Una pastorale che abbia «l’odore dei detenuti» (Domenico Ricca)
Intervista a don Domenico Ricca
Salesiano, cappellano al carcere minorile di Torino
a cura di Marina Lomunno
Come coinvolgere i giovani detenuti che popolano le carceri italiane e gli Istituti di pena minorili nel cammino del Sinodo dei giovani? Lo chiede, a nome dei cappellani degli Istituti penali per i minori, don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani, in una lettera inviata nei giorni scorsi agli incaricati degli Uffici di pastorale giovanile delle diocesi italiane.
Scrive don Grimaldi: «Il Sinodo può essere l’inizio di un progetto di collaborazione tra il Servizio di pastorale giovanile diocesano e la realtà dell’Istituto penale per minori e delle carceri… Un seme che nasce in questa occasione può diventare il segno di un cammino comune che va avanti in tempi ordinari. I giovani che escono dal carcere hanno bisogno di aiuto concreto, sono essi stessi ‘opere segno’ di cui tanto si parla nella Chiesa.
Hanno bisogno di casa, lavoro ma soprattutto di accoglienza nelle nostre comunità».
Abbiamo chiesto a don Domenico Ricca, salesiano, da 38 anni cappellano del carcere minorile torinese «Ferrante Aporti» di commentare queste sollecitazioni, convinti, come più volte richiama papa Francesco, che la pastorale giovanile deve rivolgersi a tutti, non a «categorie» di giovani siano essi neet, lavoratori, educatori parrocchiali, universitari, disoccupati, stranieri, detenuti…
Durante il Giubileo della misericordia il nostro Arcivescovo ha aperto una Porta santa anche nella cappella del «Ferrante Aporti», nell’intento di far sentire i ragazzi ristretti parte di una comunità. Ora voi cappellani proponete di rendere parte attiva i vostri ragazzi nel Sinodo dei giovani. Quale pastorale giovanile è possibile dietro le sbarre e come parlare ai detenuti di un Sinodo dedicato anche a loro?
L’apertura di una Porta santa al «Ferrante Aporti» è stato certamente un evento di alto valore simbolico, oserei dire più per la comunità diocesana che per i ragazzi. Il messaggio dell’Arcivescovo era rivolto ai ragazzi per testimoniare loro che in Gesù trovano sempre la misericordia, ma soprattutto un «avvocato», parola che a loro, in quanto detenuti, parla direttamente, che li ascolta, li accoglie. Sulla porta della cappella del nostro carcere c’è il Buon Pastore, quell’affresco datato II secolo d.C., dipinto su una volta delle catacombe di San Callisto a Roma. La scorsa domenica, dedicata appunto al Buon Pastore, è stata oggetto delle nostre riflessioni durante la Messa con i ragazzi del «Ferrante». Abbiamo anche condiviso l’immagine del pastore di papa Francesco che, nella Messa del Crisma del 28 marzo del 2013, invitava i sacerdoti a «essere pastori con ‘l’odore delle pecore’».
«Questo io vi chiedo», ha detto il Papa, «siate pastori con ‘l’odore delle pecore’, che si senta quello». Per questo, venendo alla domanda «quale pastorale giovanile è possibile dietro le sbarre», oserei rispondere: una pastorale giovanile che abbia «l’odore dei detenuti», dei ragazzi minorenni e giovani adulti in attesa di giudizio o in sconto pena.
Un pubblico variegato, multiforme, complesso, ma sempre adolescenti. Occorre prendere il loro odore, che è lo stesso delle periferie esistenziali, delle comunità per minori e delle accoglienze dei minori stranieri non accompagnati.
Come coinvolgere, secondo la sua esperienza, la Pastorale giovanile nelle carceri (non solo minorili: i giovani stanno anche delle carceri degli adulti), che tipo di percorsi di fede si possono pensare per i ristretti «giovani» tenendo conto anche delle diverse religioni della popolazione carceraria?
Nella lettera che lancia l’iniziativa del Sinodo dietro le sbarre, l’Ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, a nome di noi cappellani richiama come il Sinodo possa essere l’inizio di un progetto di collaborazione tra il Servizio di pastorale giovanile diocesano e la realtà degli Istituti penali per minori.
Una collaborazione che non si estingua con l’evento Sinodo, ma che duri nel tempo.
Certo, nel tempo i ragazzi cambiano: i nostri cancelli sovente per i più sono dei tornelli. Ma la comunità cristiana, la Pastorale giovanile, non può essere un tornello di ingresso e di uscita veloce.
Se vuole avere senso e significato deve garantire continuità, anche piccola, come quei ragazzi che animano da più anni la nostra Messa festiva al «Ferrante», magari sottraendo qualcosa al loro oratorio. Ma non è un sottrarre, è un aggiungere.
