Italia – Nuovi cardinali: a colloquio con il Rettor Maggiore, Don Ángel Fernández Artime, SDB
Dall’agenzia ANS.
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(Roma, 24 ottobre 2023) – Avrebbe avuto ottime possibilità di intraprendere con successo all’università gli studi in medicina, con una borsa di studio già predisposta per l’occasione. E nei mesi estivi – almeno per un po’ – avrebbe potuto così continuare ad aiutare il padre nella pesca nel golfo di Biscaglia davanti al villaggio asturiano di Luanco. Invece – alla fine degli studi medio-superiori – sentì il richiamo religioso, divenne salesiano… con incarichi di sempre maggiore responsabilità fino a quando nel 2014 fu scelto come decimo successore di don Giovanni Bosco, santo tra i più amati. Oggi Don Ángel Fernández Artime è anche cardinale di Santa Romana Chiesa, creato da Papa Francesco il 30 settembre scorso. In deroga al ‘motu proprio’ del 1962 di Giovanni XXIII non è stato ancora consacrato vescovo. Si presume che lo sarà dopo che il 31 luglio 2024 avrà rassegnato le dimissioni da Rettor Maggiore per assumere l’incarico prefigurato per lui da Papa Francesco.
Avevamo incontrato Don Ángel nel dicembre 2022 grazie alla possibilità offerta a una trentina di vaticanisti di conoscere i luoghi originari del carisma salesiano a Torino e dintorni. Giorni piacevoli tra la prima neve, tante scoperte storiche e artistiche, spirituali, sociali (le opere create a beneficio dei giovani in Piemonte e in tutto il mondo), anche gastronomiche. Al penultimo giorno la ciliegina sulla torta: l’incontro sostanzioso nei tempi e nei contenuti con il Rettor Maggiore. A distanza di una decina di mesi eccoci ora qui, davanti alla stazione Termini, a via Marsala 4,2 dove attorno alla Basilica del Sacro Cuore – anch’essa, come Santa Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, voluta da Don Bosco – sorge uno dei luoghi salesiani romani più famosi…
Rettor Maggiore, Eminenza, introducendo con un saluto a Lei indirizzato la celebrazione eucaristica del primo ottobre scorso nella Basilica romana e salesiana del Sacro Cuore – era per Lei la prima Messa da cardinale – don Stefano Martoglio, il suo Vicario, ha espresso tra l’altro il senso di gioioso stupore suscitato dalla Sua nomina: “Tu, Angel, figlio di Angel e Isabel, fratello di Rocío, Figlio di Don Bosco per vocazione, chiamato al servizio della Chiesa ad un livello grandissimo di confidenza e di responsabilità”. In questa frase emerge in primo luogo la Sua famiglia…
Sono una di quelle persone per le quali le radici sono molto importanti. E io nelle mie radici porto un grande amore per la mia famiglia, con i miei genitori già in Paradiso – mia mamma da tre mesi – per la mia origine di pescatore, per il mio essere nato e cresciuto in un paesino di pescatori, per avere avuto in famiglia cinque generazioni di pescatori, per essere andato con papà in mare nei mesi di giugno, luglio, agosto, settembre da quando avevo tredici anni…
D’estate si pesca certo di più…
E’ il miglior momento dell’anno. D’inverno è molto difficile a causa del mare, il Golfo di Biscaglia. Tutto questo che ho ricordato, come può capire, è restato impresso nella mia carne e mi ha dato forma. Mi ha aiutato a crescere fisicamente, ma soprattutto ha stimolato la mia attrazione per la bellezza della natura, la mia sensibilità per il dono della vita… come quando vedevo papà rientrare la mattina dopo una nottata a pescare. Ho imparato fin da piccolo a ringraziare Dio per questi doni. La mia era una famiglia credente e mi ricordo bene che si recitava il Rosario con la nonna. Questo è stato il mio contesto originario di vita. Lo porto nel mio dna, lo porto nel sangue. Mi sento orgoglioso delle mie origini molto semplici, molto umili.
