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Presentazione della rubrica “Il filo d’Arianna della politica”

di Raffaele Mantegazza

Durante uno dei miei viaggi ho conosciuto una guida turistica, un uomo estremamente simpatico e gentile, con una grande capacità comunicativa. Entrato in confidenza gli chiesi qualcosa a proposito del suo lavoro; lui mi disse che la prima regola che veniva insegnata a coloro che guidavano i gruppi italiani nei viaggi organizzati era: “non parlate mai di calcio e di politica”. Una regola ferrea pensata per evitare qualunque tipo di conflitti con i turisti.

Evidentemente la politica è un oggetto complesso, si porta dietro tutta una scia di conflitti e di nodi non risolti, e soprattutto in ambito educativo molti condividono questa regola imposta alle guide turistiche; non si parla di politica, farlo significa condizionare, fare propaganda, plagiare. Questa confusione tra scienza della politica e propaganda, tra educazione alla politica e indottrinamento ha alle spalle una lunga storia nel nostro Paese, a partire ovviamente dal regime fascista che educava certo alla politica ma a una politica totalitaria e distruttrice, ma anche dalla storia più recente, dalla quale ci si tiene ben alla larga, come se nominare Silvio Berlusconi o Massimo d’Alema avesse immediatamente il sapore della propaganda e trasformasse un ambito educativo in una Tribuna elettorale.
In questa rubrica cercheremo di capire come muoversi nel labirinto della politica attraverso il filo di Arianna dell’educazione. Capiremo anzitutto che la politica non è soltanto quella che viene rappresentata dalle istituzioni, anche se quest’ultima è fondamentale e ogni cittadino o cittadina civile dovrebbe conoscerla anche molto a fondo. Capiremo però che la politica è anche altro, è il proprio modo di collocarsi all’interno di una comunità e di una collettività, e dare senso e valore ai gesti quotidiani in una prospettiva che li trascende e che va oltre. Questo andare oltre è tipico anche dell’educazione, e infatti a questo proposito educazione e politica possono stringersi la mano.

Fare politica significa credere nel futuro, alimentare la speranza, pensare ad una collettività futura per uomini e donne felici e solidali; in fin dei conti significa realizzare la speranza di Martin Luther King: “non potrò essere felice finché uno solo dei miei fratelli sarà schiavo”; fare educazione significa dare futuro a un ragazzo o una ragazza, immaginarseli adulti, e quindi compiere un gesto politico nel senso di tenere insieme il progetto individuale (rivolto a questo specifico giovane che ho davanti a me) e il progetto collettivo per la polis nella quale cresce e che lo vedrà sempre più protagonista. Quando si dice che i giovani non amano la politica si fa un’affermazione frettolosa e superficiale: nei miei corsi di scuola di politica svolti sul territorio ho visto ragazzi che hanno un’idea altissima, quasi platonica dell’uomo politico, che deve essere di esempio, ancora più onesto delle persone oneste ancora più irreprensibile del cittadino modello. Un’idea nobile di politica che a volte i ragazzi vedono smentita nei fatti. Ma anche questa rischia di essere un’affermazione superficiale: nel nostro Paese ci sono tanti ottimi amministratori ed eccellenti uomini e donne di politica che hanno messo l’interesse collettivo davanti a quello individuale o di partito, e dei quali e della quale purtroppo si parla troppo poco. Semmai i ragazzi accusano gli adulti di fuggire di fronte ai temi politici e soprattutto di ignorare il contributo che i giovani possono fornire alla politica nel senso più ampio: la storia degli organi di rappresentanza studentesca spesso ignorati dagli adulti all’interno della scuola e soprattutto dell’Università ha un enorme peso sulla percezione che i giovani hanno del rapporto tra adulti e democrazia.

La moda del parlar male della politica a prescindere dalle analisi più specifiche è parallela e speculare a quella del non parlarne. Noi scegliamo invece di parlare di politica e scegliamo di farlo proprio partendo da quelli che sono i fondamenti, riferendoci continuamente alla Costituzione che è il vero testo fondante della nostra democrazia, e proponendo esempi concreti e praticabili con gruppi di ragazzi e di ragazze di qualunque provenienza.

