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Ceuta: mondi che si incontrano

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

L’azione educativa e pastorale della Chiesa

Dalla rubrica: I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale /3

di Luigi Amendolagine

(NPG 2024-07-52)

Pietre miliari per una riflessione profonda sull’essere cristiani, non solo per i giovani, sono: la fede, la vocazione, il discernimento e l’accompagnamento. Partendo dalle considerazioni che i giovani hanno condiviso, ci poniamo un interrogativo importante: quale azione educativa e pastorale la Chiesa deve mettere in campo, rimanendo allo stesso tempo coerente ai suoi insegnamenti e al passo della realtà in continua evoluzione?
I giovani desiderano un rinnovamento della Chiesa che possa renderla sempre più prossima, accogliente, umile, in uscita; una casa aperta e pronta ad accogliere tutti, indistintamente, capace e vogliosa di dialogare con tutti, che sia inclusiva e mai giudicante con la sua morale.
La prossimità è sicuramente l’aspetto maggiormente ambito dai giovani nell’azione educativa e pastorale della Chiesa che cammini con loro, anche a costo di uscire dai soliti registri. C’è la domanda di una Chiesa vicina e presente, che sappia rispettare la singolarità delle storie e delle ferite delle persone: “Ma io non esisto” – dice il ragazzo omosessuale quando parla della catechesi – . Come Cristo si è incarnato nel mondo, anche la Chiesa deve saper abitare i tempi ed esserci per i giovani, non solo per alcuni, ma per tutti.
I giovani auspicano che, oltre a farsi prossima, la Chiesa offra loro “spazio” inteso sia come luogo fisico sia come metafora del permettere ai giovani di essere più protagonisti all’interno della Chiesa. I giovani chiedono spazi concreti dove potersi incontrare, dove poter dialogare con gli adulti così da potersi sentire ascoltati, ma anche luoghi dove poter incontrare il “diverso”, inteso come chi la pensa diversamente dalla Chiesa o addirittura come chi non si sente proprio parte di essa. I giovani chiedono, inoltre, di essere considerati in quegli spazi decisionali dai quali troppo spesso, secondo il loro parere, sono esclusi o non sufficientemente valorizzati. A tal proposito propongono di rivedere la gestione della leadership all’interno della Chiesa, per esempio, circa il ruolo della donna.

Chiedono apertura, partecipazione, creatività, aggregazione, bellezza, valorizzazione delle idee giovanili mettendo da parte i tabù. Forte è nei giovani l’attesa di liturgie belle, creative, essenziali, vive, motivanti, che sappiano trasmettere gioia e calore, che raccontino il “mistero”, che sappiano emozionare. Dicono con franchezza che sono stanchi delle lunghe omelie, specie se lontane dai problemi della realtà e della quotidianità.
Ruolo importante e decisivo in un processo di rinnovamento dell’azione educativa e pastorale della Chiesa devono averlo sicuramente i laici. I giovani, infatti, rifiutano il clericalismo, con parrocchie che dipendono esclusivamente dalle peculiarità del parroco. Al contrario vorrebbero sacerdoti meno dediti alle questioni amministrative burocratiche e capaci di dare più tempo e spazio a chi ne ha bisogno di ascolto.

Lo stile della Chiesa cui i giovani aspirano è in sintesi quello di una Chiesa che racconti la bellezza della fede piuttosto che concentrarsi sui doveri morali. Una Chiesa materna e allo stesso tempo fraterna, perché sempre disponibile ad ascoltare. Una Chiesa “formato famiglia” che sappia chiedere e offrire perdono, che sappia sorridere sempre. Una Chiesa al passo coi tempi, tecnologica e presente sui social. Una Chiesa sincera, autentica, libera dai soliti schemi che la ingabbiano e la rendono vecchia e triste. Una Chiesa che proclami chiaramente Gesù Cristo, con un linguaggio fresco e attuale, comprensibile e attraente per i giovani. «Una Chiesa che raggiunga i giovani nella loro realtà evolvendosi e parlando il loro linguaggio; una Chiesa che risponda ai loro interrogativi e alle sfide del mondo (etica, ecologia, orientamento…). Una Chiesa che osa purificarsi dai propri arcaismi, che accetta il cambiamento, la novità, la diversità. Che sia aperta alle nuove iniziative, alla creatività, che sia accattivante. Che osi riconoscere i suoi limiti».
In questa richiesta di cambiamento avanzata dai giovani, questi sono consapevoli che loro stessi sono la Chiesa che si rinnova, i protagonisti di questa trasformazione. Sanno di poter dare un contributo innovativo e alternativo. Vorrebbero essere più corresponsabili, più protagonisti nelle liturgie e nella catechesi, impegnarsi nella missione evangelizzatrice della Chiesa attraverso l’arte, specialmente la musica. Si sentono portati soprattutto per l’educazione e la formazione dei loro coetanei, degli adolescenti, di chi si prepara a celebrare momenti importanti del proprio cammino di fede, come il sacramento della cresima.

Inoltre, non hanno paura nel denunciare che spesso, proprio nella Chiesa, i giovani non vengono incoraggiati ad assumersi delle responsabilità e che le loro potenzialità vengono trascurate e sottovalutate.
Essendo sensibili alle questioni di giustizia sociale, volentieri metterebbero a disposizione la loro freschezza e le loro energie per la pace, la salvaguardia del creato, il servizio ai più poveri e ai disabili, l’ascolto delle persone anziane e sole.
Emerge forte la volontà dei giovani di rendersi protagonisti anche nella società civile attraverso la partecipazione alla vita politica.
I giovani desiderano portare il lievito del Vangelo in tutti gli ambienti, anche in quelli che notoriamente sono facilmente invischiati in dinamiche di potere e di corruzione, per sensibilizzare al bene comune e agli altri principi della dottrina sociale della Chiesa.
Sport, oratorio, associazionismo, animazione, università, servizio civile, arte, mondo del lavoro, educazione sono gli ambiti in cui i giovani sentono di poter dare maggiormente il proprio contributo, facendo fruttare i loro talenti.