Nel saluto di don Martoglio in evidenza anche quel “Figlio di don Bosco per vocazione”…
Io non conoscevo i salesiani: sono andato a studiare da loro perché una turista ultrasettantenne che veniva d’estate a Luanco aveva sviluppato negli anni un’amicizia solida con mio padre. Un giorno – io avevo 12 anni – gli chiese che cosa pensasse del mio futuro. Papà rispose che io avrei fatto il pescatore come lui. Lei osservò che ero ben sveglio e che conosceva dei religiosi che si occupavano dell’istruzione dei giovani. I miei genitori obiettarono allora che non sarebbero mai riusciti a pagare la retta, ma lei li rassicurò: “Vedrete che non sarà così cara!”.
Come andò a finire?
I miei genitori accettarono di rinunciare ad avermi con loro tutti i giorni… fu una grande sofferenza specie per mia mamma. Sono così andato a studiare dai salesiani, a 200 chilometri da casa.
E poi, alla fine degli studi medi, cosa successe?
Avevo ormai ben preparato l’accesso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia. Per me era già stata stabilita una borsa di studio consistente, dato che i miei erano di condizione modesta. La medicina la sentivo come vocazione… la sento un po’ anche oggi dentro di me… penso che sarei stato un buon medico di famiglia! Nel contempo però allora sentivo anche, sempre più forte, l’esigenza di chiarirmi con me stesso, perché gli anni dai salesiani mi erano piaciuti molto … apprezzavo tanto il loro lavoro con i giovani. All’ultima estate al mare condivisi con i genitori i miei pensieri, prospettando di diventare un religioso salesiano. Papà e mamma mi dissero: “Figliolo, è la tua vita. Se questo ti renderà felice, va’… non preoccuparti per noi”! Se mio padre mi avesse detto invece: “No, Angel, avrò sempre bisogno di te, del tuo aiuto!”, io avrei rinunciato a diventare salesiano, avrei fatto il medico, d’estate avrei continuato ad aiutare papà. Il momento della domanda della turista e il ‘sì’ dei genitori, il momento della scelta religiosa e l’altro ‘sì’ dei genitori…. non posso non leggere nel nascere e nel concretizzarsi della mia vocazione due grandi interventi di Dio!
Parliamo del Suo stemma, che nella prima sezione dello scudo riporta una figura ben conosciuta…
La figura, molto cara a noi salesiani tanto che la portiamo nella croce che tutti indossiamo, è quella di Gesù Buon Pastore, che ritroviamo anche nelle catacombe di San Callisto. Datata agli inizi del III secolo, è presente dappertutto: negli affreschi, nei rilievi dei sarcofagi, nelle statue. Per noi il Buon Pastore incarna il dna di un salesiano. Nella seconda sezione dello scudo ecco il monogramma MA, Maria Ausiliatrice. Come don Bosco noi salesiani imploriamo sempre la sua protezione. Del resto è lei che ha fatto tutto per noi. Nella terza sezione vediamo l’ancora che per me ha un doppio significato. Da una parte sta nello scudo salesiano e vuole significare quella speranza e solidità che noi salesiani dobbiamo possedere; dall’altra l’ancora rimanda alle mie radici di pescatore, alla mia famiglia, al mio villaggio. Come ho detto, per me è qualcosa di molto importante.
Lo stemma riporta anche un motto: Sufficit tibi gratia mea…
È stata una scelta del tutto personale, perché esprime come mi sento e come mi sono sentito per tutta la mia vita fino ad oggi. Come salesiano ho vissuto quello che io mai avrei scelto. Ispettore, qualche anno anche in Argentina, poi Rettor Maggiore. Vivo adesso il cardinalato in obbedienza a una decisione del Santo Padre. Come ha detto il Signore a san Paolo: “Ti basti la mia grazia”.
Nella Sua biografia troviamo come da Lei accennato anche un periodo da Ispettore in Argentina dal 2009 al 2013. Lei può facilmente immaginare la domanda connessa…
Certo, ho conosciuto Papa Francesco come Cardinale Arcivescovo a Buenos Aires negli anni 2009-2013 quand’ero Superiore dell’Ispettoria in Argentina. Mai questa conoscenza “anticipata” me la metterò come una medaglia di merito. Con l’allora arcivescovo di Buenos Aires ho avuto un rapporto come è stato il caso per tanti altri, sacerdoti e religiosi, Provinciali compresi. Per me era comunque sempre bello riceverlo ogni 24 maggio quando veniva nella Basilica di Santa Maria Ausiliatrice nel quartiere di Almagro: in quella zona avevano vissuto i suoi genitori e lì era stato battezzato.
