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Gennaio, al Centro Nazionale assemblea e coordinamento di Pastorale Giovanile e Presidenza della CISI

Dal 9 al 13 gennaio al Centro Nazionale di Roma si sono ritrovati gli Ispettori, i Delegati di Pastorale Giovanile, i referenti degli uffici nazionali e i membri del Consiglio della Comunità Educativa Pastorale (CEP) del Centro Nazionale per alcuni appuntamenti di coordinamento dell’Italia Salesiana.

Con la presenza del Consigliere per la Regione Mediterranea e Presidente CISI, don Juan Carlos Pérez Godoy, il 9 e 10 gennaio c’è stato il coordinamento di Pastorale Giovanile, durante il quale è stato affrontato il tema del Giubileo dei Giovani, quello del progetto del Centro Nazionale e, il 10 gennaio, una giornata di studio laboratoriale con don Fabio Attard: “La dimensione della fede nel rapporto con la cultura giovanile e contemporanea”. I delegati di Pastorale Giovanile hanno potuto riflettere dopo essersi preparati con alcune letture previe. La lettura che tutti ne hanno dato è che davanti ai nostri occhi ci sono sfide della società che vanno viste, riconosciute e affrontate con un occhio vigile ma propositivo, togliendo alcuni freni che ci legano troppo al passato per tentare strade nuove con coraggio.

L’11 gennaio c’è stata l’Assemblea di Pastorale Giovanile. Nella mattinata il Rettor Magnifico dell’UPS, don Andrea Bozzolo, ha guidato la formazione sul tema: “Una lettura salesiana del Sinodo e cosa dice il Sinodo alla Congregazione”. Prima di tutto, don Bozzolo ha chiarito alcuni passaggi sul Sinodo, sulle modalità di svolgimento e sui processi che hanno coinvolto clero, religiosi e laici. Dopodiché ha spiegato il riverbero che il documento finale, “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”, avrà nella vita della Chiesa, in particolare nelle nostre CEP. La Congregazione, ormai alle porte del Capitolo Generale XXIX potrà godere di alcuni “guadagni sinodali” e farli propri.

Successivamente è stato dato spazio alle comunicazioni degli uffici nazionali, soprattutto per l’organizzazione dell’accoglienza dei giovani di tutto il mondo per il loro Giubileo.

Domenica 12 e lunedì 13, invece, c’è stato l’incontro della Presidenza della Conferenza delle Ispettorie Salesiana d’Italia (CISI) con gli Ispettori e gli incaricati di Economia e Formazione. Tra gli argomenti affrontati, un confronto con don Roberto Del Riccio SJ sul ridisegno dell’Italia salesiana, a partire dall’esperienza della provincia Gesuita di Italia, Malta, Romania e Albania.

Sono evidenti i segni di un cammino che come Italia Salesiana cresce di giorno in giorno, con l’impegno di rispondere sempre meglio alla domanda fondamentale di questo processo: “Cosa ci serve e come dobbiamo essere per essere più incisiva nella nostra azione apostolica in Italia?”

Respirare a due polmoni

Pubblichiamo l’editoriale di don Rossano Sala sull’ultimo numero di Note di Pastorale Giovanile.

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L’importanza dell’ascolto e i dinamismi del discernimento

Come abbiamo affermato nell’editoriale del numero precedente di NPG, seguiamo nel 2025 il filo rosso del cammino sinodale vissuto con i giovani dal 2016 al 2019 per riscoprirne i dinamismi e le prospettive, certi che in quei percorsi ci sono istanze da recepire per il rinnovamento della pastorale giovanile che attendono ancora di essere riscoperte e valorizzate.
Incominciamo mettendo a fuoco quelli che possiamo definire i due “polmoni” con cui abbiamo respirato per tutto il cammino fatto con e per i giovani: l’ascolto e il discernimento. Sono due disposizioni o posture che stanno una nell’altra: la prima è la condizione indispensabile per la seconda e la seconda è il frutto maturo e la destinazione naturale della prima.