Non da ultima vi è la famiglia, primo luogo di missione e di evangelizzazione da non trascurare.
In tutto questo, i giovani non desiderano semplicemente “spazio”, come se volessero a tutti i costi soppiantare chi li precede, ma chiedono di essere accompagnati e non essere abbandonati attraverso un paradigma di reciprocità in cui “Non si tratta semplicemente di coinvolgere i giovani per aiutare la comunità ecclesiale, ma di chiedere cosa la comunità ecclesiale può fare per aiutarli”.Per intessere questo dialogo che mette in relazione Chiesa e giovani, la prima deve configurarsi come una “Chiesa in uscita” capace di evangelizzare non dal pulpito con monologhi, ma nei luoghi quotidiani, come la scuola, per cogliere convergenze di obiettivi e offrire opportunità formative integrate attraverso la via della bellezza. Inoltre non deve dimenticare chi è fuori dai percorsi formativi formali che merita di essere raggiunto attraverso il mondo digitale (internet, social network…) e il mondo del lavoro. La strada, i luoghi di divertimento, le attività sportive e ludico-aggregative, i luoghi di cultura, l’arte, la musica, i bar, i locali, le discoteche: sono tutti ambiti dove poter intessere relazioni semplici e significative.
Non vengono trascurati nemmeno i luoghi ecclesiali “ordinari” di incontro dei giovani: la parrocchia, l’oratorio, l’associazionismo cattolico, i movimenti spirituali. Qui si ribadisce il desiderio di permettere un maggior protagonismo dei giovani, responsabilizzandoli in servizi pastorali e dando loro spazi di dialogo
e confronto.

Nella sua azione educativa e pastorale tra gli strumenti che la Chiesa può e dovrebbe utilizzare in maniera efficace vi è il linguaggio semplice, concreto, diretto, coerente, chiaro, senza fronzoli, mai ambiguo, gioioso, per immagini, pratico, creativo, narrativo. Su tutto i giovani preferiscono la credibilità, cioè il linguaggio “del buon esempio”, della santità. Vogliono ascoltare la testimonianza coerente di chi è impegnato nell’annunciare il Vangelo con una vita gioiosa e fraterna. Sono consapevoli che loro stessi possono essere i primi evangelizzatori dei loro coetanei, perché capaci di comprenderli meglio e di raggiungerli con facilità. I gesti concreti, come le opere di misericordia, sono considerati un linguaggio diretto e fortemente comunicativo, mai scontato e sempre attuale e attraente. L’arte, nelle sue multiformi rappresentazioni, è considerata uno strumento comunicativo ricco, prezioso, accessibile e diretto. Per questo i giovani lo prediligono e chiedono alla Chiesa che siano promosse la letteratura, la musica, le belle arti.

I giovani sono fortemente convinti che la Chiesa debba essere più visibile attraverso i mezzi della comunicazione sociale: in particolar modo i social, ma anche la televisione e la radio.
Nonostante questa particolare predilezione continuano a considerare l’incontro personale come insostituibile.
Infine anche la liturgia, con il suo ricco simbolismo, è riconosciuta come una fonte di ricchezza tante volte inespressa perché sconosciuta, capace di comunicare con immediatezza il mistero della fede che le parole non riescono ad esprimere.

Concludendo con le parole di Papa Francesco nella Christus vivit, “la pastorale giovanile non può che essere sinodale”. Essa si concretizza in un andare insieme, consentendo ai giovani di essere partecipanti attivi del cammino; nell’ascoltare e discernere attentamente per dare risposte adeguate; nel “creare casa”, costruendo legami significativi; nel mettere in relazione le diverse generazioni. La pastorale, così delineata, risponde esattamente ai desideri dei giovani della Riunione presinodale.
Sulla base delle provocazioni offerte dai giovani, nel prossimo articolo proveremo ad immaginare la necessaria conversione ecclesiale che possa consentire alla Chiesa di essere autenticamente a servizio con e per i giovani.

Introduzione al Dossier “Mettiamo ordine nei nostri affetti”

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Quattro sguardi per accompagnare i giovani oggi

