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Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG: il discernimento

Da NPG di febbraio 2023.

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di Gianluca Zurra

Il “discernimento” è una parola tradizionale della fede cristiana. Pensiamo, per esempio, al discernimento spirituale, fatto di ascolto e di preghiera, di aiuto reciproco e di suggerimenti fraterni. Dai più semplici monasteri fino alle più grandi abbazie, come dalla quotidianità delle nostre parrocchie fino ai grandi Concili, il discernimento rappresenta una tappa decisiva, tramite cui si realizzano le scelte ecclesiali più importanti, nell’intimità della coscienza come nello spazio pubblico, in genere dopo attenti confronti e verifiche.
Oggi, rimettendo al centro la forma sinodale della Chiesa, si è riscoperto questo processo di decisione, che coinvolge l’interiorità, certo, ma sempre dentro un contesto di relazioni comunitarie. Dire sinodalità, dunque, significa dire “percorso di scelta”, poiché senza la ricerca e il raggiungimento di una effettiva decisione comune il cammino sinodale rischierebbe di rimanere sterile.
Ci soffermiamo, allora, su questa parola, così antica ma anche bisognosa di essere riletta per la nostra situazione odierna.

La vita come discernimento

Per prima cosa è necessario ricordare che la vita stessa nel suo insieme è discernimento, cioè una vera e propria iniziazione a saper scegliere imparando a separare, a distinguere, a lasciare, a non volere tutto. Il senso di ogni cosa, infatti, non si dà per facile trasparenza immediata, ma può essere colto solo attraversando, leggendo e assumendo con libertà e responsabilità ciò che succede lungo la strada dell’esistenza. Inoltre, per il fatto che la nostra umanità è plurale, sinfonica, a più voci e non monolitica, il confronto tra le diversità non può essere evitato. Discernere, pertanto, richiama la nostra unicità di esseri umani, grazie alla quale non ci limitiamo a vivacchiare biologicamente, ma ci lasciamo interpellare dalla vita e con fatica scegliamo a proposito del futuro e del nostro posto nel mondo.
La tentazione più grande, oggi, sembra duplice: da un lato ritenere che si possa vivere senza decidere, quasi cercando di restare alla finestra senza scendere in strada, e dall’altra immaginare che il discernimento possa accadere tra sé e sé, nel chiuso del proprio intimismo, senza quella rete di relazioni, fatte di persone, di ambienti, di cose che ci circondano.
Scegliere, invece, si deve ed è possibile nella misura in cui ci si fida a tal punto da abbassare le proprie difese, per scoprire che proprio gli altri hanno qualcosa di unico da dirci a proposito di noi stessi. Fiducia e apertura sono il doppio motore del discernimento, che potrà giungere così ad un taglio, ad una separazione che fa partire, nascere e decidere: chi vuole tenere tutto non prenderà mai una direzione, ma tenderà a girare freneticamente come in una rotonda, senza scegliere davvero una strada.
Il cristianesimo si è intrecciato da sempre con questa profonda esigenza umana, presentandosi come la “Via” inaugurata da Gesù che, senza sostituirsi alla libertà, le permette di compiere il duro lavoro della scelta, evitando che resti a galleggiare “a metà strada” priva di una destinazione buona.

