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Grammatica civica / Marcello, Xi Ling, Fatima: dal pronome al nome

Da Note di Pastorale Giovanile.

di Raffaele Mantegazza

 

Dante, perché Virgilio se ne vada
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada
Purgatorio, XXX, 55-57

L’incontro di Dante con Beatrice è altamente drammatico. Il poeta sta piangendo amaramente per la scomparsa improvvisa di Virgilio che ha concluso il suo ruolo di mentore e lo ha lasciato solo, quando la donna della sua vita inizia un lunghissimo rimprovero, così aspro e violento che addirittura le beate che accompagnano Beatrice intercederanno per Dante cercando di placare l’ira della donna. È un incontro che fa vergognare il poeta e lo fa pentire dei suoi errori. Sembrerebbe un incontro negativo, il più drammatico di tutti quelli finora svoltisi all’Inferno o nel Purgatorio. Ma l’aspetto che maggiormente colpisce in questi versi è che Beatrice è la prima e l’unica persona in tutta la Divina Commedia a chiamare Dante per nome. L’ha notato Jorge Luis Borges: nessuno, nemmeno Virgilio, si è mai rivolto e si rivolgerà mai al poeta fiorentino pronunciando quel vocativo “Dante” che in bocca a Beatrice quasi intenerisce tutte le rampogne che seguiranno.

Che cosa c’è in un nome? Ovviamente c’è la storia, le esperienze di vita, quel qualcosa di magico che ci fa voltare per strada quando sentiamo il nostro nome anche se il richiamo non è rivolto a noi. Con il nostro nome ci identifichiamo, sia che lo amiamo, sia che non ci piaccia; è la base dei nomignoli, dei soprannomi, delle storpiature a volte affettuose a volte crudeli. È la nostra seconda pelle, un intrico di vocali e consonanti che ci definisce, che ci fa essere “qualcuno” di fronte agli altri e di fronte al mondo. Il nome ci fa diventare dei “tu”, e di fronte a chi ci dà del “tu” diventiamo anche degli “io”.
È mia abitudine [1] dare del “lei” agli studenti universitari perché ritengo che l’Università sia un luogo di adulti e vi si debbano intrattenere relazioni adulte, ma sia a me che ai miei studenti piace molto che li chiami per nome a lezione o durante l’esame. “Buongiorno, Simone, iniziamo l’esame”: un modo per dire che l’esame lo devi sostenere proprio tu, ragazzo di vent’anni, che questo nome rende irripetibile e insostituibile, e che io ho ben presente la tua identità di adolescente giustamente filtrata dal ruolo di studente. Gli studenti hanno un numero di matricola: usarlo per qualcosa di altro che per questioni di archiviazione burocratica dei dati significa mettere in campo una relazione spersonalizzata, un rapporto che ha ben poco di umano. Per inciso non ho mai sentito niente di più sciocco dell’affermazione secondo la quale gli studenti universitari sono ormai grandi e non hanno bisogni di tipo pedagogico, emotivo e educativo. Come se questi bisogni finissero con la maggiore età, come se avessero una data di scadenza come i pomodori che si acquistano al supermercato. Semmai occorre considerarli come bisogni adulti, e farli entrare nella relazione educativa in modo differente da come si farebbe con un bambino appunto.

Ho usato sopra l’espressione “i miei studenti”. Questa è la chiave probabilmente per accedere al mondo dell’educazione civica dal versante pedagogico. Questo è il segno di quella straordinaria magia che viene messa in atto dalla relazione educativa, che fa sì che un nome sia qualche cosa di diverso da una semplice parola, e che un nome ripetuto, un’omonimia, non sia mai una vera ripetizione. Tutto questo ci fa veramente accedere al mondo della cittadinanza. I “miei” studenti sono “miei” perché non li possiedo, né individualmente né in serie; ma il loro essere “miei” è segno di una relazione di cura che ha ben chiaro in mente il momento nel quale io non sarò più il loro professore e loro non saranno più i miei studenti, ma torneremo ad essere solamente cittadini. Ho scritto “i miei studenti”, ma probabilmente avrei dovuto scrivere il “mio” Stefano, il “mio” Ionu, la “mia” Chiara. La relazione educativa non si lascia facilmente descrivere a parole, perché cambia ogni giorno al variare dei personaggi e al variare di ciascun personaggio in sé medesimo.

