Dal sito di Note di Pastorale Giovanile.
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Intervista a d. Alessandro Zavattini
Stefano Rossini
Preti youtuber, altri che scrivono di fantasy, altri ancora che usano l’immagine, il teatro o i canali social… Don Alessandro Zavattini, 49 anni, da sempre impegnato nella pastorale giovanile, sulla narrazione educativa, biblica, il bibliodramma ha fatto la sua tesi di laurea ed è in Diocesi uno dei fautori del grande sviluppo di questo nuovo linguaggio, certamente utile alla catechesi, ma anche all’evangelizzazione degli adulti.
Alessandro, uno dei problemi che la Chiesa vive oggi è quello del linguaggio, di come riuscire a farsi ascoltare, ma soprattutto capire. Quanto questo problema tocca il tuo essere prete oggi?
Il problema del linguaggio non è solo quello di farsi ascoltare o capire, ma anche quello di come bene ascoltare e di come capire. Un autentico messaggio, infatti, è un incontro tra due mondi, due culture, il mio e il tuo. Quello che mi ha aperto gli occhi, alla scuola dei Salesiani, è che, come adulti e ancor più come Chiesa, siamo abituati ad informare e non a comunicare. La differenza sta qui: se voglio informare sono preoccupato che quello che ho in testa passi nella testa di chi mi ascolta, come convincere, persuadere l’altro. Gli devo “inoculare” il messaggio come un vaccino. Se invece voglio comunicare so che il messaggio è la sovrapposizione del mio pensiero con quanto tu percepisci di me e di ciò che “dico”. Non solo con le parole, ma con l’atteggiamento, il tono, l’espressione, il corpo… Comunicare è costruire un significato comune con te, dar vita ad un “noi”.
Ma come Chiesa Cattolica Italiana, nemmeno nei 10 anni dedicati al “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” ci siamo soffermati un attimo su cosa volesse dire veramente “comunicare”. Questo atteggiamento comunicativo mi è servito tanto, sin da subito, nella vita non solo pastorale, a voler mettermi in ascolto ed in cammino con le persone prima di parlare o agire. Ed anche ho scoperto sempre più affine allo stile di Gesù, comunicatore perfetto. Venuto non tanto per comunicare “le verità su Dio”, ma Dio stesso e la sua vita. È “l’auto-comunicazione di Dio” come fa intendere il Concilio. Il suo metodo (meth-hodos, attraverso il sentiero) è quello sulla strada di Emmaus, icona biblica scelta come sintesi del Sinodo dei Giovani: accostarsi sulla strada della fuga, chiedere e farsi raccontare, rileggere la vita alla luce della Parola, aprire gli occhi con la condivisione… Ed anche il suo stile di maestro con le parabole. Descrive il Regno di Dio parlando di semi con i contadini, di pesca coi pescatori, di talenti coi pubblicani. Mostra l’agire di Dio nel tuo mondo, nella tua cultura e poi te lo fa toccare pescando con te, mangiando alla tua tavola, passando tra i tuoi banchi di mercanzie. Per questo ho deciso, ormai da 20 anni, di tenere un piede dentro la scuola con gli adolescenti, dove passano la maggioranza del loro tempo. Qui trovo anche praticamente tutti quelli che camminano alla lontana non solo dalle nostre celebrazioni ma anche dai nostri incontri. Non tanto e non solo per insegnare, quanto per imparare da loro, che sono l’avanguardia dei cambiamenti, della cultura. Sono la parte più ambita dai modelli di consumo, dalle tendenze di mercato. Son li per ascoltarli non per “vendergli” il Vangelo, quanto per scoprire con loro cosa vuol dire la buona notizia di Dio oggi. E per comunicare che Gesù risorto è il liberatore dei linguaggi e dei talenti.