Rossano Sala

Di fronte alla riduzione del corpo a oggetto di esibizione e alla deriva ludica della sessualità, all’enorme confusione affettiva e alla mercificazione dei legami in atto – il tutto accentuato dalla digitalizzazione delle relazioni, che smaterializza e virtualizza ogni cosa – il Dossier che proponiamo cerca di mettere a fuoco l’originario senso degli affetti umani.
Difficile quindi non comprendere quanto sia strategico quello che ci viene offerto. Sappiamo che nella società della distrazione di massa diveniamo sempre più superficiali e quindi meno sensibili nella percezione dei sentimenti altrui[1]. Quelli che erano i cambiamenti moderni nella vita affettiva e sessuale[2] si sono ancora più rapidamente trasformati nel mondo contemporaneo e soprattutto in quello giovanile[3]. Tendenzialmente tutti siamo tentati da un uso commerciale, vetrinistico e intensivo del nostro corpo[4] e, ancora peggio, di aderire inconsciamente alla cultura dello scarto che si allarga a macchia d’olio[5]. L’esito non può che essere la fine della nostra capacità di desiderare e di amare come si deve[6].
La vita di tutti i giorni, purtroppo anche quella ecclesiale, è ricca di controtestimonianze dal punto di vista affettivo. Tanta immaturità relazionale abbonda e si aggira tra noi. Diventa decisivo domandarsi: come possiamo continuare a sentire, amare e pensare nell’era digitale? La rete, offrendoci molte possibilità, contemporaneamente rischia di toglierci, da una parte, quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigili e reattivi; dall’altra quella sensibilità affettiva e spirituale che rende l’uomo unico e inimitabile. Sono due grandi pericoli di cui essere profondamente consapevoli e a cui rispondere con intelligenza critica e responsabilità etica.
Per queste ragioni entriamo nel mondo degli affetti con competenza e maturità, attraverso quattro sguardi che ci aiuteranno ad orientare la nostra formazione personale e l’azione educativo-pastorale: il primo contestuale, il secondo biblico, il terzo antropologico e il quarto educativo-pastorale.
Fabio Pasqualetti, esperto del mondo della comunicazione, ci guiderà dentro il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, con uno sguardo specifico al mondo dei social media che tanto plasmano la vita affettiva dei giovani oggi.
Gianluca Zurra, teologo ed ecclesiologo, ci farà gustare attraverso alcuni assaggi il modo di sentire del Signore. Il suo sguardo sulla rivelazione ci aiuterà a cogliere l’ordine degli affetti di Gesù, uomo dal sentire divino che partecipa all’amorevolezza infinita del Padre suo.
Paolo Zini, filosofo, mostrerà come la trama e l’ordito dell’umano è affettivo e affettuoso. La centralità del cuore è un dato fondamentale per cogliere il senso dell’antropologia cristiana, che non è mai divisiva ma sempre unificata intorno all’amore e al desiderio di amare e di essere amati.
Gustavo Cavagnari, teologo pastoralista, ci aiuterà a educare i nostri affetti per poter accompagnare i giovani all’arte del vero amore. Non c’è infatti autentica educazione affettiva che non nasca dalla vita buona di coloro che sono chiamati ad educare.
Un’ultima nota “tecnica”, di certo non inutile. I contributi che seguono sono in piena continuità con un importante Dossier pubblicato nel numero di marzo 2022 (SIAMO CORPO. Dall’emergenza al discernimento), dove abbiamo cercato di indagare l’originario del corpo come dono e compito. Lì si era partiti dalla corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo e, passando dal legame tra mente e corpo, si è cercato di comprendere il significato del corpo. Arrivando infine al legame tra corpo e liturgia e al corpo come vocazione.

NOTE

[1] Cfr. L. Iotti, 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione, Il saggiatore, Milano 2020.
[2] Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 2008.
[3] Cfr. C.M. Scarcelli, Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet, Franco Angeli, Milano 2015.
[4] V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, facebook, apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano – Udine 2015; Id., Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale dei corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[5] S. Capecchi – E. Ruspini (ed.), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Franco Angeli, Milano 2009.
[6] M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, Mondadori, Milano 2012.

 

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MGS, Consulta nazionale di ottobre

Si è concluso ieri il primo incontro di Consulta nazionale per l’anno pastorale 2024-25!
Nel weekend del 26-27 ottobre, infatti, delegati di PG, consigliere di PG e i giovani della Consulta si sono ritrovati a Roma. Questa volta in una nuova location: l’Istituto Salesiano Gerini. Qui, nelle periferie di Roma, l’opera si occupa della formazione professionale e ospita alcuni giovani che accolgono la proposta di vivere dei periodi di convivenza e comunità.

Sono stati davvero molti gli argomenti affrontati in questi giorni come consulta, introdotti da un approfondito momento di conoscenza, che ha permesso anche ai molti nuovi partecipanti di entrare nel clima di condivisione che questi momenti sempre portano con sé.
Quest’anno, poi, ogni incontro di consulta dedicherà una parte del tempo affinché due territori per volta possano raccontare una buona pratica attuata nel proprio MGS, come previsto anche nel regolamento MGS Italia. Questo ci è utile per conoscerci meglio come territori durante il corso dell’anno, e potrebbe anche offrire spunti utili al cammino di ciascun territorio. Questa volta il MGS Lombardia-Emilia ci ha raccontato del cammino della Scuola Formazione Animatori e della revisione che stanno attuando come segreteria territoriale. Mentre il territorio del Triveneto ci ha presentato la Consulta Cammini, le modalità di lavoro di questa e i percorsi che progettano e propongono durante l’anno.

È seguita poi la presentazione del regolamento, che per l’occasione è stato stampato e consegnato come opuscolo a tutti i membri della consulta. Esso è un utile strumento di lavoro che ci ricorda innanzitutto gli obiettivi e il cammino che il MGS Italia è chiamato a perseguire.

Siamo quindi passati, con un lavoro di condivisione a gruppi, a ragionare sui temi concreti della proposta pastorale 25-26, che nel percorso triennale già avviato si concentrerà sul tema della fede.

Abbiamo infine concluso i lavori del sabato con i Vespri, prima di un’ottima cena preparata con cura dai ragazzi che abitano nell’opera!
La buonanotte ci ha portati ancora più nello spirito del Gerini: don Flaviano (direttore dell’opera), insieme a Roberta e Daniele ci hanno raccontato delle loro esperienze di convivenza qui, di come queste hanno influenzato le loro vite, della bellezza e della fatica di vivere con così tanti “fratelli”.

La domenica mattina ci ha introdotti a temi dal respiro ampio. Infatti, partendo dal documento del Sinodo dei Giovani tenutosi ad agosto, abbiamo ragionato sul cammino del MGS Italia, sulle priorità che vogliamo darci per questo e i prossimi anni e su come attuarle concretamente.
Infine don Andrea e suor Valeria ci hanno presentato parte del lavoro della cabina di regia che sta seguendo l’organizzazione del Giubileo del Giovani, della quale fanno parte anche Diletta, don Elio e suor Mara.

Abbiamo infine concluso il weekend ringraziando e affidando il lavoro fatto nella Santa Messa, che abbiamo vissuto con i ragazzi del DBweekend.