Il discernimento di Gesù

Gesù è riconoscibile come Maestro e Signore grazie al suo modo unico di leggere la realtà e di fare discernimento lungo tutta la sua vita. Basti pensare ai due grandi “deserti” da lui vissuti: le tentazioni[1], che lo spingono a rivelare il Padre secondo una logica di violenza e di spettacolarizzazione, a cui resiste dopo una lunga lotta di riflessione a partire dalle Scritture, e l’orto degli ulivi[2], luogo della sua decisione più drammatica, quella di continuare fino in fondo a testimoniare l’amore anche nel rifiuto violento che gli uomini gli stanno preparando.
Eppure, questi momenti di intima solitudine sono pieni di tutte quelle relazioni che il Figlio di Dio vive sulla sua pelle e tramite cui soltanto può fare discernimento a proposito del desiderio buono del Padre verso di lui. Nel gesto battesimale del Battista, inatteso e sorprendente, Gesù approfondisce il senso della sua identità udendo la voce dall’alto, mentre nei molteplici incontri lungo la strada comprende sempre meglio l’universalità della sua missione. Grazie alla rilettura della Legge e dei Profeti dà forma alla sua esistenza, fino a scoprire il Regno di Dio nelle cose di tutti i giorni e nella imprevista accoglienza dei piccoli e dei semplici. Quello di Gesù è uno sguardo di discernimento continuo, per il quale nulla di ciò che viene “dall’alto” può essere percepito senza il continuo attraversamento, saggio e profondo, di tutto ciò che arriva “dal basso”.
Uno dei brani evangelici più significativi a proposito del discernimento è senza dubbio Lc 12, 54-59: Gesù rimanda i suoi interlocutori alla responsabilità della loro coscienza, senza sostituirsi alla libertà consapevole a cui ciascuno è chiamato. La capacità di discernere il cambiamento del tempo atmosferico ricorda la necessità di saper valutare il tempo presente: “perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”. L’esempio che viene utilizzato è spiazzante, ma assai suggestivo: sapersi accordare con l’avversario lungo la strada è conveniente, almeno per evitare violenze e ingiustizie più grandi. Colpisce come lo sguardo del Figlio di Dio sia molto concreto, liberando il discernimento da una cornice moralistica, per introdurlo invece nella logica, spesso drammatica e difficile, della costruzione della fraternità e della pacificazione. La fede, di cui Gesù è iniziatore e accompagnatore, diventa così criterio di scelta e direzione possibile per la coscienza, che non viene sollevata in modo infantile dal suo lavoro, ma condotta a muoversi con saggezza nelle molteplici esperienze della vita.
Per il medesimo motivo Gesù chiama a sé una comunità di discepoli e consegna loro, non a singoli, il compito missionario del discernimento evangelico, tramite un processo che diventerà fondamentale per la forma sinodale della Chiesa. Ne è testimonianza l’inizio del capitolo 10 di Luca[3]: i discepoli vengono inviati a due a due, non da soli, verso un contesto in cui è necessario prima di tutto cogliere la grande e promettente quantità della messe. Seguono poi alcune indicazioni su come muoversi nell’annuncio, con mezzi poveri e con libertà di spirito, senza protagonismi o invadenze che intacchino la libera accoglienza del vangelo. C’è poi un ritorno degli inviati, che raccontano e fanno un resoconto comunitario dell’accaduto; ma c’è bisogno di una ulteriore parola di Gesù perché ciò che succede possa essere pienamente compreso. Invio, stile evangelico, racconto e disposizione alla revisione del proprio lavoro sono i passaggi fondamentali di ogni discernimento, che è sempre relazionale, mai intimistico o magico.
Che Gesù ne sia davvero maestro lo si nota già nell’episodio della sua adolescenza, quando rimane al tempio di Gerusalemme senza ritornare nella carovana famigliare[4]. É suggestivo che proprio qui venga utilizzato il termine “sinodo” (comitiva, strada insieme): il Figlio adolescente riesce a discernere il luogo in cui deve stare in quel momento grazie alle molte voci “sinodali” della sua famiglia e della sua casa, comprese quella di Giuseppe e di sua madre, Maria. Certo, i genitori si stupiscono, ma a loro volta comprendono, mossi al discernimento, che ciò che sta accadendo è generativo: ogni vero percorso sinodale conduce a trovare una strada, un posto in cui poter dire: “qui e in questo modo ci si può occupare al meglio e insieme delle cose del Padre, dentro la quotidianità della storia”.
Dunque, è la fede stessa di Gesù a manifestarsi nella forma di un discernimento sulla vita e per tale motivo egli diviene Signore di ogni discernimento chiesto a chiunque si lasci condurre e rinnovare dal racconto evangelico. Un elemento è chiaro: soggetto di questo lavoro è sempre una comunità, perché non è possibile decidere di sé indipendentemente dal rapporto con gli altri.

