Otto regole per viaggiare
Dal sito di NPG, un articolo di approfondimento sul tema del dossier di febbraio “Spiritualità del cammino”.
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di Franco Riva
Vedere è «lasciarsi scuotere», viaggiare è incontrarsi: passeggiare significa «permettere al mondo di entrare dentro noi stessi» (R. Walser, 2006). Del viaggio non si comprende nulla senza il rapporto con l’altro da sé. Non per una prevedibile curiosità nei suoi confronti, ma per lo stordimento che si riceve di contraccolpo quando si prende sul serio il pensiero che il mondo non è fatto a propria immagine e somiglianza.
Per Blanchot il viaggio, «l’esodo, l’esilio, indicano un rapporto positivo con l’esteriorità, e l’esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarsi di ciò che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa, identificando e riferendo tutto al nostro Io)» (Blanchot, 1981, p. 168; cfr. Sartre, 1993, p. 89). Troppo comodo perciò accontentarsi di ciò che è nostro, troppo facile, violento, prendere sempre per sé. Si viaggia solo al di là di se stessi.
Essere nati, abitare il mondo, vivere, esistere, è invece un’avventura: un’uscita, un esodo, un esilio, un lasciare – un «naufragio» (cfr. Blumenberg, 2005, pp. 37 ss.). Viaggiare è metafora della vita; vivere è metafora del viaggio. La vita è un esporsi, un «cammino», come scrive Dante all’inizio della Commedia, un errare, una «via» dove bisogna guardarsi bene «dal prendere se stesso per fine» (Buber, 1990, p. 55).
Metafora della vita, il viaggio lo è pure della democrazia. Finché gli uomini continuano a ingurgitare il mondo e a divorarsi a vicenda l’un l’altro nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, nella città non ci sarà mai giustizia (Esiodo, 274-280). L’assimilazione dell’altro ha nomi diversi, ora più morbidi, ora più cruenti, che si rigirano tutti però, come una trottola, sullo stesso punto del prendere per sé: le logiche tenacemente individualistiche del fare esperienze, del crescere, del conoscere saranno poi così diverse dai colonialismi, dagli imperialismi, dalla cultura unica, dalle globalizzazioni del denaro, dai villaggi turistici, dai viaggi di piacere?
Per quanto pubblicizzato come l’avventura più straordinaria che si possa immaginare, non è mai un vero viaggio quello che assimila e che prende per sé, che riduce gli altri a strumento, a occasione per la propria crescita: motivo spesso sfruttato, in apparenza innocuo e benevolo, perfino educativo, si alimenta su uno sfondo opportunistico e perverso.
Prima regola: VIAGGIARE È LASCIARSI INCONTRARE DALL’ALTRO.
Sentire l’altro, la meraviglia
Nel suo andare, Violeta si sente «sempre più affascinata» (Serrano, 2008, p. 215). Nei racconti e nei film di viaggio la fanno sempre da protagonisti lo stupore e la meraviglia. In diversi casi a ragione, per via delle nuove esperienze che si stanno facendo; in altri casi a torto: l’enfasi, la ricerca d’effetto a tutti i costi, nasconde spesso un vuoto. In nome del meraviglioso ci si lascia abbindolare con viaggi dal sapore esotico che tradiscono le attese. Eppure, in bene o in male che sia, senza meraviglia e senza stupore non può esserci viaggio.
Stupore e meraviglia: restituiscono il senso dell’altro in quanto altro, come diverso da me, irriducibile a ciò che sono io, come qualcuno che mi costringe a pensare. Con la meraviglia s’inizia a pensare, a viaggiare, a parlare, di modo che ogni viaggio è un pensiero, ogni pensiero un viaggio: perché nel viaggio si pensa, perché si viaggia senza neppure uscire di casa (cfr. De Maistre, 1999), ma soprattutto perché quando si pensa, e quando si viaggia, niente rimane più come prima.
Il viaggio corre lungo i fili della meraviglia per quello che si vede, per gli incontri che si fanno, per il proprio meravigliarsi. Marco Polo vede in Oriente cose «meravigliose» e «quasi infinite»: sono i paesi e le città che visita, sono ancor più le persone con cui si ferma molto a parlare (Polo, 1954, pp. 3-4). Persone e meraviglia s’intrecciano nel viaggio.
Non c’è viaggio, parola, racconto, senza distacco da sé. Il segreto del viaggio è il suo momento di crisi, di uscita: è l’esperienza di qualcosa che non finisce perché non è più tutto nelle proprie mani. La crisi non segna il viaggio in negativo, quasi fosse un improvviso squilibrio, qualcosa che non doveva succedere, un incidente; come se il mondo prima fosse stato in ordine. Al contrario. Se non succede qualcosa, se non si rischia, non si esce, non possono cominciare né racconti, né viaggi. I racconti di viaggio confermano in pieno la struttura di ogni narrare (cfr. Todorov, 1995, cap. 6): come per Il piccolo principe di Saint-Exupéry, o II volo di notte, il viaggio e il racconto sono possibili grazie al momento di crisi che s’incunea tra la situazione iniziale e quella finale.