La disciplina dell’ascolto

Anche oggi, se vogliamo fare una buona pastorale per e con i giovani, il punto di partenza rimane l’ascolto empatico della loro esistenza. Si sente nell’aria un grande bisogno di ascolto autentico.
Il Documento finale del Sinodo al n. 64 afferma che i giovani vanno considerati un “luogo teologico”. Che cosa significa? Che Dio – lo sappiamo – si esprime in molti modi, e non ultimo anche per mezzo della vita e della parola dei giovani di oggi. La loro esistenza è un “segno dei tempi”, perché essi sono un appello, un richiamo, e perfino una provocazione, che Dio rivolge alla Chiesa e al mondo. Attraverso i giovani Dio ci parla.
Perciò i giovani vanno quindi prima di tutto ascoltati. In un mondo adulto e in una Chiesa che nel suo insieme sembra essere in debito di ascolto questo non è facile, perché siamo abituati a parlare molto, un po’ meno a sentire, e poco ad ascoltare. Ascoltare è infatti più che sentire, ed è meglio che parlare. Significa essere aperti alla parola e all’esperienza degli altri, essere in grado di fare silenzio e spazio per ciò che mi vogliono comunicare, a partire dalle loro fatiche e sofferenze. Significa perfino avere il coraggio di “dare la parola” predisponendo un ambiente ricettivo e disponibile a lasciarsi anche trafiggere dalla parola viva dell’altro.
È scomodo e anche umiliante mettersi davvero in ascolto. È molto più facile sedersi al tavolo del confronto arrivando già con delle soluzioni preconfezionate o delle proposte già decise nella pastorale giovanile, perché pensate a monte rispetto all’ascolto dei giovani o ad un momento di confronto creativo. A volte si invitano i giovani a tavoli importanti, ma non sempre la disposizione nei loro confronti è aperta all’ascolto sincero del loro punto di vista.
C’è fatica ad ascoltare. E tale difficoltà ha una radice teologica. Nel senso che se non facciamo spazio nella nostra vita all’ascolto di Dio che continuamente parla e agisce nella storia, facendoci attenti alla sua parola nella meditazione quotidiana e a ciò che lo Spirito ci sta dicendo attraverso persone ed eventi, faremo fatica ad aprirci ai giovani. L’ascolto come esercizio spirituale ordinario va di pari passo con l’ascolto dei giovani: queste due realtà sono direttamente proporzionali.
L’ascolto ha bisogno di una disciplina specifica che non s’improvvisa, ma è frutto di un’esistenza aperta e disponibile. È un dinamismo che vince l’autoreferenzialità e fa diventare umili, disponibili ad imparare sempre di nuovo dalla vita e dal silenzio che lascia spazio agli altri e all’Altro. D’altra parte non si può essere discepoli del Signore senza l’assunzione di una disciplina che ci mette in ascolto attento della sua esistenza storica e della sua presenza attuale. In maniera sintetica, la parola del Sinodo sui giovani così affermava:

L’ascolto è un incontro di libertà, che richiede umiltà, pazienza, disponibilità a comprendere, impegno a elaborare in modo nuovo le risposte. L’ascolto trasforma il cuore di coloro che lo vivono, soprattutto quando ci si pone in un atteggiamento interiore di sintonia e docilità allo Spirito. Non è quindi solo una raccolta di informazioni, né una strategia per raggiungere un obiettivo, ma è la forma in cui Dio stesso si rapporta al suo popolo. Dio infatti vede la miseria del suo popolo e ne ascolta il lamento, si lascia toccare nell’intimo e scende per liberarlo (cfr. Es 3,7-8). La Chiesa quindi, attraverso l’ascolto, entra nel movimento di Dio che, nel Figlio, viene incontro a ogni essere umano (Documento finale, n. 6).

L’ascolto è il modo specifico in cui Dio si relazione con il suo popolo. E a noi, pastori dei giovani, è richiesto di assumere questa postura specifica nei confronti dei giovani che incontriamo in tutti gli ambienti. È il primo passo, necessario e insostituibile, per incominciare l’opera della pastorale giovanile. Senza tale ascolto la nostra opera è senza fondamenta, oppure ha fondamenta molto fragili.
Nell’Esortazione Apostolica postsinodale Christus vivit si parla dell’ascolto come disposizione fondamentale per una Chiesa che desidera essere significativa per le giovani generazioni. Al n. 65 si dice che, purtroppo,

i fedeli della Chiesa non sempre hanno l’atteggiamento di Gesù. Invece di disporci ad ascoltarli a fondo, “prevale talora la tendenza a fornire risposte preconfezionate e ricette pronte, senza lasciar emergere le domande giovanili nella loro novità e coglierne la provocazione”. D’altra parte, quando la Chiesa abbandona gli schemi rigidi e si apre ad un ascolto disponibile e attento dei giovani, questa empatia la arricchisce.

L’abito del discernimento

L’ascolto non è fine a se stesso, nel senso che è necessario, ma in sé insufficiente. L’ascolto è il passo iniziale per poter discernere. Il discernimento è il movimento successivo all’ascolto, nel senso che partendo dall’ascolto il discernimento è quella laboriosità personale e comunitaria guidata dallo Spirito del Signore che arriva a prendere delle decisioni pastorali adeguate alla situazione concreta.
Oggi il discernimento è sempre più essenziale, perché non è più possibile avere uno schema prestabilito da ripetere. Perché quando siamo in un’epoca di grandi cambiamenti – come la nostra – il discernimento diventa la modalità operativa ordinaria e permanente. Sempre la storia della Chiesa, se la osserviamo con attenzione, nei periodi di grande confusione e cambiamento è stata abitata da alcune minoranze creative in grado di discernere e inaugurare forme inedite di risposta ai problemi nuovi del proprio tempo.
La pratica del discernimento è quindi richiesta in forma imperativa dal “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo. Ecco alcune parole, tra le tante disponibili che circolano sul tema, che ne rendono chiara la sua estrema utilità in questo frangente storico:

La cultura dell’abbondanza a cui siamo sottoposti offre un orizzonte di tante possibilità, presentandole tutte come valide e buone. I nostri giovani sono esposti a uno zapping continuo. Possono navigare su due o tre schermi aperti contemporaneamente, possono interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Ci piaccia o no, è il mondo in cui sono inseriti ed è nostro dovere come pastori aiutarli ad attraversare questo mondo. Perciò ritengo che sia bene insegnare loro a discernere, perché abbiano gli strumenti e gli elementi che li aiutino a percorrere il cammino della vita senza che si estingua lo Spirito Santo che è in loro. In un mondo senza possibilità di scelta, o con meno possibilità, forse le cose sembrerebbero più chiare, non so. Ma oggi i nostri fedeli – e noi stessi – siamo esposti a questa realtà, e perciò sono convinto che come comunità ecclesiale dobbiamo incrementare l’habitus del discernimento. E questa è una sfida, e richiede la grazia del discernimento, per cercare di imparare ad avere l’abito del discernimento. Questa grazia, dai piccoli agli adulti, tutti (Cfr. Visita pastorale del Santo Padre Francesco a Milano, Incontro con i sacerdoti e con i consacrati, Duomo di Milano, 25 marzo 2017).

