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Il Beato Rolando Maria Rivi

Da NPG di dicembre.

di Emilio Bonicelli

Nevicava forte la notte del 7 gennaio quando, sul colle di San Valentino, nella casa del Poggiolo, a Castellarano RE, nacque Rolando. Il giorno dopo i genitori lo portarono nella vicina e antica Pieve perché fosse battezzato e lo affidarono alla Madonna del Carmelo. Il suo nome completo è, infatti, Rolando Maria Rivi.
Era un bambino allegro, vivacissimo, sempre in moto, un fuoco ardente. Nessuno riusciva a tenerlo fermo. Entusiasta della vita, intelligente e dotato di una memoria straordinaria, era il più scatenato nei giochi, il più veloce nelle corse e il più creativo nell’inventare sempre nuove birichinate. Per questo era anche il più amato dagli amici per ogni svago.

Santo o brigante

Osservando Rolando che non conosceva mezze misure e si gettava con foga in ogni nuova avventura, la nonna Anna, diceva: “Diventerà un santo o un brigante”. Un incontro decisivo contribuì però a orientarlo nella giusta direzione.
Quando Rolando aveva tre anni nella Parrocchia di San Valentino arrivò un nuovo parroco, don Olinto Marzocchini. Era un sacerdote di fede viva, di intensa umanità, di grande cultura. Con il suo passo lungo e frettoloso, con sempre indosso l’abito talare, don Olinto si recava di casolare in casolare a portare conforto agli ammalati e aiuto alle famiglie più povere.
Crescendo Rolando aveva iniziato a interrogarsi su che cosa avrebbe voluto fare da grande. Quel sacerdote che spiegava a tutti con chiarezza il significato della vita; quel sacerdote cui tutti gli abitanti del paese si rivolgevano, con affetto e rispetto; quel sacerdote che si spendeva senza limiti per il bene di ogni persona, lo affascinava. Gli sarebbe piaciuto da grande essere come lui.
Così Rolando comunicò ai genitori che, terminata la scuola elementare, voleva continuare gli studi in seminario e diventare sacerdote. Fu una sua libera scelta, che stupì il papà e la mamma. Mai avrebbero immaginato che in quel ragazzo, scatenato nei giochi e campione nelle birichinate, potesse fiorire la vocazione religiosa.

Giovane seminarista

A 11 anni, nell’ottobre del 1942, Rolando entrò nel seminario di Marola (Carpineti RE), e vestì per la prima volta l’abito talare. Non lo lascerà più sino al martirio. Aveva un desiderio nel cuore: diventare sacerdote e missionario.
In Rolando furono evidenti in quel periodo i segni di un cambiamento interiore. Il fuoco giovane di vita che ardeva in lui cresceva, insieme al suo carattere esuberante, ma ora tutto era orientato a un nuovo centro affettivo, a un grande Amico. Il giovane seminarista dava voce a questo cambiamento con solo quattro parole, che spesso ripeteva: “Io sono di Gesù”. Una sintesi mirabile della nostra identità cristiana: noi apparteniamo al Signore, che ci ha voluti, ci ama e ci attende.
Quando Rolando entrò in seminario, l’Italia era già in guerra e anche a Marola erano progressivamente cresciute le preoccupazioni per le notizie di bombardamenti, stragi, distruzioni, rastrellamenti che avevano coinvolto anche alcuni vicini paesi dell’Appennino reggiano.
Poi il 22 giugno 1944 i nazisti fecero irruzione nel seminario e lo trasformarono in una propria base logistica. I ragazzi ritornarono a casa e fu chiaro che il seminario non avrebbe potuto riprendere la propria attività sino a quando la guerra non fosse finita.

Testimone della verità

Tornato a casa Rolando decise di continuare, per quanto possibile, a fare vita da seminarista vestendo sempre l’abito talare. I familiari e gli amici notavano il profondo cambiamento avvenuto. Era sempre lui, ma diverso: il più scatenato nei giochi era ora anche il più assorto nella preghiera; il più discolo non aveva perso il suo carattere esuberante, ma era diventato un maestro, il cui entusiasmo suscitava negli altri ragazzi il desiderio di imparare da lui a seguire Cristo.
In paese, però, era diventato pericoloso proclamarsi pubblicamente amici di Gesù come faceva Rolando. Sul finire della seconda guerra mondiale, infatti, soprattutto in alcune zone dell’Emilia Romagna, si era diffuso, insieme all’affermarsi dell’ideologia comunista, un clima di forte ostilità verso i sacerdoti e verso ogni espressione pubblica della fede.
Il pericolo, dunque, era concreto e gli altri seminaristi della zona avevano lasciato l’abito talare. Anche la mamma Albertina, quando Rolando rientrava a casa, dopo la Messa del mattino, gli diceva: “Togliti la veste”, ma lui rispondeva: “Mamma non posso. È il segno che sono di Gesù”.
Più Rolando testimoniava pubblicamente la propria fede, più diventava un punto di riferimento per gli altri giovani, più cresceva l’odio contro di lui.

