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Il pensiero sportivo di p. Didon nel “discorso di Le Havre”

da Note di Pastorale Giovanile.

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di Angela Teja

Il discorso pronunciato da p. Henri Didon (1840-1900)[1] a Le Havre nel 1897 è tra quelli che meglio rappresentano il celebre Domenicano, inventore del motto olimpico Citius, altius, fortius, come paladino del nascente Olimpismo. In esso infatti egli affrontò il tema dell’influenza morale degli sport atletici, uno degli argomenti portanti del suo metodo pedagogico ma che si sarebbe mostrato anche un percorso impegnativo per il nascente Movimento olimpico. Pronunciato il 29 luglio 1897, dunque nell’anno successivo alla prima edizione dei Giochi olimpici, la sua prima pubblicazione è della fine di quell’anno[2]. Presidente del Congresso di Le Havre fu lo stesso Coubertin, che ne aveva predisposto il programma in tre momenti (pedagogia, igiene e sport), in presenza di pochi stranieri e con prevalentemente un pubblico locale[3].
Coubertin stesso introdusse p. Didon in apertura della quarta giornata congressuale annunciando l’argomento che avrebbe trattato nella sua lectio per mostrarne i tratti non solo pedagogici e psicologici ma anche spirituali. Il titolo dell’intervento del Domenicano era piuttosto lungo: «Dell’azione morale degli esercizi fisici sul fanciullo, sull’adolescente e dell’influenza dello sforzo sulla formazione del carattere e lo sviluppo della personalità». Coubertin aveva autorizzato quel titolo e quell’ampia tematica da trattare perché sapeva di potersi fidare dell’aiuto di p. Didon, con la speranza di meglio indirizzare il nascente Movimento olimpico, che sembrava invece subire già deviazioni e tentennamenti rispetto alle intenzioni del suo Ideatore.
P. Didon per la prima volta si trovò a fare riferimenti precisi ed esclusivi agli «esercizi fisici en plein air», come amava chiamare gli sport, o meglio agli «esercizi atletici», altra denominazione che preferì utilizzare rispetto al termine inglese di fronte a un pubblico di esperti, medici e pedagogisti in prevalenza francesi. Egli sapeva bene che il tema che avrebbe trattato sarebbe stato interessante per tutti i presenti, genitori, politici, insegnanti, «tutti quelli che [avevano] a cuore l’avvenire del paese».[4] Per illustrarlo egli si servì di alcuni argomenti relativi ai risultati che gli esercizi en plein air  riuscivano a produrre, operando una costante “cucitura” tra il mondo della corporeità e quello morale, sapendo che così sarebbe stato utile a Coubertin e alle sue finalità: la pace tra i popoli e l’internazionalismo, grazie al rafforzamento delle giovani generazioni da ogni punto di vista, sia fisico che morale. Pierre de Coubertin voleva infatti recuperare gli aspetti storici, filosofici e intellettuali alla base del nuovo Movimento che apparivano già trascurati nei quindici mesi appena trascorsi dalla prima edizione dei Giochi e forse già assenti da essi dove sembrava esserci stata solo «la tecnica vestita da storia»[5].

L’esercizio fisico, virtù psico-morale

P. Didon a Le Havre si mostrò più spontaneo del solito e, se vogliamo, anche un po’ istrionesco nei modi, forse perché voleva rendere chiare e appetibili le sue convinzioni riguardo allo sport, in modo che tutti capissero e ne approvassero anche gli aspetti più profondi. Servendosi di argomenti concreti, egli iniziò citando i tre vantaggi di una pratica sportiva costante, che egli chiamò “virtù”: chiamò «morale» il primo vantaggio, la componente materiale e più consistente degli esercizi, quindi «psico-morale» il secondo che si manifestava nello spirito di lotta e di competizione, e infine la terza, la virtù della forza e della resistenza. Era evidente, infatti, che egli volesse sostenere il progetto del suo amico Pierre de Coubertin, in un periodo in cui tutti avvertivano la necessità di rinnovare i metodi pedagogici scolastici, per combattere il surménage intellettuale in vigore tra i banchi, pericoloso perché causava l’indebolimento dei giovani e la loro scarsa preparazione nei momenti critici, con la necessità invece di competere nelle conquiste coloniali. Didon dunque avvertì l’importanza di trovarsi in un’occasione che gli avrebbe permesso di presentare la novità dei metodi pedagogici da lui seguiti nella sua scuola ad Arcueil, ma nello stesso tempo capiva che non avrebbe potuto citare le sue intuizioni tomiste sullo sport, ovvero come questo fosse una «palestra di virtù» per i giovani. Pochi infatti lo avrebbero compreso e per il pubblico di Le Havre qualsiasi apertura al trascendente non sarebbe stata capita.
P. Didon iniziò dunque il suo discorso descrivendo l’«attività fisica» come elemento fondante della «virtù morale». Egli spiegò che i fanciulli inerti e pigri nel fisico lo erano anche dal punto di vista morale, mentre i fanciulli attivi «fino alla turbolenza» racchiudevano i germi delle Virtù, il primo vero traguardo degli «sport atletici». Il secondo frutto di questi ultimi dipendeva dal senso di combattività e di competizione che essi racchiudevano e che egli definiva una virtù «psico-morale». L’attività fisica aiutava infatti a combattere il timore e la timidezza perché, egli disse:

«… i combattivi sono forti, i forti sono buoni, ma i pigri sono furbi e deboli, e i deboli sono pericolosi perché sono traditori.

Sviluppiamo dunque lo spirito di combattività, cioè l’amore della lotta: il fine è questo. Se c’è un ostacolo, buttiamolo giù, e se dobbiamo aggirarlo e siamo inseguiti, non esitiamo ad attaccare. Ecco lo spirito combattivo, una delle più belle virtù psico-morali dell’uomo, poiché se l’uomo possiede in germe una viltà con cui nasce, egli possiede anche il germe di una bravura con cui nasce. Si tratta di capire cosa gli interesserà, la viltà o la bravura. Gli sport fanno prevalere lo spirito di combattività, cioè lo spirito di valore e di bravura originari che dormono nel fanciullo. Gli sport fanno del fanciullo un adolescente di valore…»[6].

Queste parole descrivono in realtà la virtù della Fortezza, che a livello teologico è tra le maggiori perché aiuta a superare il timore con un’audacia calibrata, condizione molto importante in situazioni estreme. Tuttavia p. Didon, si diceva, preferì utilizzare dei toni laici che rendessero facilmente accessibile ai più il suo allenamento alle Virtù attraverso quello sui campi sportivi, anche per raggiungere il terzo risultato dell’esercizio fisico, quello della forza e della resistenza. Forte, infatti, era colui che sapeva resistere con tenacia, chi non indietreggiava mai.
Didon concluse la prima parte del suo discorso aggiungendo qualche cenno all’ultima delle Virtù definite «psico-morali», la Temperanza. Questa era infatti ben visibile in chi praticava lo sport, perché gli atleti non bevevano vino né alcol, non fumavano e sapevano dominare il piacere. Infine nelle parole del Domenicano non poteva mancare un cenno a quelle che egli definiva «virtù civili», ovvero la fraternità (lo sport infatti univa in una contesa cavalleresca in campo) e la libertà (nella organizzazione delle associazioni sportive). Il discorso sulla libertà in ambito sportivo ci pare tra i più interessanti e moderni che egli abbia fatto, alludendo all’autonomia dei giovani nell’organizzarsi. Libertà dunque nella stessa fondazione delle associazioni

«… perché bisogna che i giovani organizzino da soli le loro piccole società. Devono nominare i loro presidenti, i loro segretari, i loro tesorieri, creare i loro direttivi. Essendo costituiti da loro stessi, li accettano come un’autorità liberamente riconosciuta. […]  La centralizzazione è dappertutto ed è quello che non posso accettare. Così mi sono ripromesso che quando avessi avuto un complesso da gestire, avrei fatto un buco attraverso il quale far entrare la libertà nelle associazioni e negli istituti educativi. Ora, Signori, la libertà, ben collocata lì e praticata lì, finirà, statene sicuri, per stabilirsi nel paese come padrona sovrana»[7].

P. Didon sapeva infatti che il processo educativo si basava sulla capacità di tirar fuori dai giovani le loro virtù e possibilità, incoraggiandole e sostenendole, dando fiducia, facendo dei giovani gli artefici della loro vita, con una forte sottolineatura del senso dell’onore e della dignità che l’atleta doveva avere:

«E dato che le associazioni sportive producono tutti i loro effetti, vorrei che fossero assolutamente intransigenti per quanto riguarda l’onore e la dignità dell’atleta. Niente compromessi. – Signore, avete violato la legge, siete squalificato. – Signore, avete imbrogliato, siete squalificato. – Signore, avete maltrattato il vostro avversario, siete squalificato. Punto e basta. Con questo sistema, forse andremo con successo contro queste coscienze di caoutchouc che la politica ha sfortunatamente sviluppato, perché la politica, essendo fatta di interessi, spinge al compromesso, e il compromesso è sempre una distorsione della coscienza. »[8]

