La fede cristiana alla prova dei giovani (Luca Bressan)
Commento di Luca Bressan
Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale della Diocesi di Milano
«Scrivo a voi, giovani» (1Gv 2,12). A voi, che siete forti (2,14), poiché la parola di Dio rimane in voi. A voi che avete vinto il Maligno (2, 13. 14). A voi che avete conosciuto colui che è da principio, nel cui nome vi sono stati perdonati i peccati (2,12).
La determinazione parenetica dello scrittore della prima lettera di Giovanni ci è d’aiuto, in un momento in cui come Chiese locali ci interroghiamo e siamo alla ricerca dell’atteggiamento con cui vivere la prossima Assemblea del Sinodo dei Vescovi, dedicata ai giovani, al loro ascolto, ma soprattutto alla riflessione (con loro, avendo anche loro come protagonisti) sulla capacità di futuro dell’idea di una vita intesa come vocazione, sul futuro stesso della fede e dell’esperienza cristiana.
La prima lettera di Giovanni. Di fronte ad un mutamento culturale che non lascia indifferente l’esperienza cristiana ma – al contrario – la interroga e la scuote sino alle fondamenta, una comunità non più così tanto prossima alle origini sente il bisogno di appellarsi allo strumento paradigmatico della scrittura, della consegna, della traditio. Sente il bisogno (proprio rifacendosi al nome di un apostolo, scrittore a sua volta) di rivivere e rifare l’esperienza che ha portato alla scrittura del Vangelo, della buona notizia, per affrontare con lucidità una trasformazione identitaria che non sarà senza conseguenze.
Scrivere in quel caso viene visto come un’operazione positiva, che apre al futuro: obbliga i vari soggetti alla concentrazione, al distacco ascetico dalle emozioni; spinge al riconoscimento, alla identificazione del destinatario, nello sforzo di comprendere la realtà dal suo punto di vista, per potervi tradurre quanto allo scrivente è ovvio e allo stesso tempo basilare per la strutturazione della propria identità; chiede la saggezza del discernimento, ovvero la capacità di riconoscere quanto è veramente necessario ed essenziale (ciò a cui il cristianesimo è legato in modo indissolubile) per trasmettere l’esperienza che si sta vivendo dentro il nuovo contesto, purificando i propri stili, discernendo quanto di positivo c’è nel confronto dai contenuti potenzialmente mortiferi che l’incontro tra i due mondi sta generando.
Il Sinodo, un’operazione di scrittura
Anche oggi abbiamo bisogno di una simile operazione di scrittura, come il confronto quotidiano con l’universo dei giovani ci fa percepire. È l’esperienza normale ed abituale, per chi frequenta quel mondo: ci si trova confrontati a domande la cui risposta chiama in causa i fondamenti della nostra stessa esperienza di fede, ecclesiale e personale. Come mai l’esperienza cristiana, così come è attestata e vissuta nelle nostre istituzioni e realtà ecclesiali, trova sempre maggiore fatica ad intercettare il mondo giovanile, a presentarsi come una valida risposta alla ricerca di futuro, di bene, di felicità, di verità, che anima questo mondo? Come interpretare questa distanza, come abitarla?
L’operazione della scrittura si presenta in un contesto simile come quello strumento che consente di affrontare con serenità e determinazione la sfida che ci è posta davanti: ci obbliga a vederla, non ad ignorarla, rifugiandoci dentro l’inerzia che ogni istituzione è capace di generare, nella convinzione che la semplice ripetizione di pratiche e di percorsi ben consolidati da sola riuscirà presto o tardi a fare breccia nel muro della non comunicazione.