Tanti episodi me lo hanno fatto capire. Ne cito uno tra i tanti. Tornando dal pellegrinaggio in bicicletta con gli adolescenti da Savignano ad Assisi, in pulmino ascoltavamo la musica di Andrea che sparava un trap strapieno di volgarità, violenza e visioni scurrili delle donne. Gli chiesi se gli piacevano i testi e mi fece ascoltare altri testi più profondi degli stessi autori. Gli proposi di alternarci ad ascoltare una canzone del suo mondo con una del mio background rock anni ‘80. Mi fece ascoltare testi provocanti di rapper ed io gli feci apprezzare le melodie e le riflessioni dei Dire Straits. Ci arricchemmo a vicenda e tra i commenti disse di aver scoperto nuova musica. Diceva don Bosco: “interessati di ciò che piace ai giovani e loro si interesseranno di te”. Sapeva comunicare, come Gesù ad Emmaus.
Come ti sei interrogato? Quali strade innovative hai provato a percorrere?
Tenendo i piedi nel mondo degli adolescenti e del Vangelo, mi sono sorte tante domande proprio sullo stile di evangelizzazione. Anzitutto il mio interesse è sempre stato da una parte la relazione con Colui che mi ha salvato la vita, Gesù, la Sua Parola e il Suo Corpo, vivi. Dall’altra le nuove generazioni che perdiamo sempre più dalle fila delle nostre comunità. Sono entrambe una questione di sopravvivenza: senza il Risorto perdiamo la fonte di vita, senza i giovani ci estinguiamo. Nostro compito è farli incontrare. Questo ci rende fecondi e felici come Chiesa. Oggi i ragazzi (ma anche gli adulti e di conseguenza i bambini) non percepiscono affascinante ciò che per noi è più essenziale e “buono”: la Bibbia, la Messa, la fede, la Chiesa.. Dio stesso. Anzi tanti li descrivono sempre più repellenti. Faccio un gioco nelle classi e coi gruppi parrocchiali. Dispongo nella stanza due poli estremi, credo e non credo. Poi chiedo di disporsi tra i poli in base alla loro percezione attuale, ora. Con i dovuti distinguo, fino a qualche anno fa la maggioranza si poneva al centro con pochi ai due estremi. Più di recente, la maggioranza si pone dal centro verso il non-credo, con più di uno che dice: “se fosse possibile andrei oltre quel polo estremo”. E sono i ragazzi che hanno scelto l’ora di religione e i gruppi cattolici. Hanno immagini negative di chiesa e di Dio. Però ci stanno al confronto, sono favorevoli ad un dialogo autentico con gli adulti su questo. E sono pure interessati alla Bibbia se presentata nel modo giusto. Tra gli universitari ho incontrato diversi giovani che si dicevano agnostici ma leggevano il Vangelo. Addirittura una ragazza che non faceva religione al liceo classico, dopo aver ascoltato Cacciari attualizzare la lettera ai tessalonicesi, ha consegnato la sua tesina d’esame sul “katekon”, termine chiave della teologia neotestamentaria. Allora dove sta il problema?
Indagando sugli stili pastorali della nostra Italia, si comprende bene che l’ignoranza “biblica” di intere generazioni non deriva dalla scarsa informazione. Catechismo e ora di religione la fanno ancora una larga maggioranza. Piuttosto l’ostacolo risiede nell’ignoranza ecclesiale dei linguaggi e degli approcci che sono patrimonio dei “nativi digitali”. Non è questione di informare di più e meglio, di “catechizzare” giovani e adulti. I nostri approcci sono libreschi, intellettuali, criticano l’emotività, si pongono come rieducativi, scolastici, sistematici. Mentre le ultime generazioni Y (o millennials, nati tra l’80 e il’95) e Z (o iGen, nati tra il ‘95 e il 2010), molto più della X Gen (‘65-’80), sono allergici allo stile “educational”, percepito come “manipolatorio” della libertà. Preferiscono i film, i video, le serie tv, i social ai libri, le immagini alle parole, le emozioni ai pensieri, l’interazione più dell’ascolto passivo. Più che con la testa o il cuore, ragionano con la pancia e credono con il corpo (Cfr. i testi di Gilberto Borghi). Amano i videogiochi, le storie, i fantasy, i supereroi, i cosplay (vestirsi come i fumetti). Il Papa dopo il sinodo dei Giovani dice: “Essi ci mostrano la necessità di assumere nuovi stili e nuove strategie. Ad esempio, mentre gli adulti cercano di avere tutto programmato, con riunioni periodiche e orari fissi, oggi la maggior parte dei giovani si sente poco attratta da questi schemi pastorali. La pastorale giovanile ha bisogno di acquisire un’altra flessibilità e invitare i giovani ad avvenimenti che ogni tanto offrano loro un luogo dove non solo ricevano una formazione, ma che permetta loro anche di condividere la vita, festeggiare, cantare, ascoltare testimonianze concrete e sperimentare l’incontro comunitario con il Dio vivente.”