Il martirio

La mattina del 10 aprile 1945 due partigiani comunisti di San Valentino, che facevano parte di una formazione acquartierata sull’appennino modenese, si misero in azione. Dopo la Santa Messa, come faceva di solito, Rolando era andato a studiare vicino a un boschetto non lontano da casa. Lì i partigiani lo sorpresero, gli puntarono le armi, lo costrinsero a seguirli sino alla loro base, un vecchio casolare a Piane di Monchio (MO). Qui lo chiusero in uno stanzino vicino alla porcilaia, improvvisata e orribile prigione.
Da quel momento tutto quello che accadde a Rolando fu come un rinnovarsi in lui della passione di Cristo.
Contro il giovane seminarista, fatto prigioniero, fu inscenato un processo farsa, con false accuse, e di lui dissero: “sei una spia”. Come il processo di fronte a Caifa, dove Gesù fu accusato di essere un bestemmiatore.
Allora frustarono con odio Rolando, così raccontano i testimoni, con la cinghia dei pantaloni, fino a lacerargli la carne. Come il flagello con cui colpirono Gesù. I persecutori strapparono di dosso al seminarista la talare, quella veste che il ragazzo tanto amava, perché segno visibile della sua appartenenza a Cristo e alla Chiesa. Come il Signore, spogliato delle vesti e schernito dai soldati romani. Poi i partigiani arrotolarono la talare e, in segno di disprezzo, la presero a calci. Nessuno può immaginare quanto dolore provocò questo fatto nel ragazzo che si sentiva ferito negli ideali di bontà, di verità, di bellezza che quell’abito rappresentava.
Il 13 aprile 1945, era un venerdì pomeriggio, lo stesso giorno della morte di Gesù sulla croce, Rolando fu ucciso, in odio alla sua fede cristiana, dopo essere stato trascinato in un bosco, dove tutto era pronto per il suo supplizio. Il commissario politico del gruppo, sparò due colpi di pistola contro il giovane seminarista, mentre questi, in ginocchio, pregava per il suo papà e la sua mamma.
Pregava e nessuno, né le offese, né le percosse, né le umiliazioni, né le torture, né la stessa morte, riuscirono a strapparlo dalla mano del suo grande Amico. Là dove l’ideologia, la violenza e l’odio della guerra sembravano dominare incontrastati, Rolando fece risuonare alto il suo amore a Cristo morto e risorto.

Accolto come martire

Intanto il padre Roberto e il suo parroco, don Alberto, stavano cercando da giorni il ragazzo, ma giunsero sul luogo del martirio solo al sabato sera, quando tutto si era già compiuto. Ormai faceva buio. A Roberto e don Alberto non rimase altra scelta, se non quella di tornare a Monchio, il paese più vicino, per trascorrere la notte nella Casa canonica.
Il giorno dopo il sabato, il 15 aprile 1945, terza domenica del tempo di Pasqua, il papà e don Alberto si recarono di buon mattino nel bosco del martirio, per riavere Rolando. Il corpo del seminarista fu portato nella chiesa di Santa Maria Assunta a Monchio, per celebrare il funerale cristiano, e poi fu deposto nel vicino cimitero.
A guerra finita, il 29 maggio 1945, il papà Roberto riportò la salma del figlio al suo paese, su un biroccio trainato da un cavallo. Gli amici e gli abitanti di San Valentino gli andarono incontro in località Montadella. Poi il lungo corteo si radunò in chiesa. Tutti si unirono in preghiera e spontaneamente riconobbero Rolando come martire della fede. Le campane, silenziate durante la guerra dai nazisti, tornarono a suonare e le bandiere dell’Azione Cattolica, proibite durante il fascismo, tornarono a sventolare. Fu una festa della libertà religiosa.
Nel dopoguerra la memoria di Rolando e del suo martirio è rimasta viva e si è progressivamente diffusa, ma in modo discreto, quasi sotterraneo, come un seme che, deposto nella terra, lentamente germoglia.

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