni Paolo II lo elevava alla gloria degli altari fra la schiera dei nuovi beati.
Non è forse il primo scout francese ad essere beatificato, neppure il primo membro della JOC (Jeunesse Ouvriére Chrétienne = Giovani lavoratori cristiani) a raggiungere tali altezze spirituali, ma di certo quella di Marcel Callo è una figura di giovane degna di uscire dai ristretti confini nazionali per essere conosciuta universalmente.

Marcel Callo: chi era costui?

Marcel nacque a Rennes in Bretagna il 6 dicembre 1921, secondo di nove figli di una famiglia molto religiosa. Il fratello maggiore Jean sarebbe diventato sacerdote. Crescere in una numerosa famiglia lo ha abituato fin da piccolo alla condivisione delle cose, all’esercizio del rispetto delle opinioni altrui, alla disponibilità verso gli altri: ne avrebbe fatto tesoro negli anni avvenire. Leader in mezzo ai compagni di scuola, scanzonato come era, non dimostrò grande interesse negli studi, ma comunque, intelligente come era, riuscì a superare le prove scolastiche della fanciullezza. Nello stesso tempo però frequentava la vicina comunità dell’Adorazione e il monastero delle Clarisse, servendovi la messa da puntuale chierichetto ed eccellente cantore. Dell’Eucaristia sarebbe sempre stato un fervido promotore fra i compagni, soprattutto dopo aver fatto la prima comunione e la cresima. A 12 anni entrò fra gli scout (la troupe 5° Rennes), nel cui seno acquisì i valori educativi vivendone i momenti salienti delle uscite e delle attività, fermo restando che “il dovere dello scout comincia a casa”. In breve tempo era pronto per un grande salto.
Dovendo prepararsi al futuro e nello stesso tempo contribuire al benessere economico della famiglia, a 13 anni, appena finite le scuole, entrò come apprendista in un laboratorio tipografico. Di animo molto sensibile e cristianamente formato, non si trovò a suo agio. La dove passava tutta la giornata, in mezzo ad operai adulti, regnavano sovrane la volgarità e l’irreligione. Le passioni adolescenziali cominciarono presto poi a farsi sentire e dovette ricorrere alla preghiera e all’aiuto della mamma che non mancò di fargli balenare l’idea di entrare in seminario come il fratello maggiore. Rifiutò, voleva “fare del bene” fuori, nel mondo.

Operaio, membro della JOC

Accolse così, appena compiuto i 14 anni, l’invito dell’abbé Martinais ad entrare nella JOC, un’associazione ecclesiale di giovani lavoratori e delle classi popolari che svolgeva un’attività formativa, educativa e di evangelizzazione con e per i giovani lavoratori stessi. Fondata in Belgio nel 1925 dal canonico Joseph-Léon Cardijn, l’associazione si stava sviluppando pure all’estero.
Marcel accettò a condizione di poter continuare il suo cammino da scout. Prestò però si rese conto dell’impossibilità della duplice appartenenza per i tanti e impegnativi legami con il movimento jocista. In essa si impegnò decisamente tanto da diventare in tempi brevi presidente della sua sezione, la Saint-Aubin. Da leader carismatico quale si apprestava ad essere, divenne l’amico e il confidente di tutti i membri e l’anima delle loro attività. La sezione crebbe numericamente, operativamente e spiritualmente, nonostante un ambiente operaio che considerava i giovani lavoratori cristiani dei traditori.
Viveva a fondo il suo ideale:

“Voglio diventare sempre più una guida JOC, un combattente in prima linea puro e gioioso. Nel mio grande amore per i miei fratelli, voglio conquistare giovani lavoratori. Voglio vivere in te, Gesù. Voglio pregare con te. Per la tua gloria voglio donare tutta la mia forza e tutto il mio tempo, in ogni momento della mia vita”.