Sito MGS

Italia Meridionale – Riaccendere i nostri cuori

Dal sito dell’Ispettoria Italia Meridionale.

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Anche quest’anno, quasi 100 giovani del nostro territorio MGS hanno sentito il desiderio di mettersi in discussione accettando l’invito non solo a partecipare ai weekend Rise Up, ma anche a dedicare un fine settimana alla propria crescita personale. Molti erano spinti dal ricordo e dalla bellezza della prima edizione, altri invece sono stati mossi dalla curiosità del “sentito dire” o sono stati animati dai temi proposti: la violenza di genere e le relazioni affettive.

Riconoscere la realtà attorno a questi argomenti è stato il primo passo da fare per entrare nel primo appuntamento. Ecco perché, dopo essere stati accolti nell’Istituto salesiano “Sacro Cuore” di Napoli-Vomero, abbiamo vissuto un momento di formazione che ci ha aperto lo sguardo su quanti e quali tipi di violenze vengono commessi e su quali provvedimenti la società stia avviando per contrastare un problema con profonde radici culturali. La teoria di tale momento si è subito concretizzata grazie al racconto delle operatrici della Cooperativa “EVA”, nata con lo scopo di prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne. La realtà della Cooperativa permette di accogliere e sostenere donne vittime delle varie forme di violenza, ma soprattutto di reinserirle nella società e nel mondo del lavoro creando esperienze uniche, come ad esempio la creazione di una collezione d’abiti da esporre alla Reggia di Caserta.

Abbiamo poi ricevuto in dono, dalla sua voce, il vissuto di Giovanna. Per colpa di un amore malato, Giovanna ha rischiato di perdere la sua vita, oltre al non poter rivedere le sue figlie per anni. Sentirsi toccata da uno sguardo di amore è stata la scintilla che le ha riacceso il cuore, che ha permesso ad una donna di tornare alla sua vita e di testimoniare quanto ha ricevuto. Ha mostrato una capacità innata di amare, ha rivelato un amore infinito di madre verso le sue figlie. Un amore rinato dalla speranza che riesce a colmare e risanare le mancanze derivate dalla sua storia.

Se la storia di Giovanna è stata un esempio di riscatto da un amore tossico, il giorno dopo abbiamo visto i frutti che la cura di una relazione sana porta, ascoltando la storia di una giovane famiglia potentina. Gabriele e Arianna, accompagnati dal piccolo Enea, hanno ripercorso il loro amore e lo hanno consegnato a noi, rivelandoci la complessità che una relazione porta, i compromessi da raggiungere, tutto in nome di un Bene più grande.

Sabato sera, in conclusione della giornata, abbiamo fatto sedimentare ciò che le testimonianze hanno smosso in noi, ponendoci alla presenza del Signore nell’Adorazione: sintesi di quanto ascoltato, slancio per la riflessione personale. Ascoltare con il cuore e con consapevolezza un Vangelo, quello dell’Emorroissa (Luca 8,43-48; Marco 5,25-34), sentito e risentito ci ha fatto scoprire come il Signore parli direttamente alle nostre ferite, le indichi, proponendosi come vero medico donatore di salvezza. Infatti, ciascuno di noi potrebbe percepire lontane le storie di donne e violenze, di amori malati e corrotti che svuotano di vita un corpo; eppure, anche i nostri sono cuori che, in maniera diversa, gocciolano o grondano sangue da ferite mal curate o per niente considerate. Curare la propria affettività e le proprie relazioni non è un gioco semplice, non è da sottovalutare. Per questo siamo stati chiamati a riflettere sulla nostra interiorità, sulle nostre spaccature che sanguinano, ma che sono il luogo prediletto in cui il Signore vuole che avvenga un incontro pieno e vero per aiutarci ad individuare in che modo siamo chiamati ad amare.

Il primo dei quattro incontri Rise Up si è concluso con la consegna di un simbolo concreto che sa di speranza, di chiamata alla vita: una scatoletta di fiammiferi, inizialmente vuota! Questo perché potrebbe sembrare che alcuni, forse tanti, cuori siano arrivati a svuotarsi del necessario per ardere. Allora, ecco perché abbiamo ricevuto in dono anche due fiammiferi, non da conservare, a lasciare che si inumidiscano e perdano la loro capacità di accendersi, ma pronti a fare luce sul nostro spirito. La scatoletta dei nostri fiammiferi è pronta a riempirsi, e noi siamo già in attesa di rivederci al prossimo appuntamento di novembre, a Foggia, per metterci in gioco e “fare luce” su nuove tematiche insieme.

Antonio Gargano e Antonio “Felix” Scherma 

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I doni di una pastorale giovanile in tempo di guerra

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Maksym Ryabukha, SDB  – Esarca Arcivescovile di Donetsk (Ucraina).