A questo punto può sorgere una domanda: l’educazione alla politica si colloca sul terreno delle emozioni o su quello della razionalità? È del tutto evidente che questi due terreni, per quanto separabili, si incontrano poi nell’esperienza quotidiana di ciascuno. Una politica che parli soltanto alla parte razionale dell’essere umano rischia di essere vanificata dallo scatenarsi di quel mondo emotivo che caratterizza ciascuno di noi: l’esperienza tragica della Repubblica di Weimar e della sua Costituzione avanzatissima travolta dalle emozioni nere scatenate dal nazismo dovrebbe servire da monito; del resto una politica che si rivolge soltanto alle emozioni è estremamente pericolosa, perché va a vellicare quel mondo senza farlo crescere, senza portare le emozioni al concetto e alla ragione.
Il nostro discorso dunque si articolerà in quello spazio di cerniera che collega mondo emotivo e mondo cognitivo e che potremmo definire spazio “prepolitico”; non più emozione e non ancora progetto. È in questo spazio grigio (non nel senso della “zona grigia” di Primo Levi, ma di un territorio che vive anche di sfumature e di ombre) che si colloca la possibilità di educare alla politica.
Il nostro viaggio attraverserà alcune parole chiave, alcuni termini che non possono mancare nel vocabolario di chi si occupa o si interessa di politica e che cercheremo di indagare in tutto il loro spessore semantico e soprattutto storico; semantico perché le parole hanno un significato preciso e soprattutto in ambito politico esse non sono mai neutre; storico perché la politica ha una storia, non è stata inventata ieri e deve essere conosciuta con un atteggiamento di curiosità e interesse per il passato, anche quello più lontano da noi. Molto spesso si afferma retoricamente che è assurdo che i nostri ragazzi studino Cesare e non Aldo Moro; dato per scontato che il fatto che i nostri giovani arrivino alla maggiore età senza che la scuola spieghi loro la storia degli ultimi 50 anni è una totale follia, non è certo Cesare a dover essere sacrificato. Anzi Cesare e Aldo Moro si integrano a vicenda nella loro infinita lontananza perché l’interesse per Cesare nasce sempre da un’esigenza contemporanea, come diceva Benedetto Croce: “il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di ‘storia contemporanea’, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni”.

Anzitutto analizzeremo la parola Politica, come termine introduttivo a tutto il discorso; e poi parole quali Potere, Conflitto, Democrazia, Dittatura/totalitarismo, Partecipazione, Istituzione, Movimento/partito, Maggioranza/minoranza, Leader, Violenza/nonviolenza, Propaganda.
Ogni articolo sarà strutturato in più parti:
– come parlare (una indagine sul vero significato delle parole, nella consapevolezza che saper attribuire il giusto significato a un termine è già un gesto politico);
– come pensare (un approfondimento culturale che porti la politica a confrontarsi con i grandi pensatori, artisti, intellettuali, scienziati, ecc.);
– cosa fare (proposte di lavoro educativo concreto con i ragazzi e le ragazze);
– come provare (cosa significa “fare politica” anche al di fuori delle istituzioni);
– cosa domandarsi (qualche dubbio e qualche domanda aperta).

Speriamo che alla fine di questo viaggio ci sia la passione per la politica; che ce la faccia amare un po’ di più e temere o disprezzare di meno, e soprattutto che ci convinca che alla politica, come a tutte le cose belle e importanti della vita, si può e si deve educare.