Siamo bombardati mediaticamente. Riceviamo stimoli molto superiori alle nostre capacità ricettive. Fatichiamo quindi ad orientarci per cogliere il bene. Rischiamo perciò una radicale incapacità di deciderci con cognizione di causa. Ecco perché imparare a discernere è sempre più determinante, se non vogliamo annegare nelle sabbie mobili del nostro tempo, che è più liquido che solido, più plurale che univoco, più oscuro che limpido, più frastagliato che lineare, più virtuale che virtuoso. Tanto ricco di opportunità da confonderci continuamente.
Il discernimento ci aiuta ad intuire ciò che viene da Dio e ciò che invece proviene dal Maligno, a chiarire le impercettibili differenze tra il bene e il male, ad approfondire la provenienza e la destinazione di ciò che ci si presenta davanti e infine di scegliere con coraggio ciò che si è riconosciuto vero, buono, bello, giusto e santo.
Si dice giustamente che il discernimento è chiamato a divenire un “abito”. Ovvero una modalità feriale di vivere, uno stile di Chiesa normale e perfino scontato, una metodologia operativa che ci fa procedere sicuri nel cammino. Quando si parla di “virtù” la teologia morale ne ha sempre parlato come di “abiti”, cioè di dinamismi presenti in forma permanente nella vita delle persone, capaci di interagire in tempo reale con le situazioni concrete in vista di decisioni e azioni buone.
Proprio così va pensato il discernimento. Un abito costruito con una regola precisa che sa tenersi aperta all’apporto di tutti, e che va declinato con alcuni verbi scanditi secondo un ordine preciso, che nel cammino di progettazione nella pastorale in genere e nella pastorale giovanile in particolare vanno presi davvero sul serio:
• Ascoltare con attenzione: è il primo passo, quello dell’apertura all’altro che arricchisce il punto di vista di tutti, perché è solo con l’apporto di ogni membro della comunità che essa si esprime in pienezza;
• Dialogare con rispetto: saper reagire con intelligenza critica alla parola udita, non tanto per biasimare ciò che non ci ha convinto, ma per sottolineare ciò che di buono si è udito;
• Confrontarci con apertura di spirito: mettere insieme le varie posizioni, cercando di far emergere il meglio ed eliminando il superfluo. Qui si tratta di qualificare il dialogo, facendo sintesi positiva;
• Progettare con lungimiranza: mettere insieme una serie di decisioni e di prospettive capace di fare forma ad un cammino fecondo per generare frutti di vita buona;
• Verificare con umiltà: essere in grado di rivedere ciò che si è fatto, sottolineando con realismo ciò che ha generato frutti positivi e ciò che invece non è andato a buon fine
• Rilanciare con entusiasmo: riproporre una prassi rinnovata dopo il laborioso percorso scandito dai cinque passaggi esposti sopra.
È evidente che se il discernimento diventa un habitus, questo vero e proprio “circolo virtuoso” è vissuto in forma perenne, cioè diventa uno stile normale di animazione di un gruppo di persone che guidano la pastorale giovanile in tutti i suoi cammini. Diventa perfino uno stile per la vita e la missione di ogni comunità cristiana.

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A partire dai dinamismi dell’ascolto e del discernimento emerge un invito chiaro per noi tutti, che ci viene dalla parola autorevole del Santo Padre: «Esorto le comunità a realizzare con rispetto e serietà un esame della propria realtà giovanile più vicina, per poter discernere i percorsi pastorali più adeguati» (Christus vivit, n. 103). È una spinta a mettersi in gioco a partire dall’ascolto della nostra realtà giovanile in vista di un discernimento pastorale appropriato e conveniente. Facciamolo con serietà e rispetto.

Assemblea, Coordinamento di Pastorale Giovanile e Presidenza CISI a Roma, dal 9 al 13 gennaio

I primi giorni di questo anno nuovo al Centro Nazionale di Roma si ritroveranno gli Ispettori, i delegati di Pastorale Giovanile, i referenti degli uffici nazionali e i membri del Consiglio della CEP del Centro nazionale per alcuni appuntamenti di coordinamento dell’Italia Salesiana.

Il 9 e 10 gennaio ci sarà il coordinamento di Pastorale Giovanile, durante il quale si affronterà il tema del Giubileo dei giovani, quello del progetto del Centro Nazionale e, il 10, una giornata di studio laboratoriale con don Fabio Attard: “La dimensione della fede nel rapporto con la cultura giovanile e contemporanea”.

L’11 gennaio, invece, sarà il giorno dell’assemblea di Pastorale Giovanile. La mattina con don Andrea Bozzolo ci sarà un momenti di formazione: “Una lettura salesiana del Sinodo e cosa dice il Sinodo alla Congregazione”, poi spazio alle comunicazioni degli uffici, soprattutto per l’organizzazione dell’accoglienza per il Giubileo.

Domenica 12 e lunedì 13, invece, ci sarà l’incontro della Presidenza CISI con gli ispettori. Tra gli argomenti affrontati, un confronto con don Roberto Del Riccio SJ sul ridisegno dell’Italia salesiana.