Nei giorni scorsi ho avuto la inattesa ma piacevole sorpresa dell’invito da parte della direzione di NPG a un contributo per una nuova rubrica: PG dalle periferie. Hanno pensato che l’esperienza che sto e stiamo vivendo (e la comunità ecclesiale, e i giovani con me) possa risultare significativa e forse interrogante per giovani ed educatori che vivono in parti del mondo “più fortunate”. Capisco anche che essi considerino il territorio della mia chiesa “periferia”, sia perché ai margini orientali dell’Europa (dove il Centro è ovviamente ben contraddistinto, anche con pastorali elaborate) che in zona invasa o “occupata” o a rischio di invasione e totale occupazione: quale zona dunque più periferica di questa?
Devo comunque dire, tra parentesi per non disturbare troppo, che noi ci sentiamo al “centro”. Perché dove siamo è sempre centro, dove ci stanno i giovani e adulti che si occupano di loro è sempre centro, dove abita Dio (anche se si dice che preferisce le periferie) è sempre centro. Questo che anticipo è quanto ci dà forza e speranza. Allora ecco una voce da una periferia-centro, a un “centro” che si apre alla periferia.
Accetto anche molto volentieri questo invito perché viene dal mondo istituzionale e “carismatico” di cui faccio parte, quello Salesiano, e dalla rivista “Note di pastorale giovanile” che conosco e stimo, dai tempi della mia formazione in Italia, e che ha accompagnato molti dei miei passi pastorali. Restituisco dunque qualcosa di quanto ho ricevuto.
Vorrei articolare la mia risposta alla domanda “Come si fa pastorale giovanile nella periferia e cosa può dire alla PG italiana?” come una “restituzione” di doni. Finora abbiamo ricevuto tanto dalle comunità ecclesiali italiane (e non solo) e dai giovani: non solo la formazione carismatica salesiana che ci ha aperto un vasto campo di servizio in Ucraina, ma negli ultimi anni di guerra in termini di aiuti materiali ed economici (medicine, cibi, tende, suppellettili, l’accoglienza di tanti profughi…), e spirituali con la vicinanza e la preghiera. Ecco, vorrei in qualche modo “restituire” col dono della nostra esperienza, che per noi sta diventando il tesoro che ci resta in un tempo di macerie e di rovina, che è come quel tesoro evangelico che non viene consumato da ruggine e da tarli.
Quali sono allora i doni di esperienza che possiamo offrire ai nostri amici italiani (e forse a vari amici di altri paesi), i nostri tesori?

1. Il dono di un Dio che c’è

Dio c’è, c’è sempre, in qualunque tempo e circostanza. Lui diventa la nostra forza di resistenza anche nei momenti più drammatici se riusciamo ad accorgerci della sua presenza. E qui voglio prendere in prestito le parole (bellissime parole) di un’amica dei giovani, una giovane lei stessa, che ha vissuto in maniera ancora più drammatica una situazione simile alla nostra: Etty Hillesum.
Così lei scrive nel suo Diario il 12 luglio 1942, in una “preghiera del mattino”, ancora nel cuore della guerra mondiale, e nell’oscurità del campo di concentramento di Westerbork, prima dell’ultima tappa della morte ad Auschwitz:

“Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi.”

È questa l’esperienza che purtroppo stiamo vivendo, di un Dio sepolto tra le macerie e le devastazioni assieme a coloro che sono sepolti e devastati. È questa dunque l’esperienza di tanta gente, tanti cristiani, tanti ragazzi e giovani. Ma Dio resiste nei cuori, non permettiamo che venga sepolto, perché altrimenti tutto sarebbe veramente finito.
Dio c’è in tutto questo. Non perché l’abbia voluto ma perché ci dà la forza per continuare a tenerlo vivo, la forza per resistere, sperare e nel frattempo vivere la nostra vita cristiana.
C’è appunto nonostante tutto. C’è nei segni delle preghiere che sono diventate molto più significative per noi, c’è nella sua Parola che viene annunciata (magari con i suoni delle sirene di allarme o il fragore dei missili che cadono o delle difese aeree che tentano di impedirlo) con maggior senso, nel gesto di carità di un aiuto a chi ha bisogno, di una parola di conforto, una carezza a un bambino o un anziano… e in tanti altri modi. Non abbiamo bisogno di tante parole di apologetica. Dio si “impone” alla fede e alla vita perché altrimenti saremmo disperati.
Nelle parole di Bonhoeffer, Dio resta quella fontana zampillante del villaggio che permette di dissetarsi e di sentirsi comunità; e lo è sia nella vita gioiosa che in quella pericolante. Me ne accorgo ogni qual volta celebro la Messa o mi intrattengo tra la gente nelle parrocchie e negli oratori. “Al bombardamento tutto esplodeva intorno a me. Ed io – solo una scheggia sotto il naso. Dio c’è”. Quante storie di questo genere assicurano che non siamo lasciati da soli. Egli c’è.
Ecco, questo è il primo “dono” che mi sento di fare, dal pozzo della nostra fontana di villaggio. Dio c’è; in modo misterioso ma reale e sempre interrogante e consolante è presente. Nessuna situazione drammatica potrà convincerci che ci abbia abbandonato o abbia smesso di amarci.