Mani invisibili dell’economia e mani “con anima” degli operatori sociali

Di Marco Menni (Vice Presidente Confcooperative)

La Chiesa produce da sempre responsabilità sociali: anche tra le nostre cooperatrici e i nostri cooperatori, le biografie sono piene di manifestazioni di questa chiamata. Veniamo da una storia di impegno, sostanza, opere comuni che sono state rese possibili da una forte volontà di “fare”. È una storia che si alimenta tutti i giorni e che parte dalle esperienze e dalla formazione.
Anche la mia storia è disseminata da percorsi formativi e umani, spesso nati e animati “nella sagrestia” di una parrocchia e capaci di generare volontà di impegno sociale e civile. Volontà che si sono espresse in vari modi nel Paese generando pratiche, oggi strutturate fino ad essere considerate “storiche”, incarnando una responsabilità sociale nata dal protagonismo attivo di sacerdoti e laici delle comunità locali.
La cooperazione ha applicato la diversità di approccio che sentiamo essenziale come cattolici: il fenomeno sociale che precede la teoria, dove la testimonianza è più urgente della regolamentazione; e l’economia che è pratica comune, collettiva, profondamente “reale”. Le esperienze delle banche di credito cooperativo nascevano nelle parrocchie per gestire il risparmio e i bisogni finanziari in maniera equa; le cooperative agricole erano essenziali per dare ai piccoli agricoltori un giusto riconoscimento di valore per i loro prodotti; la cooperazione sociale nasceva da un desiderio di “fare di più” per rispondere al bisogno degli ultimi che traeva la sua forza ideale da tante esperienze di volontariato ecclesiale locale.
La nostra e la mia storia è questa storia.
Chiesa e cooperazione sono fortemente assonanti e producono ancora oggi, coi fatti, legittimazione reciproca. Confcooperative richiama nello Statuto (art.1) i principi della Dottrina Sociale della Chiesa; la Chiesa riconosce l’opera e l’apporto della cooperazione.
Nel ‘900 si è alimentata una dicotomia Stato / Mercato: ma oggi riconosciamo con chiarezza che non sono sufficienti questi due fattori se non fanno spazio ai concetti di bene comune, relazioni, fiducia. Ne parlava già Antonio Genovesi nel 1765 nelle sue “Lezioni di commercio o sia d’economia civile”.
Abbiamo visto come la mano invisibile dell’economia non basti e tenda a provocare fallimenti di mercato: l’interesse individuale non produce sempre il bene collettivo.
Abbiamo visto altresì come la “potenza” dello Stato non basti e le istituzioni siano alle volte inefficaci e inefficienti.
Ma la crescente percezione che Stato e Mercato debbano rispondere a tutti i bisogni sta portando a una progressiva riduzione della capacità “propositiva” della Chiesa con i suoi laici e sacerdoti.
Anche per questo nascono meno cooperative: i bisogni ci sono sempre stati, e ancora oggi ci sono; ma c’è meno “intraprendenza”, meno “profeti” in grado di aggregare e portare speranza. Da qui dobbiamo ripartire, con una vera politica formativa e propositiva.
Oggi tra le principali priorità c’è certamente il lavoro, unito alla tutela dei territori in condizione di spopolamento e alla cura delle persone.