Il discernimento ecclesiale

Quali criteri possiamo raccogliere a proposito di un discernimento ecclesiale veramente sinodale, secondo la forma di Cristo e del suo Spirito? I passaggi di questo processo, che deve giungere a decisioni precise, possibili e concrete, sono almeno tre: “stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano, tenere al centro la profezia del racconto evangelico custodito dall’Eucaristia e creare luoghi istituzionali di decisione feconda e di revisione comunitaria. Tenendo sullo sfondo l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus[5] possiamo tracciare meglio questi tre passi.
“Stare sotto” agli avvenimenti che ci spiazzano vuol dire stare con pazienza e fermezza sulla strada di tutti, ascoltando dall’interno ciò che succede nel cuore di ciascuno e attorno a noi, come Gesù verso i due discepoli smarriti. Non si tratta di ascoltare per giudicare e insegnare, ma per maturare un pieno e profondo “patire insieme”. Solo dentro questo lavoro di “compassione”, che istruisce e smuove il cuore, è possibile lasciarci guidare dalle Scritture, che aprono porte inattese lungo il sentiero. La richiesta accorata dei discepoli verso lo straniero incontrato perché entri e rimanga a tavola con loro è già frutto di un discernimento che non avviene a caso, ma che è stato suscitato da un confronto con i precedenti fatti di Pasqua illuminati dalla Legge e dai Profeti, a cui Gesù fa riferimento. Il discernimento si compie però solamente quando i due discepoli ripercorrono la strada all’incontrario, incontrando il resto della comunità e gioendo con loro per il riconoscimento del Risorto. Questo ultimo passaggio è ciò che ci manca di più nella Chiesa: non basta ascoltare la vita e le Scritture in maniera sinodale, ma si tratta di vivere sinodalmente anche il processo decisionale che scaturisce da quel discernimento, in modo che non sia in mano a uno solo o a un gruppo di pochi. È necessario che, anche chi ha la responsabilità ultima nel ministero, eserciti tale autorità dentro spazi e modalità che non cancellino il percorso precedente, ma lo assumano realmente e lo rilancino in vista di una sua revisione nuovamente comunitaria.
Solo attraversando tutti questi momenti, senza saltarne nessuno, il discernimento, compito fondamentale della nostra vita, compiuto da Gesù nella sua stessa esistenza, può diventare un reale cammino ecclesiale, tramite il quale è possibile, oggi come allora, scioglierci insieme nella professione di fede: “Abbiamo visto il Signore”. E a questo punto la sinodalità troverebbe la sua efficacia come effettivo processo decisionale nello Spirito, in grado di alleggerire e innovare: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”[6].

NOTE

[1] Cfr. Mt 4, 1-11.
[2] Cfr. Mc 14, 32-42.
[3] Cfr. Lc 10, 1-20.
[4] Cfr. Lc 2, 41-50.
[5] Cfr. Lc 24, 13-35.
[6] Cfr. 1Ts 5, 21.

 

Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG: fraternità

Da NPG

Contestabile e amata

di Sophie Perret

“Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!
Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo!”
Con queste parole di Carlo Carretto vorrei iniziare a raccontare il mio piccolo sogno, il “cantiere di fraternità” che sta coinvolgendo, a piccoli passi, la mia vita. Mi chiamo Sophie e ho 28 anni. Da molto tempo ho il desiderio di mettermi a servizio della Chiesa e in particolare della comunità di cui faccio parte. Ho iniziato 14 anni fa con il servizio educativo in Azione Cattolica e con l’animazione dei più piccoli e dei giovani in parrocchia, poi con l’impegno in cantoria. Tuttavia ho sempre la sensazione di poter fare qualcosa di più, di volermi mettere in gioco un po’ di più.
L’idea di cui voglio raccontare è nata nel 2019, dopo il pellegrinaggio diocesano alla comunità di Nuovi Orizzonti a Como. Abbiamo incontrato giovani laici che per scelta vivono insieme, pregano insieme e si dedicano al servizio degli altri, mantenendo il proprio lavoro e la propria vita “ordinaria”. Questa esperienza mi ha colpita molto e ne ho parlato a lungo con una mia amica che, come me, ha vissuto in modo intenso questo pellegrinaggio. Così abbiamo iniziato a ragionarci e ci siamo dette che sarebbe bello provare a vivere qualcosa di simile.
Abbiamo iniziato a guardarci intorno e ad informarci, anche andando a conoscere realtà diverse. Siamo andate a visitare la Comunità Cenacolo e ci siamo confrontate con persone che fanno esperienze simili. Ad un certo punto abbiamo capito che dovevamo partire da qualcosa di più piccolo, semplice, vicino.
Da pochi anni il mio parroco aveva ricevuto l’incarico di occuparsi anche della parrocchia limitrofa, poiché il parroco precedente era venuto a mancare. La casa parrocchiale era rimasta vuota, disabitata. Perché non provare a chiedere? Certo, sarebbe strano se delle ragazze abitassero in casa parrocchiale, chissà cosa direbbero le persone, chissà come reagirebbero i nostri genitori. Nonostante questi pensieri ho voluto parlarne con il parroco e, con mio grande stupore, la reazione è stata di entusiasmo ed accoglienza. Ne abbiamo parlato a lungo e poi, passo dopo passo, lo abbiamo detto alle comunità parrocchiali incontrando i consigli pastorali:
“Per iniziare, l’obiettivo non è quello di fare cose straordinarie ma semplicemente di tenere “viva” la casa. I gruppi delle medie e delle superiori, che fino ad ora si incontravano solo nella parrocchia vicina, potrebbero iniziare ad incontrarsi anche qui e, se sarà possibile, cercheremo di proporre qualche giornata di gioco anche per i bambini, durante l’anno o in estate. Vorremmo semplicemente vivere insieme il nostro essere laiche, cristiane, al servizio della Chiesa. Ovviamente, oltre al servizio pastorale, siamo disposte a contribuire a livello economico con una quota mensile e pagando le spese legate all’appartamento. Non ci stiamo rivolgendo alla Parrocchia per averne un vantaggio in questo senso ma perché vorremmo davvero viverlo come un servizio alla comunità”.
Davvero niente di straordinario, semplicemente abitare un luogo che, per sua natura, ha un valore un po’ più profondo di un qualunque appartamento. Vivere insieme, pregare insieme, andare a lavorare, mantenere gli impegni personali, ma abitare un luogo un po’ particolare.
La mia amica mi ha accompagnata fino a qui, fino a quando il nostro sogno ha iniziato a prendere forma, poi ha fatto un piccolo passo indietro e mi ha detto che per lei non è ancora il momento di andare via dalla propria casa. Quindi a novembre 2021 sono entrata nel nuovo alloggio da sola, ma se non fossi stata con lei a “progettare” questa avventura non so se sarei arrivata fin qui.
Per ora è così, ho iniziato ad ambientarmi e a conoscere le persone che abitano accanto a me, ad incontrare alcuni ragazzi e a proporre degli incontri, ma sono sicura che questo “cantiere” sia ancora aperto. Sono convinta che il Signore abbia in mente ancora qualcosa per questa casa. Tutto è nato da un desiderio di comunità, di fraternità, e questo mi allarga il cuore. Vorrei che questi spazi diventassero luogo di incontro, di condivisione, di quotidianità spezzata con altri. Forse non nel modo che credevo, forse per altre strade.
Non so come andrà avanti il “cantiere”, non so se qualcuno verrà a vivere qui o se il Signore si inventerà nuove idee per dare vita a questo luogo, ma so per certo che sono felice di far parte di questa Chiesa e di dedicarmi ad essa. Per quanto sia complicata, contestabile e dolorante, la Chiesa ha ancora molto da dire e da dare alle persone. Anche io, come Carlo Carretto, le devo molto e voglio provare a mettermi a disposizione.

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