2. Il dono di una quotidianità infranta e di un popolo in sofferenza

La nostra vita quotidiana, dall’oggi al domani, si è infranta al suono delle cannonate e i sibili dei missili. Intendo la quotidianità nella sua normalità di alzarsi col cielo rosso dell’alba o grigio della pioggia, il caldo della colazione profumata, il bacio prima di uscire per il lavoro o la scuola, il rientro serale, il pasto in comune, la notte sicura nel proprio letto e nella propria cameretta… e sogni come tutti i sogni di persone normali.
Da quell’oggi tutti i nostri domani sono cambiati, e l’oggi è diventato un incubo, una tensione costante, una totale insicurezza. Sono rimasti i pezzi, i frammenti della nostra vita usuale, come se si fosse disfatto un puzzle completato. Ma ci siamo resi conto che la guerra non può mettere “in pausa” la vita. Adesso ci tocca ricostruire il quotidiano, ritrovare un filo di senso. Il quotidiano è l’unico luogo dove può avvenire la non perdita del senso e la ricostruzione della speranza, la crescita nell’oggi, la promessa di un futuro. Non possiamo aspettare la fine, quando essa possa venire per la grazia di Dio (e l’impegno degli uomini). Nel quotidiano dobbiamo non sopravvivere ma vivere, e trovare ragioni e modi per dare senso e gusto alle cose. Il quotidiano è non far finta che non stia succedendo niente, ma vivere ogni momento con l’opportunità che ci offre: i rapporti familiari e di amicizia, gli incontri di comunità domenicali e in settimana, il gioco dei bambini, la scuola e lo studio, le azioni di carità. Certo, con gli occhi, le orecchie e le gambe ben pronte per affrontare il pericolo. In questo quotidiano di spazio (rare volte non di macerie) anche il tempo è prezioso, ogni momento è prezioso, ogni attimo è avvertito come dono di Dio, perché il prossimo attimo potrebbe non esserci.
Può essere questo un dono a voi, riscoprire e rivalutare il quotidiano nella sua bellezza e gratuità e meravigliosità? Come la natura a volte ci sa restituire (le piante, gli animali, l’acqua) con la sua resilienza?
Ma non intendo fare poesia a buon mercato. In questa faticosa quotidianità da ricostruire, da ritrovare, siamo un popolo che soffre. Possiamo offrire come dono anche questo? Si può offrire in dono la propria sofferenza? Penso di sì, come esperienza di condivisione umana e anche come esperienza di corpo mistico. La passione e morte di Cristo ha portato la conversione del cuore umano. Credo che il dolore disumano e ingiusto vissuto in questo tempo drammatico potrà convertire il cuore umano e ricostruirlo nella pace.
Penso che la ricostruzione dell’Ucraina partirà da questo impegno della pastorale giovanile: ridare luce alle coscienze, e forse ci aiuterà il vangelo della Beatitudini, quelle che invocano la pace e promettono il dono di Dio a chi ha sofferto per le ingiustizie.
Ho parlato della quotidianità come spazio e tempo (qui-ora) della concretezza della vita. Ma essa non è un contenitore vuoto. Questa quotidianità è abitata, da persone, da cose, da legami, anche da memorie. Essa presenta e pretende un nuovo modo di essere, dove la persona, il giovane riscoprono l’importanza dell’esserci, della relazione, dell’essenziale e del poco. Ho visto riscoprire questi valori (volevo dire la “spiritualità” di questi valori) che probabilmente altrove contano o valgono poco, ma qui sono la distanza tra vita e morte, tra pieno e vuoto, tra senso e insignificanza, tra luce e tenebre. Se dovessi lasciare solo un messaggio, lascerei questo, appunto perché è essenziale e vitale, ed è una cosa che nella sofferenza abbiamo riscoperto con maggior intensità, e la affidiamo anche come tesoro nostro a tutti gli amici.

Fés. Una buona novella

La nuova rubrica online su NPG, “Voci dalle periferie” racconta cosa significa fare pastorale giovanile in territori della periferia, dove i soggetti vivono altre esperienze: “Vogliamo non certo mettere a confronto i diversi modi di pensare e fare pastorale giovanile, ma almeno vedere come ci vedono gli altri; magari ci può aiutare a calibrare, a rovesciare gerarchie di attenzioni, e forse ad aprire gli occhi sul mondo. In questo ci aiuteranno alcuni amici che vivono “altrove”, in zone particolarmente difficili perché segnate da povertà o guerra. Insomma, per una pastorale giovanile più missionaria, essenziale, evangelica. Con riflessioni, lettere, storie, racconti di iniziative”. 

Fés. Una buona novella

Testimonianza di don Matteo Revelli, Parroco di Fès *

Le attività dell’anno pastorale sono iniziate, tanti studenti africani che l’anno scorso erano qui e formavano il nerbo della comunità, dedicandosi con tutto il cuore al servizio della nostra chiesa, sono partiti. Altri studenti sono arrivati – da circa 25 Paesi africani diversi – per iniziare i loro studi universitari a Fes. Così, ogni tre anni la nostra comunità cristiana cambia volto, persone, storie… Alcuni studenti scherzando dicono che il nostro lavoro pastorale assomiglia a una catena di montaggio: non bisogna perdere il ritmo, altrimenti tutto si inceppa… Mi trovo qui a Fes da 24 anni, appassionato del lavoro apostolico di qui, così le nostre attività mi paiono quasi ovvie e scontate…
Per « rinnovare il mio sguardo », ho pensato di affidarmi allo sguardo nuovo di italiani, che in questi giorni sono venuti in Marocco per servizio o turismo: uno sguardo attento a questa Chiesa, che vive semplice e discreta, ma si percepisce viva e dinamica…
Un gruppo di pellegrini di Montegrotto Terme, accompagnato da Don Roberto, mi scrive: « Il nostro viaggio è stato un vero e proprio pellegrinaggio. Davvero viaggiare apre occhi e cuore e mette in crisi pregiudizi così tanto radicati nella mente e nella società. Siamo stati affascinati da questa Chiesa del dialogo, della sua prossimità come il buon Samaritano, mettendo in pratica il Vangelo senza porre etichette. Ci siamo scoperti cristiani autosufficienti e autoreferenziali tanto da perdere il senso della Missione e del Regno di Dio, che non è fatto di numeri o di organizzazione. »
Anche un piccolo gruppo della Comunità « Papa Giovanni » è venuto a svolgere un’attività di animazione in un villaggio berbero di montagna. Li ho accolti per una notte. Mariaserena, la portavoce, mi scrive « Provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo, siamo partiti per una settimana di incontri, condivisione, fraternità nel cuore del Marocco.
In un piccolo villaggio tra le montagne dell’Atlante, tanti bambini e ragazzi aspettavano gioiosi la settimana della “colonie” per spezzare la routine del loro mondo. Dopo una settimana condivisa con le famiglie del villaggio berbero, sei parole ci risuonano: accoglienza, amicizia, gioia, semplicità, stupore e amore. Cioè è bello sperimentare il sentirsi accolti ancora prima di conoscersi, e la cura che queste persone hanno avuto per noi. Abbiamo sperimentato come l’amicizia sia un dono di Dio e come questa permetta di andare avanti. I bambini ci insegnavano a donare sorrisi e ad accogliere col cuore: questo genera gioia.
Gli uomini e le donne del villaggio vivono, poi, una vita molto semplice, fatta di cura della famiglia, della terra, degli animali, di preghiera e di vita comunitaria. I bambini vi crescono con una sensibilità al prossimo molto maggiore che in città. In fondo, non si può non rimanere sbalorditi dalle tante bellezze e novità che in ogni persona e in ogni cosa si possono trovare. Abbiamo sperimentato, insomma, il miracolo della fraternità: l’accogliere e il farsi accogliere.”
“La conoscenza di alcuni responsabili della catechesi e della Caritas della parrocchia di Fès – mi scrivono, invece, Luca e Claudio Margaria, due fratelli sacerdoti del Cuneese – hanno fatto apprezzare da un lato la capillarità della conoscenza delle persone e delle situazioni che vivono e, dall’altra, la mole di lavoro e di relazioni che, pur nel silenzio e nel nascondimento, vengono portate avanti alle volte con finanze inadeguate. Ci portiamo in cuore la testimonianza di una presenza cristiana che offre uno stimolo di profondità e di umiltà, nell’essere segni di Vangelo, soprattutto per chi è più fragile ».
Alla fine, tutti questi sguardi nuovi sulla nostra presenza cristiana, mi spingono a rinnovare il mio per portare avanti un’azione pastorale impegnata, efficace, ma leggera, senza il peso di grandi strutture. Una vera, buona Novella.

