Sei qui per prendere o per perdere?

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

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di Giulia Meucci (23 anni, studentessa di Letteratura, Filologia e Linguistica Italiana e maestra di scuola primaria; fa parte dell’équipe di Animazione Missionaria dell’Ispettoria salesiana ICP (Piemonte), ed è animatrice dei gruppi giovani nell’oratorio della Crocetta a Torino). 

Me lo disse un salesiano, ma prima di tutto un grande amico, una mattina di agosto in Kenya. Ero lì in quell’esperienza di estate missionaria con altri giovani, e in quel momento nel mio cuore calò il silenzio. Da quel giorno la mia vita interiore è in perdita, ma in senso buono. In tutti gli anni di oratorio e servizio non avevo mai capito davvero il senso del “dare la vita”, o per lo meno non avevo mai capito come si mettesse in pratica, dovevo fare quasi diecimila km, una follia, una cosa decisamente antieconomica, decisamente “in perdita”… per il mondo forse, per Dio no (e decisamente alla fine neanche per me).
Il sogno di consumarmi, di perdermi per gli altri mi accompagna da tanto tempo, e ha assunto forme diverse nelle varie fasi della mia vita: l’animazione, la missione, l’insegnamento. Sono tutte dimensioni che hanno bisogno di più persone per esistere, questo è perché sono fermamente convinta che da soli non si va da nessuna parte (talmente tanto convinta che questa frase campeggiava nella prima pagina della mia tesi di triennale). Gli altri per la mia vita sono fondamentali, prima di tutto perché è attraverso gli altri che mi sono arrivati i messaggi più importanti, mica cadono dal cielo (o forse sì, ma non nel mondo che penso io o si vede nei film); e poi perché è nel contatto con gli altri che posso mettere davvero a frutto, cioè a servizio, i miei talenti, compreso quello di riuscire a parlare anche con i sassi, che fanno di me quella che sono. Inoltre, senza alcuni altri, le amicizie più profonde, il mio ragazzo, la mia guida spirituale e il mio confessore, non sarei riuscita a dare forma a quello che davvero mi serviva per diventare capace di amare sul serio. Niente corsi o nozioni strane, ma due piccoli-grandi “passi possibili” (Chiara Corbella Petrillo è un’amica che mi accompagna da qualche anno): scoprirmi amata e amabile. Solo così ho smesso di aver paura di perdermi e ho scoperto la direzione chiara e luminosa a cui in realtà da sempre puntavo. Non sono arrivata e non è sempre facile rimanere fedele a questa identità che, per quanto senta forte, resta faticosa e imperfetta; quello che mi rincuora sempre è pensare che tra me è Dio almeno Uno dei due davvero fedele per sempre. Ed è solo alla luce di tutto questo che ora come ora ho un’idea anche abbastanza chiara di chi sono.

Sono un’animatrice in oratorio, ci sono arrivata per caso, o per grazia, perché una mia compagna di pallavolo mi ci ha portata visto che non sapevo cosa fare l’estate appena finita la prima superiore. Da quel giorno sono passati 10 anni e più di un oratorio, eppure la scelta ultima di radicarmi in un posto solo, anche quando le cose non funzionano come vorrei, mi ha fatto scoprire un primo pezzo di strada. Il mio desiderio di servizio, che spesso faceva a pugni con il desiderio altrettanto forte di essere apprezzata, a un certo punto ha vinto. Scoprire che qualcuno mi vuole bene non per quello che faccio o per quanto faccio, ma solo perché sono. oltre ad avermi ribaltata come un calzino mi ha spalancato gli occhi. Mi ha insegnato a chiamare per nome le mie fragilità e a farne squarci che fanno entrare la luce, non perché sono speciale, ma perché anche quegli angoli bui possono essere spazi di servizio verso gli altri. D’altronde, la mia professoressa di italiano del liceo (a cui devo la scelta dell’università e della carriera) diceva sempre che la parte interessante della frase sta sempre dopo il “ma”.

Sono un’insegnante, ho sempre voluto esserlo; da bambina mettevo in fila i miei peluche e spiegavo loro quello che imparavo a scuola (e davo anche i voti!). Sogno di fare l’insegnante di italiano perché ho sempre creduto che la bellezza vada raccontata e che la bellezza sia capace di educare. La cosa più bella (e faticosa allo stesso tempo) però è stata imparare – nel mio piano perfetto e ben calibrato – a lasciar spazio all’imprevisto, a perdere il controllo. È vero che sono un’insegnante, ma non una prof (non ancora), sono una maestra. Lavoro da quasi un anno in una scuola primaria, io che a estate ragazzi ho sempre animato dalle medie in su. Nonostante stia ancora finendo l’università, ho accettato questa proposta e ho scoperto quanto i nostri sogni, quando vengono lasciati nelle mani di Qualcun altro, possono allargarsi a dismisura. Non fraintendetemi, non voglio fare la maestra per tutta la vita, ma questa esperienza ha messo alla prova la mia vita interiore, chi sono e chi voglio essere.
Ho imparato ad avere pazienza, tanta pazienza, con i bambini sì, ma ancora prima con me stessa; a darmi il tempo di imparare e ad avere il coraggio di chiedere aiuto.
Ho imparato che quando i Pinguini Tattici Nucleari cantano “meglio bruciare che spegnersi lentamente, lo ha detto chi non deve illuminare gli altri” hanno proprio ragione.
Ho imparato a imparare dai più piccoli, anche a costo di perdere ogni tanto l’essere più alta di loro.

Sono una missionaria, nel senso più lato del termine. È vero anche però che sono partita per tre esperienze in terra di missione; quindi, forse lo sono anche in senso proprio. A parte questo, la missione dice chi sono e chi voglio essere: mi ha fatto scoprire che la giustizia è qualcosa di molto più concreto e di molto più importante per me di quanto pensavo. E dove la giustizia terrena non c’è, ho scoperto la speranza verso il Paradiso. Ho perso (sempre in senso buono) il desiderio di essere una supereroina e di “salvare” le situazioni; il palcoscenico è bello, ma è ancora più bello quando è condiviso. Andare lontano da casa mi ha aiutata a mettermi in gioco, a uscire dalla comfort-zone e dalla routine, non per scappare, ma per tornare e viverle meglio. Sì ma nel concreto? Forse suonerà come banale, ma se non fossi andata in missione non sarei stata capace di vivere l’università come uno spazio di relazione invece che solo come un insieme di esami da dare per avere in mano il tanto declamato pezzo di carta. Oppure non avrei mai visto con i miei occhi delle persone, dei missionari veri, mica come me, proprio grandi; quelli che dopo anni e anni sono ancora lì, sono ancora entusiasti e amano e si consumano ancora come se fosse il primo giorno. Sogno di essere anche solo un po’ come loro.

Sono Giulia, non un groviglio di pezzi sconclusionato. Non sono perfetta, non ho tutto in chiaro e spesso sbaglio, ma mi sento unificata, pacificata. E per deformazione professionale devo far notare che le due forme verbali precedenti sono passive. Non lo sono per caso.