Ceuta: mondi che si incontrano

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

L’azione educativa e pastorale della Chiesa

Dalla rubrica: I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale /3

di Luigi Amendolagine

(NPG 2024-07-52)

Pietre miliari per una riflessione profonda sull’essere cristiani, non solo per i giovani, sono: la fede, la vocazione, il discernimento e l’accompagnamento. Partendo dalle considerazioni che i giovani hanno condiviso, ci poniamo un interrogativo importante: quale azione educativa e pastorale la Chiesa deve mettere in campo, rimanendo allo stesso tempo coerente ai suoi insegnamenti e al passo della realtà in continua evoluzione?
I giovani desiderano un rinnovamento della Chiesa che possa renderla sempre più prossima, accogliente, umile, in uscita; una casa aperta e pronta ad accogliere tutti, indistintamente, capace e vogliosa di dialogare con tutti, che sia inclusiva e mai giudicante con la sua morale.
La prossimità è sicuramente l’aspetto maggiormente ambito dai giovani nell’azione educativa e pastorale della Chiesa che cammini con loro, anche a costo di uscire dai soliti registri. C’è la domanda di una Chiesa vicina e presente, che sappia rispettare la singolarità delle storie e delle ferite delle persone: “Ma io non esisto” – dice il ragazzo omosessuale quando parla della catechesi – . Come Cristo si è incarnato nel mondo, anche la Chiesa deve saper abitare i tempi ed esserci per i giovani, non solo per alcuni, ma per tutti.
I giovani auspicano che, oltre a farsi prossima, la Chiesa offra loro “spazio” inteso sia come luogo fisico sia come metafora del permettere ai giovani di essere più protagonisti all’interno della Chiesa. I giovani chiedono spazi concreti dove potersi incontrare, dove poter dialogare con gli adulti così da potersi sentire ascoltati, ma anche luoghi dove poter incontrare il “diverso”, inteso come chi la pensa diversamente dalla Chiesa o addirittura come chi non si sente proprio parte di essa. I giovani chiedono, inoltre, di essere considerati in quegli spazi decisionali dai quali troppo spesso, secondo il loro parere, sono esclusi o non sufficientemente valorizzati. A tal proposito propongono di rivedere la gestione della leadership all’interno della Chiesa, per esempio, circa il ruolo della donna.

Chiedono apertura, partecipazione, creatività, aggregazione, bellezza, valorizzazione delle idee giovanili mettendo da parte i tabù. Forte è nei giovani l’attesa di liturgie belle, creative, essenziali, vive, motivanti, che sappiano trasmettere gioia e calore, che raccontino il “mistero”, che sappiano emozionare. Dicono con franchezza che sono stanchi delle lunghe omelie, specie se lontane dai problemi della realtà e della quotidianità.
Ruolo importante e decisivo in un processo di rinnovamento dell’azione educativa e pastorale della Chiesa devono averlo sicuramente i laici. I giovani, infatti, rifiutano il clericalismo, con parrocchie che dipendono esclusivamente dalle peculiarità del parroco. Al contrario vorrebbero sacerdoti meno dediti alle questioni amministrative burocratiche e capaci di dare più tempo e spazio a chi ne ha bisogno di ascolto.

Lo stile della Chiesa cui i giovani aspirano è in sintesi quello di una Chiesa che racconti la bellezza della fede piuttosto che concentrarsi sui doveri morali. Una Chiesa materna e allo stesso tempo fraterna, perché sempre disponibile ad ascoltare. Una Chiesa “formato famiglia” che sappia chiedere e offrire perdono, che sappia sorridere sempre. Una Chiesa al passo coi tempi, tecnologica e presente sui social. Una Chiesa sincera, autentica, libera dai soliti schemi che la ingabbiano e la rendono vecchia e triste. Una Chiesa che proclami chiaramente Gesù Cristo, con un linguaggio fresco e attuale, comprensibile e attraente per i giovani. «Una Chiesa che raggiunga i giovani nella loro realtà evolvendosi e parlando il loro linguaggio; una Chiesa che risponda ai loro interrogativi e alle sfide del mondo (etica, ecologia, orientamento…). Una Chiesa che osa purificarsi dai propri arcaismi, che accetta il cambiamento, la novità, la diversità. Che sia aperta alle nuove iniziative, alla creatività, che sia accattivante. Che osi riconoscere i suoi limiti».
In questa richiesta di cambiamento avanzata dai giovani, questi sono consapevoli che loro stessi sono la Chiesa che si rinnova, i protagonisti di questa trasformazione. Sanno di poter dare un contributo innovativo e alternativo. Vorrebbero essere più corresponsabili, più protagonisti nelle liturgie e nella catechesi, impegnarsi nella missione evangelizzatrice della Chiesa attraverso l’arte, specialmente la musica. Si sentono portati soprattutto per l’educazione e la formazione dei loro coetanei, degli adolescenti, di chi si prepara a celebrare momenti importanti del proprio cammino di fede, come il sacramento della cresima.