* Testimonianza raccolta da Renato Zilio, missionario in Marocco

NPG – Nuova rubrica: Il “vantaggio”

Pubblichiamo la presentazione della nuova rubrica NPG, Il “vantaggio”, a cura di Clara Pomoni (Condirettrice di “Ricerca. Nuova Serie di Azione Fucina”. Responsabile della Comunicazione FUCI) – Giancarlo De Nicolò (Redattore di “Note di pastorale giovanile”) – Emanuela Gitto (Vicepresidente Giovani di Azione Cattolica). 

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«Di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se ne è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni. Frequentare bene l’università vuol dire avere vent’anni di vantaggio. È la stessa ragione per cui saper leggere allunga la vita. Chi non legge ha solo la sua vita, che, vi assicuro, è pochissimo. Invece noi quando moriremo ci ricorderemo di aver attraversato il Rubicone con Cesare, di aver combattuto a Waterloo con Napoleone, di aver viaggiato con Gulliver e incontrato nani e giganti. Un piccolo compenso per la mancanza di immortalità» (Umberto Eco).

Tra i tantissimi corsi universitari, ce n’è qualcuno che oltre ad assegnare materiale da studiare dia anche spazio alla ragione per cui farlo? spazio di ricerca, costruzione e discussione dei motivi personali per cui dedicarsi a quella materia? che senso ha fare l’Università?
La stessa parola studium racchiude un significato ben più profondo dell’applicarsi in una disciplina – come se le conoscenze dovessero attaccarsi in testa come post-it. Esprime infatti un senso di cura, diligenza, impegno, uniti all’entusiasmo, alla passione e all’amore per il sapere, per ciò che si potrà così saper fare per e con gli altri.
Che tu sia studente, laureato, o curioso di fare un affondo nel mondo dell’Università, questi articoli saranno l’occasione per dare spazio e spunti a questa costruzione di senso, sia in modo diretto (scrivendo) che indiretto (leggendo le storie di altri). Chiunque vorrà potrà riflettere sull’esperienza vissuta o che stai vivendo, guardando alla disciplina che ha preso a cuore e chiedendosi: che cosa ho colto di questa disciplina? quali chiavi di lettura e strumenti per stare e agire nel mondo mi può dare? a che cosa potrebbe servire per il miglioramento della società?
Si troverà così a rileggere la propria storia personale in relazione all’impegno nello studio, con gli entusiasmi e le fatiche, gli incontri che hanno chiarito o hanno aiutato nel cammino, le scoperte entusiasmanti e il senso di un percorso in continua evoluzione. Si tratta di una grande ricchezza, spesso sommersa perché non illuminata da uno sforzo di consapevolezza, perché non trova posto tra le voci del libretto universitario o del curriculum vitae. Noi vogliamo darle attenzione perché crediamo che sia la struttura portante della formazione personale, senza la quale quella professionale si rivelerebbe un guscio vuoto. Lo studio ti ha fatto e ti fa crescere personalmente? come?
Ogni storia ha una trama, è tessuta di fili che con continuità attraversano i singoli episodi mostrandosi in modi differenti, evolvendo nelle forme, garantendo l’originalità, ovvero il collegamento con l’origine. L’esercizio di connettere le tappe della nostra storia presente e passata, riconoscendo ciò che più ci ha colpito – è stato significativo perché ha lasciato un segno – è un modo per imparare a scegliere nel futuro. È ascoltando ciò che risuona più vivamente in noi che distinguiamo i desideri profondi del nostro cuore e ci orientiamo a realizzare i sogni che vanno maturando in noi. Perché un ragazzo, una ragazza ha scelto di fare l’università, e questo percorso di studi? come si è evoluta la sua motivazione? quali progetti di vita li hanno spinti in questa direzione? quali elementi l’hanno confermata o disconfermata?
Guardando a distanza di tempo i moti del cuore che abbiamo sperimentato, scorgiamo oltre le emozioni che ci hanno attraversato e ci addentriamo nello spazio della volontà, dei valori, dei desideri. È la dimensione spirituale della persona, cioè della vita interiore, che accomuna credenti e non. Come la ricerca esistenziale ed intellettuale si intersecano? Chi vive o ha vissuto questo percorso di crescita in una dimensione di fede, poi, si pone ulteriori domande etiche, ontologiche, pragmatiche.
L’esperienza dello studio universitario, in qualunque ambito si collochi, è un’esperienza determinante per un giovane. Per la sua identità, per la sua maturazione, per la costruzione di una personale visione del mondo e del futuro, per la sua capacità di collocarsi relazionalmente, socialmente, culturalmente. Essa mette alla prova la capacità del giovane di attrezzarsi adeguatamente, di sperimentare atteggiamenti determinanti, come la programmazione realistica, la capacità di organizzarsi, di motivarsi, di vivere la fatica e l’impegno, l’incontro con i propri limiti, ma anche la gioia della scoperta, l’uso dell’immaginazione, l’accostamento al mistero. E la capacità di immaginare il futuro.
Tutto questo passa attraverso storie personali di vita, incontri-scontri con la realtà dello studio e dell’università, delle persone che ne fanno parte e delle esperienze in cui ci immergiamo, del contesto del piccolo e grande mondo in cui siamo immersi.
Alla luce di tutto ciò, questa rubrica nasce con l’intento di dare voce a questa ricchezza, celata nel percorso di formazione di ciascuno e troppo spesso nascosta all’ombra delle tappe ufficiali nell’università, che fatichiamo a riconoscere e valorizzare anche in prima persona.
Non si tratta infatti di fare uno studio sociologico o una raccolta di saggi dotti sul tema dei giovani, le loro prospettive, del futuro del lavoro ecc. Diversamente da quanto spesso accade, la rubrica è uno spazio pensato da giovani in cui i giovani stessi raccontano la propria prospettiva “dall’interno”. Un “interno” che significa sia senza uno sguardo adulto che si avvicina con una prospettiva diversa, sia con l’attenzione alla vita interiore di ciascuno, in prima persona.
Diamo spazio quindi ai racconti di come diversi giovani hanno vissuto questo periodo e di speranze/disillusioni, in cosa è mutato cammin facendo, e se e come è stata un’esperienza “di vita vera” (Etty Hillesum) [1].