Papa Francesco L’ha ricevuta l’11 luglio scorso, dopo l’annuncio della creazione a cardinale. Per l’occasione Lei ha rievocato così l’udienza concessa al Capitolo generale salesiano che L’aveva eletta per il prìmo mandato da Rettor Maggiore: “Santo Padre, mi permetta di ricordarle una cosa: 10 anni fa, Lei mi disse: ‘Eh, gallego, che cosa ti hanno fatto!’. Adesso sono io a dirglielo: ‘Santo Padre, che cosa mi ha fatto Lei!’. Mi è venuta una curiosità: perché il Papa l’ha definita gallego se Lei non è della Galizia ma delle Asturie?
Il fatto è che per gli argentini ogni spagnolo è un gallego, perché le prime grandi migrazioni di spagnoli erano di galiziani… in Galizia c’era tanta fame, specie dopo la fine della Guerra civile. Un contadino con un piccolo pezzo di terra non era in grado di far vivere una famiglia con quattro o cinque figli. L’Argentina era un porto sicuro. D’altra parte in quegli anni era una potenza guidata da Juan Domingo Peron e generosamente aiutava la Spagna inviando frumento e burro. Lo sa anche che ogni italiano è chiamato tano? Perché?
…Non riesco a trovare il nome di una regione che suggerisca di usare tano…
Difatti tano è il finale di un appellativo che riguarda una città: Napoli. Napoletano è troppo difficile e lungo da pronunciare… Perciò gli argentini dicono tano per ogni italiano. E l’emigrazione italiana è stata la più numerosa in Argentina. Italiani e spagnoli sono popoli che hanno sperimentato sulla propria pelle gioie e dolori, speranze e delusioni dell’emigrazione…
Al centro del carisma salesiano stanno i giovani. Dopo nove anni di Rettorato Lei ha visitato almeno 110 Paesi…)
Saranno 120 a novembre, sui 135 in cui siamo presenti.
… Dunque ha conosciuto giovani di origini diversissime. C’è qualcosa di comune a tutti i giovani nel mondo? Alla recente GMG di Lisbona è emerso questo filo rosso, caratterizzato però da una fede profonda in Gesù Cristo. Nelle loro scuole e nei loro centri professionali i salesiani ospitano giovani di ogni provenienza… secondo la Sua esperienza c’è comunque qualcosa che unisce tutti nel profondo?
Sì. Le culture sono diverse, le lingue sono diverse, gli ambienti di vita sono diversi. Se confrontiamo la vita di un giovane della Cambogia, di uno di Madrid, di un terzo, un giovane indio Shuar dell’Ecuador la differenza è enorme anche in un mondo come il nostro, che è stato definito ‘villaggio globale’. Però, dopo quasi dieci anni di incontri in tanti Paesi, mi sono ormai convinto di una cosa: tutti i giovani del mondo, quando vedono che un adulto si avvicina con uno sguardo di amicizia, di apertura di cuore, si avvicina pensando al loro bene e per essere al loro servizio, si rivelano molto accoglienti. I giovani mai chiudono le porte. I duri siamo noi adulti, quelli che portano tante ferite di guerra nella vita siamo noi adulti… E’ vero: tanti giovani a volte si sono persi per i peccati strutturali del nostro mondo… però i giovani hanno un cuore accogliente.