Il tema del lavoro

Sul tema lavoro, l’esperienza del Progetto Policoro è una manifestazione di questa intenzionalità a portare un contributo in questo senso. Rappresenta un Patto tra chiese locali e associazioni laicali. Nello specifico riconosce il fattore “lavoro” come centrale, da rafforzare, da orientare sui giovani. Dalle collaborazioni tra Chiesa e privato sociale sono nate moltissime esperienze esemplari.
Anche Papa Francesco, nel suo discorso davanti ai Giovani del Progetto Policoro, il 5 giugno 2021, ha sottolineato come occorra dare un’anima all’economia. Siamo chiamati a dare anima e senso a un’economia che sembra, soprattutto dopo la pandemia, dividere tra vincitori e vinti, tra aree forti e deboli, tra generazioni, tra generi.
L’economia a cui guardiamo è quella reale che si nutre di relazioni, di fiducia, di capitale umano. Il punto di atterraggio è sempre lo stesso: il “lavoro”, non a caso una delle 3 parole che caratterizza il Progetto Policoro assieme a “giovani” e “vangelo”.
Come dice Papa Francesco, bisogna pensare al lavoro come “atto creativo”, come “imitazione del Dio Creatore”. E allora, su questa strada dobbiamo continuare ad operare per farlo di più, e meglio. Mettiamo assieme tutte le componenti che possono giocare un ruolo in questa creazione: il mondo della cooperazione rappresentato da Confcooperative, insieme ad altre associazioni che si fondano sulla Dottrina Sociale della Chiesa, ha questo obiettivo e questa responsabilità.
Sono diverse le realtà di ispirazione cattolica che si parlano, e parlano questo linguaggio. Nostro dovere è favorire questo processo di attivazione: crediamo che da questo confronto, che è prima di tutto incontro, possano emergere percorsi concreti sul tema del lavoro: prima formativi, poi di accompagnamento e supporto.
In questo senso dobbiamo sviluppare relazioni e collaborazione tra tutti i componenti la nostra Chiesa, triangolandole con gli attori associativi ed economici che hanno a cuore il tema giovani e “lavoro”.
Il “lavoro” che abbiamo in mente ha alcune caratteristiche:
– come diceva il Santo Padre, è frutto di un atto creativo e va quindi creato, soprattutto dove scarseggia: abbiamo la responsabilità di creare le condizioni per cui i nostri giovani sappiano creare lavoro per sé e per (ma vorrei dire “con”) gli altri;
– è elemento di realizzazione personale e collettiva: il lavoro permette la realizzazione di percorsi di vita, la costruzione di famiglia e la generatività; permette anche lo sviluppo in senso ampio dei territori e delle comunità;
– è frutto di un pensiero lungo: il lavoro che abbiamo in mente non è predatorio, non è inutile, non è dannoso, ma è costruttivo, solido, capace di durare nel tempo, frutto di un impegno comune.
Per questo crediamo che in linea con le parole di Papa Francesco abbiamo voluto mettere la componente “lavoro” al centro delle associazioni di ispirazione cattolica, rendendolo ancora più strategico nelle formazioni di ogni livello, negli obiettivi, nella misurazione dei risultati prodotti.
Nel documento di audizione alle Settimane Sociali di Taranto abbiamo sottolineato la necessità di un patto di corresponsabilità tra le diverse generazioni, tra le diverse categorie lavorative, tra chi ha responsabilità educative e formative.
Papa Francesco nella Fratelli Tutti (162) diche che “Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze.”
Il lavoro è una dimensione fondamentale per lo sviluppo integrale delle persone perché ci permette di garantire il sostentamento e il futuro della nostra famiglia, di esprimere i nostri talenti. Con esso ci poniamo al servizio della comunità di appartenenza secondo “un patto di reciprocità”, contribuendo alla sua crescita e al suo sviluppo, dato che il lavoro implica sempre relazione e condivisione e non è mai fine a se stesso.
Confcooperative ha tra gli ambiti di maggiore cura, nella promozione, alcuni temi che sono a cavallo tra lavoro e tutela dei territori “fragili” che vanno spopolandosi. Pensiamo ai workers buy-out (imprese in crisi rilevate dai lavoratori e trasformate in cooperativa) e alle cooperative di comunità (presenti nelle aree interne e periferiche e capaci di rappresentare un argine allo spopolamento e impoverimento dei territori).
Il workers buy-out ci consente di “ricreare” il lavoro, che rischia di scomparire, tramite la forma cooperativa. Si tratta di un insieme di processi, competenze, strumenti finanziati che anche Confcooperative fornisce per costruire opportunità cooperative. Dalle crisi a volte si può ripartire con speranza. Sono decine le esperienze di questo tipo e il protagonista è sempre il territorio, con gli attori che lo animano. In questo senso, serve la collaborazione di tutti: per questo sarebbe utile richiamare con forza come Papa Francesco abbia più volte sottolineato che il “lavoro recuperato” ha un valore particolare che ci vede tutti impegnati. Su questo fronte possiamo e dobbiamo crescere nella collaborazione.

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