Arrivò al punto di essere soprannominato “Gesù Cristo”. Anziché offendersi, cercò di esserne degno.
Durante otto anni di attività jocista, dal 1935 al 1943, Marcel diede il massimo di se stesso, imparando sulla sua pelle la necessità della pazienza (aveva un carattere piuttosto irruento) con i soci religiosamente meno formati ma soprattutto coltivando il grande ideale cristiano, con il quale affrontare le difficoltà di ogni giorno. Con il suo forte ascendente sui compagni, in prima persona animava ritiri spirituali, circoli di studio, organizzava feste, promuoveva attività teatrali, lanciava catena di comunioni.
Si propose un programma di vita: “avere un cuore di fanciullo per Dio, un cuore di giudice per se stesso, un cuore di fratello per il prossimo”. I sacramenti dell’Eucarestia e della confessione” lo sostennero sempre anche nei momenti della malattia per la continua esposizione del piombo della tipografia. Lo accompagnava spiritualmente il cappellano della sezione abbé Martinais.
La dottrina del Corpo mistico di Cristo – rilanciata dall’apposita enciclica di papa Pio XII – sosteneva il movimento e ispirava i suoi migliori lavoratori. Nel 1937 Marcel partecipò a Parigi al Congresso per il X anniversario della JOC. Intanto ventunenne, si era fidanzato con Margherita, una compagna della JOC, e più tardi programmarono di annunciare il loro fidanzamento in occasione dell’ordinazione del fratello.

La guerra in città e la chiamata al servizio lavorativo obbligatorio

Nel frattempo, con l’anno 1943, la guerra mondiale era arrivata fino a Rennes. La prima disgrazia che colpì la famiglia Callo fu la morte di Maddalena, la terza figlia, durante un’incursione aerea dell’8 marzo. Contemporaneamente Marcel fu chiamato per andare a lavorare in Germania. Come altri, avrebbe potuto non presentarsi, ma ciò avrebbe esposto a rappresaglie il padre e il fratello, che stava per essere ordinato prete. Inoltre non voleva abbandonare i soci della JOC che avevano deciso di presentarsi.
Il 19 marzo 1943, il giorno del funerale della sorella, Marcel partì “come missionario” per il campo di Zella-Mehlis in Turingia, al centro della Germania, dove arrivò fisicamente e moralmente provato anche in seguito a un’intossicazione alimentare. Si era ferito un dito in una macchina, soffriva di mal di denti, emicranie e coliche. Gli avevano rubato il portafoglio e gli avevano detto che la sua famiglia era stata bombardata. Lo sorreggevano la bibbia che aveva postati con se, alcuni libri e note personali.
Alloggiati nelle baracche del campo con lui vi erano altri francesi. Vennero assegnati alla fabbrica di armi Walther, dove erano impiegati circa tremila lavoratori per dieci o undici ore al giorno. Trascorrevano il resto del tempo nelle baracche, affamati e infreddoliti. I deportati e i prigionieri, qualunque fosse la loro nazionalità, erano maltrattati dalle guardie. Nell’anno precedente all’arrivo di Marcel vi era stata una sola Messa e un’unica assoluzione collettiva. Oltre a questo dispiacere c’erano le prostitute francesi che avevano seguito i deportati. Scrisse in una delle sue numerose lettere conservate (oltre 180 in tredici mesi, spiritualmente profonde, inviate per lo più a famigliari e amici della JOC):

«I due mesi dopo il mio arrivo furono estremamente duri. Non avevo voglia di far niente. Non provavo sentimenti. Mi rendevo conto che mi stavo dissociando a poco a poco. Improvvisamente Cristo mi scosse e mi fece capire che ciò che stavo facendo non era buono. Mi disse di andare e di prendermi cura dei miei compagni. Allora la mia gioia di vivere ritornò».

Tra i deportati e in altri campi nella regione vi erano altri jocisti. Presto si misero in contatto per programmare il loro apostolato. Marcel iniziò organizzando messe con un prete tedesco che conosceva il francese e poteva confessare. Convinse altri ad adempiere al precetto pasquale e presto riuscì a organizzare una Messa mensile alla quale potevano partecipare deportati e prigionieri. Il suo gruppo jocista si incontrava nelle foreste. Vi erano altri gruppi e altre attività: musica, teatro, feste di cui era l’animatore; anche una squadra di calcio in cui giocava. Insegnò ai suoi compagni alcuni giochi, allo scopo di fornire distrazioni salutari e di costruire una rete di contatti per far circolare le informazioni sulla Messa.
Dalla famiglia gli arrivavano cattive notizie: la mamma ammalata, l’impossibilità di partecipare alle feste per l’ordinazione sacerdotale del fratello. Dalla Francia pure cattive notizie: arresti di joicisti e di seminaristi, uccisioni di preti. Il 3 agosto fu arrestato pure e imprigionato il fondatore dei jocisti francese, abbé George Guérin per aver mantenuto, malgrado la proibizione delle associazioni, l’attività della JOC. Alta e solenne, ma sostanzialmente inutile, la protesta del card. Suhard il 24 agosto, a nome di tutto l’episcopato francese. La repressione contro le associazioni e cattoliche non si fermò né in Francia né tantomeno in Germania.

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