Sto pensando a tanti giovani africani: perché emigrano? Non ci sono possibilità reali, concrete che possano restare nei loro Paesi per collaborare al loro sviluppo? Voi salesiani avete tante scuole e centri di formazione professionale anche in Africa… che cosa Le suggerisce la Sua esperienza? Tanti giovani seguono i pifferai magici che descrivono loro l’Europa come quell’Eldorado che spesso invece non è…
Bellissima domanda. Credo che la mia risposta sarà pure molto chiara. Parlo dapprima di noi Salesiani, che siamo presenti in quasi tutte le nazioni africane e cerchiamo di evangelizzare anche attraverso educazione e formazione. Sono delle priorità per noi. Sono stato in Africa tante volte da Ispettore…per esempio nel Senegal… Qual era e rimane la nostra intenzione? Fornire ai giovani una formazione adeguata in tre anni di studi, riuscire a dare a ciascuno uno scatolone con l’attrezzatura per poter lavorare, così che sia possibile per loro condurre una vita dignitosa, guadagnare qualche soldo, restare in contatto con la famiglia. L’abbiamo fatto e continuiamo a farlo. Infatti sono in tanti a non essere emigrati, perché grazie a noi – e a molti altri che lavorano come noi – hanno trovato una sistemazione onorevole.
Un servizio il vostro che è stato e resta preziosissimo… però, se passiamo a un livello generale africano, la situazione è diversa…
Bisogna aiutare in modo più incisivo lo sviluppo di tanti Stati africani. Gli investimenti fatti ad esempio dall’Unione europea, dando fiumi di denaro all’uno o all’altro Paese per costruire strutture che frenino l’immigrazione – insomma campi di migranti –sono destinati al fallimento poiché gli ospiti prima o poi andranno via considerate le prevedibili condizioni di vita nel campo. Per contro l’Unione europea dovrebbe considerare con più attenzione, con maggiore serietà gli investimenti sulla formazione professionale dei giovani, finanziando la rete di chi già opera in quel campo (lo ripeto: non siamo solo noi, siamo ormai in tante istituzioni!): questo è, secondo me, un investimento che darebbe molti buoni frutti! In sintesi: dobbiamo fare tutto il possibile perché le mafie non possano più portare per 2, 3, 5mila euro su barche artigianali persone che sono attratte dal presunto Eldorado che si chiama Europa.
Prima accennava a un’esperienza significativa, molto istruttiva, ancora in Senegal…
Sì, torniamo al Senegal, un Paese che conosco bene. Conosco anche le sue coste e l’incredibile cultura della pesca che si registra non solo in riva al mare. Ottanta anni fa, anche quaranta, nessuno avrebbe mai pensato a una emigrazione massiccia, dato che in Senegal la pesca dava da vivere dignitosamente. In anni più recenti, tuttavia, numerose flottiglie di pescherecci esteri – purtroppo ci devo mettere anche quelli spagnoli – hanno ridotto del 70% la possibilità di pesca dei senegalesi. Certo ciò è avvenuto attraverso accordi tra governi. Però la conseguenza è che i figli dei pescatori non hanno più in molti casi la possibilità di guadagnare quel tanto che basta per una vita dignitosa. Noi europei dobbiamo prendere veramente sul serio le nostre affermazioni sull’aiuto ai popoli africani in loco per evitare le migrazioni. Gli aiuti in dollari ai governi non servono. Perché invece – e lo ripeto – non investire invece nella formazione professionale dei giovani?
Passiamo alla condizione dei giovani europei: la loro quotidianità è diversa rispetto a quella di tanti coetanei africani, ma i problemi cui sono confrontati sono pure complessi e anche drammatici. Se pensiamo alla religione, da una parte sempre più giovani europei – bombardati da messaggi culturali individualisti che indeboliscono la persona umana (di cui si riduce pure la sacralità) attraverso un allentamento delle relazioni sociali e un indebolimento dell’identità anche sessuale – stanno perdendo la fede, rifiutando esplicitamente il cristianesimo o chiudendosi in un indifferentismo molto inquietante…
Quello che ha rilevato è certamente vero, ma per avere un quadro completo della complessa condizione giovanile europea oggi, che poi può portare alla perdita della fede, c’è da aggiungere un altro elemento essenziale: dobbiamo confrontarci con giovani fragili sì, eppure in genere molto più istruiti delle generazioni precedenti o almeno potenzialmente più competenti. Parlano più lingue e sanno muoversi molto di più al di là delle proprie frontiere, sono flessibili grazie anche all’utilizzazione di nuovi strumenti preziosi di conoscenza e operativi che ai nostri tempi non esistevano. E tuttavia questa generazione di giovani porta un macigno sulle proprie spalle: il proprio futuro …
In effetti come possono programmare la propria vita se molti di loro – non per scelta propria – vivono nella precarietà?