Il Sinodo a questo livello ci si consegna come un’operazione coraggiosa e al tempo stesso carica di fatica: chiede che si istituiscano luoghi di ascolto reciproco e di confronto; luoghi che permettono di realizzare una conoscenza non superficiale ma frutto dell’incontro, dell’intesa che si approfondisce e si ispessisce nella misura in cui il dialogo procede. Il Sinodo raggiungerà il suo obiettivo se sarà lo stimolo perché tutto il corpo ecclesiale esegua la medesima operazione di incontro e di confronto dell’Assemblea riunita a Roma. Le domande che ci sono state consegnate, i vari questionari prodotti e somministrati, non hanno primariamente uno scopo conoscitivo/informativo, ma devono funzionare come strumenti di relazione, come costruttori di legame. Servono non tanto per quanto ci diranno ma per i legami che sapranno creare. Perché la scrittura avvenga, perché la traditio avvenga, abbiamo bisogno non tanto di conoscere dove i giovani sono (i dati che li descrivono sono eccessivamente abbondanti, al riguardo), ma di incontrarli, di ascoltarli e di lasciarci ascoltare, nella reciproca consegna di ciò che più ci sta a cuore e di quello che è il senso della vita, la verità del mondo che siamo riusciti a scoprire.
Le ragioni della scrittura
Il mondo giovanile rappresenta per l’esperienza cristiana (e in particolare per la Chiesa che ha il compito di custodirla e di trasmetterla) il nuovo che avanza, l’ignoto che si presenta con le sue sfide e i suoi spazi da esplorare. Come tante altre realtà ed istituzioni, anche il cristianesimo sintetizza dentro la figura del giovane tutti gli elementi di trasformazione che stanno interessando l’esperienza umana, e che ci toccano in molti luoghi del quotidiano, interessando non soltanto i giovani ma ogni singola persona come ogni gruppo sociale.
Le sfaccettature del nuovo che avanza sono molteplici. Per sinteticità, le possiamo identificare raccogliendo dimensioni culturali e sociali: l’evoluzione della secolarizzazione, che ci rende più cinici perché veramente unidimensionali, avendo perso ogni capacità di concepire nel concreto la trascendenza; le nuove frontiere della cultura urbana e meticcia, conseguenza di una rivoluzione demografica che abbiamo acceso senza saperla governare; l’espandersi del mondo digitale e della realtà aumentata, che modifica la nostra percezione della vita, dei suoi confini, del suo carattere di ineluttabilità (il mondo digitale ci consegna come variabili dipendenti dalla persona dimensioni della vita prima intangibili: il sesso, l’età e la condizione sociale, il nesso mente/corpo); un mondo tecnologico e scientifico toccato da una accelerazione così consistente da aver indotto in molti un approccio sempre più religioso verso di esso; un’immaginazione sempre meno strutturata dei legami (familiari e sociali) e del rapporto tra persone ed istituzioni; una trasformazione del mondo del lavoro così radicale da generare conseguenze antropologiche e non soltanto sociali; la pratica scomparsa della dimensione della morte, del senso del limite e di conseguenza la trasformazione della domanda religiosa.
In tutte queste trasformazioni i giovani ci sono. A differenza di noi adulti, sono cresciuti in questo contesto in forte mutamento; e proprio dentro questo habitat stanno pescando gli strumenti (riti, valori, simboli, pratiche, legami, narrazioni e rappresentazioni) per costruire la loro identità. Una identità che – come ovvia conseguenza – fatica ad assumere come collanti e strumenti per l’unificazione delle tante esperienze in un unico itinerario di vita la forma che il cristianesimo aveva saputo generare proprio a questo scopo: la figura della vita intesa come vocazione, come risposta ad un appello, ad una chiamata che ci struttura come identità dentro una logica di relazione, in un cammino di ascolto e di dialogo.
La sfida del nuovo che avanza riscrive l’esperienza di tutti. In particolare, per quanto ci riguarda, riscrive la forma della Chiesa che abbiamo conosciuto e che ancora abitiamo: le istituzioni e le rappresentazioni dei legami secondo i moduli della traditio e della redditio; l’elaborazione di processi educativi secondo modelli iniziatici ed ascetici (generati dalla figura del desiderio identificato come il motore archetipo della nostra libertà), tutti elementi prodotti dalla fede cristiana nel suo incontro e confronto secolare con le culture, immaginati come strumenti per la formazione e la crescita dei giovani, sono strumenti in grado di comunicare ancora oggi l’intenzione che li ha generati, sono elementi capaci di conoscere una nuova “giovinezza” nel mondo giovanile attuale, in cosi forte trasformazione? La risposta ad una simile domanda chiede alle nostre Chiese grande sincerità, oltre che una buona dose di lucidità: le istituzioni tradizionali espressamente dedicate al mondo giovanile sembrano parlare più i dialetti del passato che i nuovi linguaggi globalizzanti del futuro.