Così li giudichiamo virtuali, superficiali, irrazionali, disimpegnati, giocherelloni. Ma se guardiamo la Bibbia dalla loro parte, coi loro occhi scopriamo che è gran parte racconto, dramma, ironia, piena di visioni, parabole che stimolano la fantasia, guerrieri, eroi e antieroi. Che l’ebraico è una lingua che parla al corpo, tanto che “la Parola si fece carne”. Che Gesù parla col corpo e lo consegna come il vero testamento, è un autentico giocatore di ruolo, racconta parabole come role play, inverte i ruoli (suo il ritornello “i primi saranno gli ultimi…”), scambia la sua identità altri, con i piccoli, i poveri, i disprezzati, in vita e fin con la sua morte in croce. Insomma, studiando i giovani e Gesù, o meglio, la Parola attraverso gli adolescenti, ho scoperto l’importanza del raccontare più che insegnare, dell’homo ludens più dell’homo faber. Il gioco non è qualcosa di infantile, superficiale, poco serio o addirittura pericoloso (come le ludopatie, dipendenze da gioco). Anche la sapienza di Dio nella Bibbia gioca (Pr 8,30). Sono stato fino a Gerusalemme per cercare il significato originale di “parabola”, mashal, per scoprire che significa spesso racconto e gioco.
Servono, allora, approcci di apprendimento narrativo e ludico, modalità che non solo il marketing, ma anche la formazione professionale e scolastica ha da tempo riscoperto. Servono non tanto catechesi o scuole della Parola aggiornate, ma laboratori della fede, aperti in entrata ed in uscita anche ai chi fatica a credere o anche non crede, ma accoglie di mettersi in gioco con la Bibbia. Sono andato, attraverso una ricerca di dottorato, alla ricerca dei metodi che rispondessero a questi criteri. E ne ho trovati diversi molto interessanti. Non mi sono fermato a studiarli, ma, grazie anche a contatti di amici, ho cercato gli ideatori, ho partecipato ai laboratori e poi mi sono dedicato ad apprenderli. In particolare ho conosciuto il compianto Riccardo Tonelli e la narrazione educativa, il collega ed amico Marco Tibaldi e la narrazione biblica, il gesuita Beppe Bertagna e lo psicodramma biblico, Giovanni Brichetti e tutta l’Associazione Italiana Bibliodramma. Investendo su queste dinamiche attive con la Bibbia ho scoperto anche l’importanza di comunicare anche nel kerygma. Bertagna, in particolare, ci ha aperto gli occhi su come la Buona Notizia rischia di essere percepita come cattiva se rimane solo una entusiastica testimonianza: “Hai incontrato Dio e ti ha cambiato? buon per te! ed io, che ho un’altra storia rispetto alla tua? non è per me?”. Se il kerygma non rilegge e non tocca la vita di chi incontro, potrebbe addirittura amareggiare. Ancor di più serve facilitare col gioco l’incontro dei giovani, spesso disillusi e feriti, con Dio, gli increduli con il Padre che crede nei suoi figli, i “fuori dal recinto” con il pastore che esce a cercarli.