NOTA

1 «Quando, in passato, sedevo alla mia scrivania, ero presa da irrequietezza al pensiero di perdermi qualcosa fuori, qualcosa della “vera” vita. E così non riuscivo mai a concentrarmi sui miei studi. E quando ero immersa nella “vita vera”, in mezzo alle persone, provavo sempre il desiderio disperato di tornare a quella scrivania e non ero affatto allegra insieme agli altri. Quella distinzione artificiale tra studio e “vita vera” adesso è scomparsa. Adesso “vivo” davvero dietro alla mia scrivania. Lo studio è diventato una “vera” esperienza di vita e non è più solo qualcosa che riguardi la mente. Alla mia scrivania io sono completamente immersa nella vita, e trasporto nella “vita vera” la tranquillità interiore e l’equilibrio che mi sono conquistata nell’intimo. Prima dovevo ogni volta ritirarmi dal mondo esterno, perché le molte impressioni mi confondevano e mi rendevano infelice. Dovevo rifugiarmi in una stanza silenziosa. Adesso quella “stanza silenziosa”, per dir così, la porto sempre con me, e mi ci posso ritirare a ogni istante, sia che mi trovi in un tram pieno di gente sia nel mezzo della confusione in città» (Etty Hillesum).

Italia – Sorgenti di Speranza al Meeting MGS 2024

Dall’agenzia ANS.

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Roma, Italia – settembre 2024 – Dal 6 al 7 Settembre 2024, nell’oratorio salesiano dell’opera Don Bosco a Cinecittà, si è svolto il Meeting MGS che ha visto coinvolti più di 600 giovani provenienti da tutto il territorio MGS Italia Centrale. Sui passi della proposta pastorale “Attesi dal Suo amore, gioiosi nella Speranza”, sono state proposte le attività per tutte le fasce di età: Biennio, Triennio e Giovani adulti. Per entrare nel vivo della proposta pastorale, il Biennio e il Triennio hanno partecipato a giochi e attività ricchi di allegria e formazione. Per i giovani adulti, invece, si è svolta una tavola rotonda come occasione per confrontarsi sul tema della Speranza. Il sabato, tutti i partecipanti hanno preso parte alle “Sorgenti di Speranza”, un momento dedicato al confronto con il vissuto di vari testimoni nella loro esperienza di Speranza su alcune tematiche particolari, concludendo poi con un momento di condivisione tra case. Il Meeting MGS si è chiuso con la Celebrazione Eucaristica presieduta dal nuovo Ispettore dell’ICC don Roberto Colameo, il saluto dell’Ispettrice FMA Suor Gabriella Garofoli e l’invio dei nuovi incarichi di segreteria e animazione pastorale. Seguendo l’esempio di Don Bosco, e per iniziare ad essere insieme delle vere sorgenti di Speranza, i giovani hanno deciso di devolvere la cifra destinata ai loro gadget all’oratorio Don Bosco di Alessandria D’Egitto, andando a finanziare le attività oratoriane annuali di 10 bambini.

Primo Annuncio e dialogo interreligioso, seminario in Spagna per la Regione Mediterranea

Dall’11 al 13 ottobre, a Madrid, si svolgerà il seminario sul Primo annuncio e il dialogo interreligioso rivolto agli operatori di Pastorale Giovanile della Regione Mediterranea.

Gli obiettivi del seminario sono: riflettere sulla realtà dei giovani nel contesto secolare delle nostre società complesse, plurali e multireligiose e sulla sfida dell’esperienza creativa; approfondire la necessità di ricorrere al kerygma, proponendo con coraggio la Buona Novella di Gesù Cristo; prospettive e percorsi pastorali di accompagnamento dell’esperienza di vita fin dal primo annuncio e dall’accoglienza del Vangelo.

I destinatari sono: operatori pastorali, salesiani e laici, con esperienza evangelizzatrice e responsabilità nell’animazione; coordinatori pastorali in contesti secolarizzati e multireligiosi; accompagnatori dei giovani in itinerari di crescita nella fede.

Per iscriversi, è necessario rivolgersi al delegato di Pastorale giovanile della propria ispettoria.

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