Secondo dati che sono frutto di indagini recenti, Spagna e Italia hanno un’età media di emancipazione dalla famiglia tra 28 anni e mezzo e 32. Ma a 32 anni si è uomini o donne, non si è più catalogabili tra i giovani! Si abita ancora con i genitori, perché non si ha modo di costruirsi una vita al di fuori della famiglia. Lo dico con dolore per la mia Spagna: il 40% dei giovani spagnoli non trova lavoro. In Italia meno, ma è sempre una percentuale molto alta. Manca la stabilità che consente la formulazione di un programma esistenziale. Certo non è una questione solo di lavoro, ma anche di senso della vita. A volte le scelte si devono fare… ma, se il futuro è incerto, si tende a rimandarle… con la conseguenza che nei giovani si sta affievolendo ad esempio il senso della maternità e della paternità. Davanti alle grandi scelte tanti giovani oggi sono titubanti, prendono tempo, perché non sanno quello che ciò potrà comportare per loro… anche il matrimonio, l’avere un figlio…
Questo dei giovani e dei loro problemi in una società fluida e contraddittoria come la nostra è un tema che meriterebbe un ancor maggiore approfondimento. Però questa intervista la dobbiamo pur concludere e allora non possiamo né vogliamo ignorare un tema che oggi ci lacera non solo per il dolore ma anche per l’apparente impossibilità concreta di ridurne l’impatto sulla quotidianità di noi tutti: il tema della guerra…
Questo tema ci fa soffrire. La penso come papa Francesco e altri che ne condividono il pensiero: stiamo vivendo una nuova Guerra mondiale, ma a pezzetti. Ho maturato nella mia vita una convinzione: nessuna guerra ha senso. Oggi se possibile ancora di più. Una volta le guerre erano più frequenti, ma paradossalmente meno pericolose. Tu trafiggevi con una spada chi ti stava di fronte, mentre adesso premi un bottone e puoi mandare un missile senza sapere chi e quanti ne ucciderai.
Nel dibattito pubblico spesso si osserva che non tutte le guerre sono uguali…
Ripeto: la guerra è assurda di per sé. Si può dibattere sulle colpe dell’uno e dell’altro, su chi ha incominciato e su chi ha reagito, sulla ferocia del fondamentalismo… ma la domanda (e constatazione) fondamentale resta una sola: quanti morti ci siamo già caricati sulle spalle in Ucraina, quanti soldati e civili ucraini e russi? E di quanti morti di ogni provenienza e di ogni età ci siamo caricati in Terrasanta con il terrorismo di Hamas e la risposta di Israele? Quanti morti? Quanti morti? Migliaia e migliaia. Ma ricordo che già una sola vita è sacra.
Realisticamente si può nutrire la speranza che un giorno le spade saranno spezzate per farne aratri?
Mi rendo conto che tutto quanto faremo nell’investimento per la pace non sarà mai abbastanza. Dico di più: mi fa male l’assenza di una azione più ferma, più determinata, più forte per la pace da parte di tanti governi, da parte delle superpotenze, da parte degli organismi internazionali. E sul dilagare del terrorismo – anche noi salesiani ne soffriamo in primo luogo in Africa, con molte vittime – non posso che ribadire: il terrorismo non ha nessuna giustificazione, nessuna. Per concludere: dobbiamo investire molto di più non negli armamenti, ma per dare la possibilità a tutti di vivere dignitosamente nei propri Paesi di origine, in Africa e non solo. In caso contrario le migrazioni si moltiplicheranno così come i drammi umani spesso ad esse legati. Già oggi – sentivo l’altro ieri la radio spagnola – il fenomeno coinvolge giornalmente ben più di cento milioni di persone. Non c’è dunque tempo da perdere: investiamo non in missili, ma nell’educazione e nella formazione professionale dei giovani, soprattutto là dove la carenza emerge impedendo loro di programmare un futuro di stabilità.
Giuseppe Rusconi