Inoltre, non hanno paura nel denunciare che spesso, proprio nella Chiesa, i giovani non vengono incoraggiati ad assumersi delle responsabilità e che le loro potenzialità vengono trascurate e sottovalutate.
Essendo sensibili alle questioni di giustizia sociale, volentieri metterebbero a disposizione la loro freschezza e le loro energie per la pace, la salvaguardia del creato, il servizio ai più poveri e ai disabili, l’ascolto delle persone anziane e sole.
Emerge forte la volontà dei giovani di rendersi protagonisti anche nella società civile attraverso la partecipazione alla vita politica.
I giovani desiderano portare il lievito del Vangelo in tutti gli ambienti, anche in quelli che notoriamente sono facilmente invischiati in dinamiche di potere e di corruzione, per sensibilizzare al bene comune e agli altri principi della dottrina sociale della Chiesa.
Sport, oratorio, associazionismo, animazione, università, servizio civile, arte, mondo del lavoro, educazione sono gli ambiti in cui i giovani sentono di poter dare maggiormente il proprio contributo, facendo fruttare i loro talenti.

Non da ultima vi è la famiglia, primo luogo di missione e di evangelizzazione da non trascurare.
In tutto questo, i giovani non desiderano semplicemente “spazio”, come se volessero a tutti i costi soppiantare chi li precede, ma chiedono di essere accompagnati e non essere abbandonati attraverso un paradigma di reciprocità in cui “Non si tratta semplicemente di coinvolgere i giovani per aiutare la comunità ecclesiale, ma di chiedere cosa la comunità ecclesiale può fare per aiutarli”.Per intessere questo dialogo che mette in relazione Chiesa e giovani, la prima deve configurarsi come una “Chiesa in uscita” capace di evangelizzare non dal pulpito con monologhi, ma nei luoghi quotidiani, come la scuola, per cogliere convergenze di obiettivi e offrire opportunità formative integrate attraverso la via della bellezza. Inoltre non deve dimenticare chi è fuori dai percorsi formativi formali che merita di essere raggiunto attraverso il mondo digitale (internet, social network…) e il mondo del lavoro. La strada, i luoghi di divertimento, le attività sportive e ludico-aggregative, i luoghi di cultura, l’arte, la musica, i bar, i locali, le discoteche: sono tutti ambiti dove poter intessere relazioni semplici e significative.
Non vengono trascurati nemmeno i luoghi ecclesiali “ordinari” di incontro dei giovani: la parrocchia, l’oratorio, l’associazionismo cattolico, i movimenti spirituali. Qui si ribadisce il desiderio di permettere un maggior protagonismo dei giovani, responsabilizzandoli in servizi pastorali e dando loro spazi di dialogo
e confronto.

Nella sua azione educativa e pastorale tra gli strumenti che la Chiesa può e dovrebbe utilizzare in maniera efficace vi è il linguaggio semplice, concreto, diretto, coerente, chiaro, senza fronzoli, mai ambiguo, gioioso, per immagini, pratico, creativo, narrativo. Su tutto i giovani preferiscono la credibilità, cioè il linguaggio “del buon esempio”, della santità. Vogliono ascoltare la testimonianza coerente di chi è impegnato nell’annunciare il Vangelo con una vita gioiosa e fraterna. Sono consapevoli che loro stessi possono essere i primi evangelizzatori dei loro coetanei, perché capaci di comprenderli meglio e di raggiungerli con facilità. I gesti concreti, come le opere di misericordia, sono considerati un linguaggio diretto e fortemente comunicativo, mai scontato e sempre attuale e attraente. L’arte, nelle sue multiformi rappresentazioni, è considerata uno strumento comunicativo ricco, prezioso, accessibile e diretto. Per questo i giovani lo prediligono e chiedono alla Chiesa che siano promosse la letteratura, la musica, le belle arti.

I giovani sono fortemente convinti che la Chiesa debba essere più visibile attraverso i mezzi della comunicazione sociale: in particolar modo i social, ma anche la televisione e la radio.
Nonostante questa particolare predilezione continuano a considerare l’incontro personale come insostituibile.
Infine anche la liturgia, con il suo ricco simbolismo, è riconosciuta come una fonte di ricchezza tante volte inespressa perché sconosciuta, capace di comunicare con immediatezza il mistero della fede che le parole non riescono ad esprimere.

Concludendo con le parole di Papa Francesco nella Christus vivit, “la pastorale giovanile non può che essere sinodale”. Essa si concretizza in un andare insieme, consentendo ai giovani di essere partecipanti attivi del cammino; nell’ascoltare e discernere attentamente per dare risposte adeguate; nel “creare casa”, costruendo legami significativi; nel mettere in relazione le diverse generazioni. La pastorale, così delineata, risponde esattamente ai desideri dei giovani della Riunione presinodale.
Sulla base delle provocazioni offerte dai giovani, nel prossimo articolo proveremo ad immaginare la necessaria conversione ecclesiale che possa consentire alla Chiesa di essere autenticamente a servizio con e per i giovani.

Introduzione al Dossier “Mettiamo ordine nei nostri affetti”

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Quattro sguardi per accompagnare i giovani oggi