“Tu!” “Io?” “Sì, tu!”. Così Giulio Carlo Argan dà voce al capolavoro La chiamata di Levi di Caravaggio. C’è tutto lo stupore dell’essere chiamato, una chiamata del tutto inattesa, una vocazione che viene a svegliare dal torpore l’ultima persona che si riterrebbe degna di una relazione con il Maestro: cosa che peraltro Gesù è solito fare per tutta la sua avventura terrena. Un tesissimo scambio dialettico che mi sembra emblematico del rapporto io-tu proprio dell’educazione. Io mi rivolgo a te, proprio a te, come l’Imperatore nella novella di Kafka: “L’imperatore – così si dice – ha inviato a te, al singolo, all’umilissimo suddito, alla minuscola ombra sperduta nel più remoto cantuccio di fronte al sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha mandato un messaggio dal suo letto di morte”. Moltissimi anni fa un ragazzo di 14 anni mi raccontava il suo orgoglio perché, nel suo paese sul lago di Como, un anziano al bar lo aveva scelto come compagno in una sfida a scopa. Il fatto di essere stato scelto, indicato, chiamato a sé da una persona che poteva avere l’età di suo nonno aveva dato a questo ragazzo una sferzata di energia positiva. Questo accade sempre nella relazione educativa quando l’allievo si rende conto che le parole del maestro sono rivolte a lui in modo specifico, che c’è qualcuno cioè che si prende cura di lui chiamandolo per nome ed entrando, delicatamente, nella sua vita. E che lo chiama a una nuova vita, perché il nome che entra nella relazione educativa è qualcosa di differente da quello registrato all’anagrafe; è un nome affettivizzato, investito di un progetto, un nome giocato al futuro: il nome di un mio allievo che voglio guidare alla conquista di una nuova identità.
L’educazione è dunque una chiamata; potremmo definirla una vocazione se questa parola non fosse stata sprecata retoricamente per definire l’educatore (“non è un mestiere, è una vocazione!”, il che semmai dovrebbe valere per ogni mestiere realmente scelto dal profondo dell’anima), mentre invece ad essere “vocato” è l’allievo, è lui ad essere chiamato fuori dall’ex-ducere che viene messo in moto dal gesto dell’educatore.

Ma la grande sfida dell’educazione, quella che la rende indispensabile per la formazione del cittadino, è che questo rapporto non resta mai soltanto una relazione duale. Nel rapporto tra maestro e allievo è racchiusa tutta la società. Anche se l’allievo è portato a pensare “fra i tanti ha scelto me”, lo scopo del maestro è quello di fargli concludere: “fra i tanti ha scelto tutti, uno per uno”. Così un registro di classe non è mai semplicemente un elenco, ma un accostare storie, esperienze del mondo; non è soltanto una lista di dati biografici, ma un tentativo di predisporre un reagente all’interno del quale i nomi e le persone provano a conoscersi. Anche i ragazzi si chiamano per nome tra loro, e segretamente chiamano i loro maestri con un nomignolo o con un soprannome, non importa se sarcastico o ironico, l’importante è che sia aperta una comunicazione che non è mai solo tra due persone ma virtualmente tra tutti coloro che sono maestri e tutti coloro che sono allievi, ovvero tra tutti gli esseri umani.
Questo è il senso dello slogan “non uno di meno” che deve costituire il criterio regolatore di ogni azione educativa in una democrazia. La questione non è soltanto mettere a disposizione di tutti risorse e contenuti, ma arrivare al cuore e alla mente di ciascuno senza peraltro ridurre l’educazione a un rapporto privatistico; è tenere insieme il singolo e la collettività: da questo punto di vista allora l’educazione civica non è distribuzione di informazioni, ma è un approccio educativo che nella sua stessa forma è civico al di là di ciò che si insegna. Si può infatti insegnare la Costituzione in modo non solidale, tradendone lo spirito, come si può insegnare la matematica creando veri cittadini e cittadine.

Quello che è davvero civico è il rapporto tra maestro e allievo all’interno di un gruppo, che poi riverbera ovviamente anche nel rapporto tra gli insegnanti tra loro, tra questi e genitori, tra tutti i cittadini. In questo senso la collegialità è uno straordinario strumento di crescita civile e democratica di un gruppo di insegnanti; le riunioni collegiali sono dei microcosmi di democrazia, creano quella collettività adulta che poi andrà a confrontarsi con la collettività di bambini e dei ragazzi, mostrando con l’esempio quotidiano come è possibile crescere solo confrontandosi con gli altri, imparando dai propri errori, cercando di mettere in comune le buone pratiche e gli elementi di scoperta e di innovazione.
Con il nome, il primo elemento linguistico della nostra venuta al mondo, la parola che ci garantisce l’accesso alla cittadinanza e al mondo dei diritti dei doveri, si chiude questa grammatica civica. Una grammatica individualizzata, personalizzata; la “mia” e la “nostra grammatica” per una cittadinanza che non solo non ignora i nomi dei cittadini e delle cittadine, ma ne fa il perno per la costruzione di un mondo giusto per tutti.

NOTA

1 Parte di questo articolo è scritto in prima persona per motivi che dovrebbero risultare chiari dalla lettura.