Un Sinodo per vedere le fratture
Come Chiesa abbiamo bisogno di un sinodo inteso come evento che accenda il più possibile processi di scrittura, ovvero di ascolto, riconoscimento reciproco, e contaminazione delle esperienze, condivisione e consegna della fede che ci ha generato e che viviamo.
Il processo di trasmissione della fede si è inceppato, mostra tutte le sue crepe e le sue fratture. E ci fa apparire i giovani in negativo, definendoli a partire da quello che spengono di questo processo, più che da quello che riescono a vivere. Vediamo in questi giovani dei cattolici anonimi, incapaci di un incontro e una relazione con un Dio personale (e tanto meno perciò con il Dio rivelatoci da Gesù Cristo); vediamo questi giovani come degli eterni nomadi, pronti a consumare esperienze ma poco inclini a mettersi in gioco in cammini di crescita e maturazione, poco grati e poco capaci di riconoscere il tanto che hanno ricevuto da una tradizione cristiana così presente nella vita di tutti da essersi fatta socializzazione di popolo e del quotidiano.
Come Chiesa ci sentiamo spesso feriti dalla semplicità con la quale i giovani raccontano i tratti della loro frattura con la fede loro trasmessa. Cominciando dalla pratica, che rimette in discussione tutta la vita sacramentale alla quale erano stati accostati nella loro infanzia; passando per i contenuti della fede, visti come astratti, molto poco affascinanti e al passo con i tempi, se confrontati con alcuni influssi delle filosofie orientali, creando in questo modo contaminazioni di tradizione e forme di sincretismo inedite.
Anche circa i valori e le regole da rispettare, la fede dei giovani si struttura in modo critico e molto libero. Non c’è argomento di attualità (primi fra tutti la posizione dentro la Chiesa della condizione omosessuale e dei divorziati-risposati) che non venga toccato e assunto come luogo in cui esercitare la propria libera e autonoma capacità di pensiero. Ma è sul modo di percepire la Chiesa che la frattura dei giovani appare nella sua nettezza. Per loro la Chiesa è una istituzione, percepita come fredda e lontana, che poco o nulla ha a che fare con la comunità dei discepoli che vissero l’esperienza di fede con Gesù Cristo e l’hanno trasmessa a noi. Per i giovani l’incontro con Gesù Cristo è diretto e senza mediazioni: non necessitano di una comunità che faccia da grembo vivente dentro la storia della fede, trasmettendola alle nuove generazioni.
Un Sinodo che renda le fratture creatrici
Abbiamo bisogno di un evento sinodale per evitare che la rottura (con il clima acido che genera) sia l’ultima parola. E non soltanto in senso metaforico: una istituzione che fatica a dialogare con le giovani generazioni fatica di conseguenza a costruire il proprio futuro.
Cattolici anonimi e nomadi, pronti a consumare grandi rotture, i giovani non hanno perso la capacità di lasciarsi attrarre e trasfigurare dalla fede cristiana. Le fratture create non sono l’ultima parola; lasciano spazi alla possibilità di declinare la fede e l’esperienza cristiana in nuove strade, anche dentro la cultura e l’antropologia che le rivoluzioni tecnoscientifiche e il mondo digitale stanno sempre più trasformando.
Che i giovani stiano costruendo nuove sintesi e forme innovative per vivere la fede cristiana, d’altronde, è un dato che l’esperienza quotidiana ci consegna con naturalezza. Generazione GMG, Papaboys, giovani di Taizé, dei dieci comandamenti, sentinelle del mattino … sono tanti i modi che i giovani hanno per mostrare come i nuovi linguaggi e le culture del presente stanno rimpiazzando toni e declinazioni profetiche degli anni ’70 del XX secolo. L’esperienza quotidiana ci mostra che i giovani sono sempre alla ricerca di un senso di una storia con la “S” maiuscola, dentro la quale riconoscersi. La cultura digitale fa dell’ambiguità e del provvisorio le regole fondamentali del suo istituirsi, e molte inchieste testimoniano ampiamente questo dato. Quando l’identità individuale è una semplice possibilità e la logica delle azioni un’opzione, la coerenza dei gesti, la possibilità di un vissuto unificato e quindi unico, fatto di una storia (passato, presente, futuro), diviene un peso difficilmente giustificabile, ma allo stesso tempo una richiesta interiore che urge e non può essere spenta.