Rossano Sala

Di fronte alla riduzione del corpo a oggetto di esibizione e alla deriva ludica della sessualità, all’enorme confusione affettiva e alla mercificazione dei legami in atto – il tutto accentuato dalla digitalizzazione delle relazioni, che smaterializza e virtualizza ogni cosa – il Dossier che proponiamo cerca di mettere a fuoco l’originario senso degli affetti umani.
Difficile quindi non comprendere quanto sia strategico quello che ci viene offerto. Sappiamo che nella società della distrazione di massa diveniamo sempre più superficiali e quindi meno sensibili nella percezione dei sentimenti altrui[1]. Quelli che erano i cambiamenti moderni nella vita affettiva e sessuale[2] si sono ancora più rapidamente trasformati nel mondo contemporaneo e soprattutto in quello giovanile[3]. Tendenzialmente tutti siamo tentati da un uso commerciale, vetrinistico e intensivo del nostro corpo[4] e, ancora peggio, di aderire inconsciamente alla cultura dello scarto che si allarga a macchia d’olio[5]. L’esito non può che essere la fine della nostra capacità di desiderare e di amare come si deve[6].
La vita di tutti i giorni, purtroppo anche quella ecclesiale, è ricca di controtestimonianze dal punto di vista affettivo. Tanta immaturità relazionale abbonda e si aggira tra noi. Diventa decisivo domandarsi: come possiamo continuare a sentire, amare e pensare nell’era digitale? La rete, offrendoci molte possibilità, contemporaneamente rischia di toglierci, da una parte, quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigili e reattivi; dall’altra quella sensibilità affettiva e spirituale che rende l’uomo unico e inimitabile. Sono due grandi pericoli di cui essere profondamente consapevoli e a cui rispondere con intelligenza critica e responsabilità etica.
Per queste ragioni entriamo nel mondo degli affetti con competenza e maturità, attraverso quattro sguardi che ci aiuteranno ad orientare la nostra formazione personale e l’azione educativo-pastorale: il primo contestuale, il secondo biblico, il terzo antropologico e il quarto educativo-pastorale.
Fabio Pasqualetti, esperto del mondo della comunicazione, ci guiderà dentro il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, con uno sguardo specifico al mondo dei social media che tanto plasmano la vita affettiva dei giovani oggi.
Gianluca Zurra, teologo ed ecclesiologo, ci farà gustare attraverso alcuni assaggi il modo di sentire del Signore. Il suo sguardo sulla rivelazione ci aiuterà a cogliere l’ordine degli affetti di Gesù, uomo dal sentire divino che partecipa all’amorevolezza infinita del Padre suo.
Paolo Zini, filosofo, mostrerà come la trama e l’ordito dell’umano è affettivo e affettuoso. La centralità del cuore è un dato fondamentale per cogliere il senso dell’antropologia cristiana, che non è mai divisiva ma sempre unificata intorno all’amore e al desiderio di amare e di essere amati.
Gustavo Cavagnari, teologo pastoralista, ci aiuterà a educare i nostri affetti per poter accompagnare i giovani all’arte del vero amore. Non c’è infatti autentica educazione affettiva che non nasca dalla vita buona di coloro che sono chiamati ad educare.
Un’ultima nota “tecnica”, di certo non inutile. I contributi che seguono sono in piena continuità con un importante Dossier pubblicato nel numero di marzo 2022 (SIAMO CORPO. Dall’emergenza al discernimento), dove abbiamo cercato di indagare l’originario del corpo come dono e compito. Lì si era partiti dalla corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo e, passando dal legame tra mente e corpo, si è cercato di comprendere il significato del corpo. Arrivando infine al legame tra corpo e liturgia e al corpo come vocazione.

NOTE

[1] Cfr. L. Iotti, 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione, Il saggiatore, Milano 2020.
[2] Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 2008.
[3] Cfr. C.M. Scarcelli, Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet, Franco Angeli, Milano 2015.
[4] V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, facebook, apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano – Udine 2015; Id., Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale dei corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[5] S. Capecchi – E. Ruspini (ed.), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Franco Angeli, Milano 2009.
[6] M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, Mondadori, Milano 2012.

 

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MGS, Consulta nazionale di ottobre

Si è concluso ieri il primo incontro di Consulta nazionale per l’anno pastorale 2024-25!
Nel weekend del 26-27 ottobre, infatti, delegati di PG, consigliere di PG e i giovani della Consulta si sono ritrovati a Roma. Questa volta in una nuova location: l’Istituto Salesiano Gerini. Qui, nelle periferie di Roma, l’opera si occupa della formazione professionale e ospita alcuni giovani che accolgono la proposta di vivere dei periodi di convivenza e comunità.

Sono stati davvero molti gli argomenti affrontati in questi giorni come consulta, introdotti da un approfondito momento di conoscenza, che ha permesso anche ai molti nuovi partecipanti di entrare nel clima di condivisione che questi momenti sempre portano con sé.
Quest’anno, poi, ogni incontro di consulta dedicherà una parte del tempo affinché due territori per volta possano raccontare una buona pratica attuata nel proprio MGS, come previsto anche nel regolamento MGS Italia. Questo ci è utile per conoscerci meglio come territori durante il corso dell’anno, e potrebbe anche offrire spunti utili al cammino di ciascun territorio. Questa volta il MGS Lombardia-Emilia ci ha raccontato del cammino della Scuola Formazione Animatori e della revisione che stanno attuando come segreteria territoriale. Mentre il territorio del Triveneto ci ha presentato la Consulta Cammini, le modalità di lavoro di questa e i percorsi che progettano e propongono durante l’anno.

È seguita poi la presentazione del regolamento, che per l’occasione è stato stampato e consegnato come opuscolo a tutti i membri della consulta. Esso è un utile strumento di lavoro che ci ricorda innanzitutto gli obiettivi e il cammino che il MGS Italia è chiamato a perseguire.

Siamo quindi passati, con un lavoro di condivisione a gruppi, a ragionare sui temi concreti della proposta pastorale 25-26, che nel percorso triennale già avviato si concentrerà sul tema della fede.