L’immagine scelta per il Sinodo è quella del discepolo amato: come trasmettere dietro le sbarre questa certezza, e che cioè Gesù ama tutti i giovani indistintamente e che è in qualche modo dietro le sbarre, è il loro «difensore»?
Questione difficile e poco verificabile, per la diversità dei linguaggi, per la multiformità delle simbologie che la storia di ogni ragazzo porta con sé a partire dal loro Paese, cultura e religione. Non facile anche per i giovani italiani, dove la riscoperta del religioso che è in loro si anima di immagini dei percorsi di catechesi della fanciullezza, di presenze in oratorio a volte, forse, di disturbo, di quello stare sulla porta perché curiosi di un mondo che sprizza gioia, allegria, con la paura di esserne esclusi. Ma anche incapaci di far scelte che durino nel tempo. Sulla porta perché positivamente «presi» da figure di preti, di parroci, forse poco clericali, ma tanto «persone». Preti e non disdegnano l’odore della strada, della periferia. I giovani hanno bisogno non di un’idea, ma di un sentimento, di un’emozione che fa fatica a tradursi in operatività, in voglia di cambiare. E dove non ce la fa ad arrivare Gesù, ci arriva la figura della Vergine.
L’Ave Maria, quell’Ave Maria di don Bosco…
Don Ricca, lei è salesiano e più volte ha spiegato che ha impostato la sua presenza in carcere come quella in un oratorio: come parlerebbe don Bosco del Sinodo dei giovani in carcere?
Don Bosco tornerebbe in prigione, tornerebbe alla Generala… si inventerebbe l’uso dei social. Creerebbe gruppi su Whatsapp e Instagram! Lui che ha inventato le «Letture cattoliche» per rendere accessibile a tutti, specie al ceto popolare, le ricchezze della cultura religiosa e della cultura in generale, cosa non inventerebbe oggi perché ai suoi ragazzi, «i discoli e i pericolanti », non venisse negato il diritto alla bellezza! È la lezione di don Milani: le forme sono del tempo, ma quello che ci ha lasciato è la voglia di rischiare, di chiedere di più, di non sedersi: direbbe papa Francesco «di non condurre una vita mondana». Don Bosco manderebbe in carcere i suoi preti e chierici più ardimentosi, giovani, li sosterrebbe anche nelle loro intemperanze.
Ma soprattutto sarebbe padre, amico e fratello dei ragazzi reclusi e ripeterebbe anche oggi il suo monito della «Lettera dei castighi»: «Amateli i ragazzi. Si otterrà di più con uno sguardo di carità, con una parola di incoraggiamento che con molti rimproveri » perché «tutti i giovani hanno i loro giorni pericolosi, e voi anche li avete. Guai se non ci studieremo di aiutarli a passarli in fretta e senza rimprovero ».
I giovani che sono in carcere sono l’anello debole di una catena, ma tanti «fuori» sono in preda al disagio e alla ricerca di senso. Come può il messaggio del Sinodo arrivare anche ai giovani che non sanno neppure cos’è un Sinodo e sono lontani dalle nostre parrocchie?
La domanda mi rasserena perché dà voce a tutte le mie perplessità, mi fa sentire meno extraterrestre… Perplessità che poi rimuovo perché temo siano le solite lamentale di chi sta con i giovani, ma non è più giovane, di chi li osserva, li ascolta, li fa parlare. Ma i dubbi permangono, neanche il «classico» antidoto dell’ottimismo salesiano riesce a fugarli. Forse noi siamo troppo abituati a pensieri compiuti, logici, razionali, completi. Ma non è più il parlare dei giovani, il linguaggio dei social, delle abbreviazioni, dei molti errori di ortografia e di sintassi che quando li leggiamo siamo tentati di rimandarli al mittente corretti. Il conversare sullo smarthphone, con le faccine sorridenti o con le lacrime, con il pollice verso, con gli emoticon e quant’altro… Quando la domenica in parrocchia mi trovo davanti un folto gruppo di ragazzi, allora privilegio il loro linguaggio, l’alfabetizzazione delle verità di fede, la semplicità della narrazione biblica, ma soprattutto cerco con gli sguardi e le domande di capire se hanno capito. Alla fine poi è un predicare che è molto gradito anche agli adulti… In una parola, dobbiamo correggere il nostro comunicare.
La scommessa non è di saper ridire ai ragazzi l’alfabeto della fede, di condividere con loro una nuova grammatica del parlare di Dio e con Dio? Se non ne siamo consapevoli il nostro sarà solo un balbettìo. Partiamo da questo nuovo alfabeto. L’alfabeto della vita che supera le distanze, i confini e le barriere geografiche, ma anche quelle generazionali.
(La Voce del Popolo – 6 maggio 2018)