Seconda regola: DI FRONTE ALL’ALTRO – NELLA MERAVIGLIA, NELL’INFINITO, NELLA CRISI – STA LA VERA PARTENZA DI UN VIAGGIO.
Stare in viaggio
Nella meraviglia l’infinito si presenta come un distrarsi da sé, un viaggio. Non è il movimento circolare di andata e ritorno, un uscire e un rientrare da casa per sbrigare le faccende di ogni giorno; e nemmeno i nostri esodi forzati del tempo libero, da weekend, da vacanze estive, che ricalcano l’identico schema.
On the road, per strada. L’incontro con l’altro non ha termine, e ci lascia sempre con un sentimento struggente che spiazza luoghi e tempi, e il senso stesso di ciò che è proprio. Crescono allora desideri e pensieri strani, che il nostalgico Ulisse forse non conosce: di non tornare più al punto di partenza, che viaggiare sia lo stesso stare in viaggio. Al «mito di Ulisse che ritorna a Itaca», Lévinas contrappone perciò «la storia di Abramo, che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta» (Lévinas, 1979, p. 30). Come Abramo appunto, che parte sapendo di non tornare, come la liberazione dall’Egitto, come l’impegno per una causa giusta o una cosa bella, che rapisce. Per quanto, di fronte alle difficoltà, è facile lasciarsi andare al rimpianto per non essere rimasti tranquilli in qualche Egitto, in qualche «casa di schiavitù», ma almeno con la «pancia piena» – vale a dire con l’illusione di qualche sicurezza, naturalmente garantita dal tiranno di turno (cfr. Walzer, 2004, p. 35 ss.). Si vive così, tra Ulisse (Joyce, 2008) e Abramo (Lévinas, 1979; Derrida, 2005; Id., 1967, p. 228).
Per il viaggio tutto allora si complica. Quando inizia il viaggio, con la mia iniziativa o con il fatto di trovarmi di fronte all’altro? Dove arriva il mio andare, dove invece il rispondere a una chiamata che proviene dall’altro e che trasforma impercettibilmente il proprio muoversi in un lasciarsi portare? Qual è la prima parola, l’io o il tu, come suggeriscono Nietzsche e Buber?
Terza regola: VIAGGIARE È STARE IN VIAGGIO.
Senza pentimenti. I viaggi dell’Occidente
Ci sono dei viaggi che non lo sono per davvero perché si viaggia senza staccarsi da sé, senza incontrare l’altro. Il viaggio della conferma di sé trasforma tutto in una colonia: della propria patria, dei propri interessi, dei propri piaceri, delle proprie sensazioni; e sono scenari che si replicano di continuo. Il viaggio non-viaggio è sempre, in qualche modo, di conquista o di guerra.
Dopo che l’Occidente ha circumnavigato – e forse occupato – il globo terrestre non è difficile accorgersi, come tornando al punto di partenza, di cosa stanno diventando i viaggi nella stagione in cui niente più del viaggiare sembra caratterizzarlo. I viaggi dell’Occidente sono sempre più dei viaggi senza l’altro: standardizzati, militarizzati, resi virtuali.
Sulla scena mondiale della globalizzazione il viaggio si trova al tempo stesso, e per le identiche ragioni, potenziato e avvilito: enormemente facilitato dai meccanismi globali di unificazione politica, economica, tecnologica, culturale e linguistica, è ostacolato proprio dall’uniformità eccessiva di luoghi e culture, che lo declassano a un semplice spostamento tra il centro e la periferia dell’unica metropoli mondiale (Riva, 2009, pp. 17-60). Il ritorno allo spostamento giornaliero, da pendolari del globo, fa perdere al viaggio l’incontro con l’altro. Così diffuso, così mercificato, si riduce a un oggetto di consumo, a un prodotto industriale, fino al punto che il consumo stesso diventa, come nel caso dello shopping dislocato altrove o dei turismi sessuali, l’unico motivo del viaggio. Il consumo divora anche il viaggio.
I viaggi dell’Occidente sono sempre più militarizzati. Nell’era del viaggio generalizzato risorgono frontiere e dogane: magari meno percepibili di quelle di un tempo, contenute nell’esibizione dell’intimo ai controlli degli aeroporti, ma pur sempre frontiere e dogane, posti di blocco. Solo in nome della sicurezza? Le procedure d’identificazione del viaggiatore hanno perso il loro carattere rituale e d’incontro (cfr. Leed, 2007; Canestrini, 2004), per farsi indagine poliziesca e interrogatorio, radiografie oscene. Dall’altra parte ci sono i viaggi degli immigrati, che militarizzati rimangono nella vecchia maniera delle sentinelle armate e dei fili spinati. Ci sono pure i viaggi degli eserciti.
Viaggi, in generale, dove forse non c’è più nessuno da incontrare. Fine stessa di ogni viaggiare.