Abbiamo infine concluso i lavori del sabato con i Vespri, prima di un’ottima cena preparata con cura dai ragazzi che abitano nell’opera!
La buonanotte ci ha portati ancora più nello spirito del Gerini: don Flaviano (direttore dell’opera), insieme a Roberta e Daniele ci hanno raccontato delle loro esperienze di convivenza qui, di come queste hanno influenzato le loro vite, della bellezza e della fatica di vivere con così tanti “fratelli”.

La domenica mattina ci ha introdotti a temi dal respiro ampio. Infatti, partendo dal documento del Sinodo dei Giovani tenutosi ad agosto, abbiamo ragionato sul cammino del MGS Italia, sulle priorità che vogliamo darci per questo e i prossimi anni e su come attuarle concretamente.
Infine don Andrea e suor Valeria ci hanno presentato parte del lavoro della cabina di regia che sta seguendo l’organizzazione del Giubileo del Giovani, della quale fanno parte anche Diletta, don Elio e suor Mara.

Abbiamo infine concluso il weekend ringraziando e affidando il lavoro fatto nella Santa Messa, che abbiamo vissuto con i ragazzi del DBweekend.

Sito MGS

Italia Meridionale – Riaccendere i nostri cuori

Dal sito dell’Ispettoria Italia Meridionale.

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Anche quest’anno, quasi 100 giovani del nostro territorio MGS hanno sentito il desiderio di mettersi in discussione accettando l’invito non solo a partecipare ai weekend Rise Up, ma anche a dedicare un fine settimana alla propria crescita personale. Molti erano spinti dal ricordo e dalla bellezza della prima edizione, altri invece sono stati mossi dalla curiosità del “sentito dire” o sono stati animati dai temi proposti: la violenza di genere e le relazioni affettive.

Riconoscere la realtà attorno a questi argomenti è stato il primo passo da fare per entrare nel primo appuntamento. Ecco perché, dopo essere stati accolti nell’Istituto salesiano “Sacro Cuore” di Napoli-Vomero, abbiamo vissuto un momento di formazione che ci ha aperto lo sguardo su quanti e quali tipi di violenze vengono commessi e su quali provvedimenti la società stia avviando per contrastare un problema con profonde radici culturali. La teoria di tale momento si è subito concretizzata grazie al racconto delle operatrici della Cooperativa “EVA”, nata con lo scopo di prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne. La realtà della Cooperativa permette di accogliere e sostenere donne vittime delle varie forme di violenza, ma soprattutto di reinserirle nella società e nel mondo del lavoro creando esperienze uniche, come ad esempio la creazione di una collezione d’abiti da esporre alla Reggia di Caserta.

Abbiamo poi ricevuto in dono, dalla sua voce, il vissuto di Giovanna. Per colpa di un amore malato, Giovanna ha rischiato di perdere la sua vita, oltre al non poter rivedere le sue figlie per anni. Sentirsi toccata da uno sguardo di amore è stata la scintilla che le ha riacceso il cuore, che ha permesso ad una donna di tornare alla sua vita e di testimoniare quanto ha ricevuto. Ha mostrato una capacità innata di amare, ha rivelato un amore infinito di madre verso le sue figlie. Un amore rinato dalla speranza che riesce a colmare e risanare le mancanze derivate dalla sua storia.

Se la storia di Giovanna è stata un esempio di riscatto da un amore tossico, il giorno dopo abbiamo visto i frutti che la cura di una relazione sana porta, ascoltando la storia di una giovane famiglia potentina. Gabriele e Arianna, accompagnati dal piccolo Enea, hanno ripercorso il loro amore e lo hanno consegnato a noi, rivelandoci la complessità che una relazione porta, i compromessi da raggiungere, tutto in nome di un Bene più grande.

Sabato sera, in conclusione della giornata, abbiamo fatto sedimentare ciò che le testimonianze hanno smosso in noi, ponendoci alla presenza del Signore nell’Adorazione: sintesi di quanto ascoltato, slancio per la riflessione personale. Ascoltare con il cuore e con consapevolezza un Vangelo, quello dell’Emorroissa (Luca 8,43-48; Marco 5,25-34), sentito e risentito ci ha fatto scoprire come il Signore parli direttamente alle nostre ferite, le indichi, proponendosi come vero medico donatore di salvezza. Infatti, ciascuno di noi potrebbe percepire lontane le storie di donne e violenze, di amori malati e corrotti che svuotano di vita un corpo; eppure, anche i nostri sono cuori che, in maniera diversa, gocciolano o grondano sangue da ferite mal curate o per niente considerate. Curare la propria affettività e le proprie relazioni non è un gioco semplice, non è da sottovalutare. Per questo siamo stati chiamati a riflettere sulla nostra interiorità, sulle nostre spaccature che sanguinano, ma che sono il luogo prediletto in cui il Signore vuole che avvenga un incontro pieno e vero per aiutarci ad individuare in che modo siamo chiamati ad amare.

Il primo dei quattro incontri Rise Up si è concluso con la consegna di un simbolo concreto che sa di speranza, di chiamata alla vita: una scatoletta di fiammiferi, inizialmente vuota! Questo perché potrebbe sembrare che alcuni, forse tanti, cuori siano arrivati a svuotarsi del necessario per ardere. Allora, ecco perché abbiamo ricevuto in dono anche due fiammiferi, non da conservare, a lasciare che si inumidiscano e perdano la loro capacità di accendersi, ma pronti a fare luce sul nostro spirito. La scatoletta dei nostri fiammiferi è pronta a riempirsi, e noi siamo già in attesa di rivederci al prossimo appuntamento di novembre, a Foggia, per metterci in gioco e “fare luce” su nuove tematiche insieme.