Assistiamo all’imporsi di una nuova declinazione maggiormente sacrale della fede cristiana, colorata con un pizzico di sapore tratto dai concetti di realizzazione di sé, autoposizione e riconoscimento della mediazione istituzionale ed organizzativa respirati proprio nel mondo digitale abitato. Di questo mondo digitale questo modo di vivere la fede assume anche alcuni tratti più ambigui che richiedono un serio sforzo di rielaborazione alla luce della esperienza cristiana: il concetto di benessere individuale, quello di una gestione della vita di fede nei termini di una professione (che consente spazi di privato sottratti alla verifica e al controllo di un codice morale), la possibilità teorica (e non solo) di una revoca degli impegni assunti, che toglie valore e pregnanza a qualsiasi logica oggettiva (o del precetto).
Lo scopo di questo editoriale non era tanto quello di ragionare sulla possibilità ipotetica (astratta) di elaborare un giudizio esterno su questo stato di cose – che è già realtà! -, quanto piuttosto quello di riflettere sulle conseguenze che la trasformazione in atto chiede alla Chiesa, perché possa continuare il suo compito di traditio fidei. La riflessione percorsa ci consente di affermare che questa trasformazione non è senza conseguenze per il concetto stesso di fede cristiana. La sfida quindi non è come confrontarsi con questa trasformazione, ma come abitarla: attraverso quali processi di reinterpretazione, di lettura e di distanziamento, in una parola attraverso quali percorsi di discernimento si riesce a individuare i luoghi e le operazioni che portano oggi un giovane a costruire la propria identità cristiana.
Il futuro della fede dipende proprio da questa attitudine: dalla capacità che la Chiesa ha di sorvegliare e riorientare i processi di decostruzione e di ricostruzione che la cultura in cui abitiamo impone alla nostra fede, alla sua figura istituita. Si tratta in altre parole di svolgere anche nel presente quel compito che i padri conciliari cominciarono ad avviare durante il concilio Vaticano II: rileggere la tradizione ecclesiale alla luce del contesto odierno, per permettere ai tratti salienti e profondi dell’esperienza cristiana di brillare di nuova luce, proprio perché rideclinati e ridetti con linguaggi nuovi dentro la nuova cultura che il cristianesimo voleva abitare da protagonista.
Sentire, raccontare, generare
Chiudo questa riflessione rifacendomi in modo esplicito e voluto alle intuizioni illuminanti di un esegeta che ci ha permesso di capire meglio 570 come si sviluppa il processo cristiano della scrittura e della trasmissione della Parola di Dio. Forte della sua pratica delle Scritture, P. Beauchamp ci ha insegnato che l’esperienza cristiana è frutto di un processo intricato di continua e ripetuta consegna, ricezione e annuncio della nostra memoria fondatrice. Il frutto di questo processo non è un prodotto ulteriore, un nuovo libro, ma un legame rinnovato e rafforzato: un corpo nuovo, che con la sua presenza e la sua vitalità testimonia l’avvenuto processo di scrittura della parola dentro la storia. La lettre, le récit, le corps. Sentire, raccontare, generare.
La Chiesa – e non solo quella italiana – ha bisogno che il prossimo Sinodo dei giovani sia una esperienza simile. Non un Sinodo sui giovani, ma coi giovani: per coinvolgerli in questo processo di scrittura, per riaccendere questo dinamismo di consegna, ricezione e annuncio. Per generare quel corpo rinnovato e sempre giovane che è la Chiesa, popolo di Dio dentro la storia, corpo di Cristo vivificato dall’azione rigenerante dello Spirito.
(«Teologia» 42 (2017) 565-571)