Parole adattabili a qualsiasi epoca e che comunque fanno pensare che sin dal suo nascere lo sport, per il fatto di essere uno spettacolo che dava fama e premi a chi si batteva per la vittoria, abbia avuto un cammino attraversato da molteplici problematiche di tipo morale. Se era importante infatti che i giovani conoscessero e amassero l’onestà, p. Didon sembrava guardare soprattutto alla necessità di costruire nazioni democratiche, costituite da cittadini liberi e coscienziosi, convinto che se si fossero formati cittadini passivi, spinti solo da logiche di potere, e da questo malleabili, sarebbe stato impossibile dar vita a stati democratici. Ecco le sue infiammate e convinte espressioni al riguardo:

«Non possiamo dimenticare che viviamo in una vasta democrazia, non solo francese, ma universale. Che si viva sotto un monarca o un presidente della repubblica, si è sempre cittadini liberi. Il vantaggio di una democrazia come la nostra, è che l’individuo partecipa per dare un indirizzo generale. Dunque, in democrazia, bisogna formare uomini illuminati e capaci di iniziativa. Se formate esseri passivi, che agiscono solo per l’impulso del potere, come costituirete una seria democrazia? Avrete solo persone sotto tutela, che saranno battute a ogni colpo, come sarà battuto in campo chi non avrà ricevuto alcuna educazione atletica»[9].

In queste parole, ricche di metafore sportive che ci colpiscono per la loro attualità, specie per lo sguardo “universale” necessario nei confronti delle diverse nazioni del mondo e che oggi chiameremmo “globalizzante”, p. Didon guardava alla vita dei colleges britannici.

La parte finale del discorso è forse quella più accattivante, nel senso che p. Didon si esprime in essa in modo spigliato e ironico, accogliendo una grande quantità di applausi entusiasti. Egli infatti vi descrive con sagacia i tre «nemici dello sport»: gli individui passivi, quelli affettivi, cioè i sentimentali, e gli intellettuali[10]. Alla fine egli cerca di giustificare le sue posizioni a volte eccessive, se non eccentriche, con una frase piuttosto netta e rivelatrice dei suoi modi di uomo schietto e sincero: «Io sono quel che sono; ho le mie idee, ho il coraggio di dirle e cerco di farle trionfare»[11], in un’atmosfera di applausi «frenetici e prolungati», come riporta il testo stenografato del discorso di Le Havre. P. Didon era infatti un ottimo retore e dietro alle sue parole si intravede ancora oggi la novità del suo metodo educativo che definiremmo “esperienziale”, l’unico che considerasse valido per la formazione di cittadini in grado di sottoporsi alla pratica austera, leale e cavalleresca del rispetto e della tolleranza reciproci. Il discorso di Le Havre si presenta dunque come una vera e propria summa della nascente pedagogia sportiva di fine Ottocento, che in p. Didon ha visto prendere vigore e che ancora oggi mostra tutta la sua attualità”.

NOTE

[1] Per alcuni cenni alla vita e all’operato di p. Henri Didon si veda A. Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo. Citius altius fortius tra corpo e spirito, Ave, Roma 2024, e NPG 4/2024, pp. 70-72.
[2] La prima edizione è consultabile in https://gallica.bnf.fr e i numeri delle pagine citate si riferiscono a questo testo: Le p. Didon, Influence morale des sport athlétiques. Discours prononcé au Congrés Olympique du Havre le 29 juillet 1897, J.Mersch impr., Paris 1897, (https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k73110q.texteImage consultata nel maggio 2017). La seconda edizione si trova nella raccolta L’éducation présente cit. pp. 372-394.
[3] Cfr. in particolare gli Atti del Congresso del suo Centenario: N. Müller (ed.), Coubertin et l’Olympisme. Questions pour l’avénir. Le Havre 1897-1997, Raport du Congrès du 17 au 20 septembre 1997 à l’Universitè du Havre, Comité International Pierre de Coubertin – CIPC, Lausanne 1998.
[4] Le p. Didon, Influence morale des sport cit., pp. 6-7.
[5] N. Müller, Après un siècle d’Olympisme cit. Cfr. P. de Coubertin, Memorie olimpiche, a cura di R. Frasca. Mondadori, Milano 2003 (ed. orig. 1931), p. 39.
[6] P. H. Didon, Influence morale des sport athlétiques cit., p. 8.
[7] Ivi p. 12.
[8] Ibid.
[9] Ivi p. 15.
[10] Per uno sguardo più approfondito a queste tre categorie si veda Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo, cit. Con queste tre categorie si allude ai pigri e sedentari, alle madri apprensive e a chi dedica la sua vita allo studio, senza troppo capire dello sport agito.
[11] Ivi p .20.