Antonio Gargano e Antonio “Felix” Scherma 

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I doni di una pastorale giovanile in tempo di guerra

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Maksym Ryabukha, SDB  – Esarca Arcivescovile di Donetsk (Ucraina).

Nei giorni scorsi ho avuto la inattesa ma piacevole sorpresa dell’invito da parte della direzione di NPG a un contributo per una nuova rubrica: PG dalle periferie. Hanno pensato che l’esperienza che sto e stiamo vivendo (e la comunità ecclesiale, e i giovani con me) possa risultare significativa e forse interrogante per giovani ed educatori che vivono in parti del mondo “più fortunate”. Capisco anche che essi considerino il territorio della mia chiesa “periferia”, sia perché ai margini orientali dell’Europa (dove il Centro è ovviamente ben contraddistinto, anche con pastorali elaborate) che in zona invasa o “occupata” o a rischio di invasione e totale occupazione: quale zona dunque più periferica di questa?
Devo comunque dire, tra parentesi per non disturbare troppo, che noi ci sentiamo al “centro”. Perché dove siamo è sempre centro, dove ci stanno i giovani e adulti che si occupano di loro è sempre centro, dove abita Dio (anche se si dice che preferisce le periferie) è sempre centro. Questo che anticipo è quanto ci dà forza e speranza. Allora ecco una voce da una periferia-centro, a un “centro” che si apre alla periferia.
Accetto anche molto volentieri questo invito perché viene dal mondo istituzionale e “carismatico” di cui faccio parte, quello Salesiano, e dalla rivista “Note di pastorale giovanile” che conosco e stimo, dai tempi della mia formazione in Italia, e che ha accompagnato molti dei miei passi pastorali. Restituisco dunque qualcosa di quanto ho ricevuto.
Vorrei articolare la mia risposta alla domanda “Come si fa pastorale giovanile nella periferia e cosa può dire alla PG italiana?” come una “restituzione” di doni. Finora abbiamo ricevuto tanto dalle comunità ecclesiali italiane (e non solo) e dai giovani: non solo la formazione carismatica salesiana che ci ha aperto un vasto campo di servizio in Ucraina, ma negli ultimi anni di guerra in termini di aiuti materiali ed economici (medicine, cibi, tende, suppellettili, l’accoglienza di tanti profughi…), e spirituali con la vicinanza e la preghiera. Ecco, vorrei in qualche modo “restituire” col dono della nostra esperienza, che per noi sta diventando il tesoro che ci resta in un tempo di macerie e di rovina, che è come quel tesoro evangelico che non viene consumato da ruggine e da tarli.
Quali sono allora i doni di esperienza che possiamo offrire ai nostri amici italiani (e forse a vari amici di altri paesi), i nostri tesori?

1. Il dono di un Dio che c’è

Dio c’è, c’è sempre, in qualunque tempo e circostanza. Lui diventa la nostra forza di resistenza anche nei momenti più drammatici se riusciamo ad accorgerci della sua presenza. E qui voglio prendere in prestito le parole (bellissime parole) di un’amica dei giovani, una giovane lei stessa, che ha vissuto in maniera ancora più drammatica una situazione simile alla nostra: Etty Hillesum.
Così lei scrive nel suo Diario il 12 luglio 1942, in una “preghiera del mattino”, ancora nel cuore della guerra mondiale, e nell’oscurità del campo di concentramento di Westerbork, prima dell’ultima tappa della morte ad Auschwitz:

“Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi.”

È questa l’esperienza che purtroppo stiamo vivendo, di un Dio sepolto tra le macerie e le devastazioni assieme a coloro che sono sepolti e devastati. È questa dunque l’esperienza di tanta gente, tanti cristiani, tanti ragazzi e giovani. Ma Dio resiste nei cuori, non permettiamo che venga sepolto, perché altrimenti tutto sarebbe veramente finito.
Dio c’è in tutto questo. Non perché l’abbia voluto ma perché ci dà la forza per continuare a tenerlo vivo, la forza per resistere, sperare e nel frattempo vivere la nostra vita cristiana.
C’è appunto nonostante tutto. C’è nei segni delle preghiere che sono diventate molto più significative per noi, c’è nella sua Parola che viene annunciata (magari con i suoni delle sirene di allarme o il fragore dei missili che cadono o delle difese aeree che tentano di impedirlo) con maggior senso, nel gesto di carità di un aiuto a chi ha bisogno, di una parola di conforto, una carezza a un bambino o un anziano… e in tanti altri modi. Non abbiamo bisogno di tante parole di apologetica. Dio si “impone” alla fede e alla vita perché altrimenti saremmo disperati.
Nelle parole di Bonhoeffer, Dio resta quella fontana zampillante del villaggio che permette di dissetarsi e di sentirsi comunità; e lo è sia nella vita gioiosa che in quella pericolante. Me ne accorgo ogni qual volta celebro la Messa o mi intrattengo tra la gente nelle parrocchie e negli oratori. “Al bombardamento tutto esplodeva intorno a me. Ed io – solo una scheggia sotto il naso. Dio c’è”. Quante storie di questo genere assicurano che non siamo lasciati da soli. Egli c’è.
Ecco, questo è il primo “dono” che mi sento di fare, dal pozzo della nostra fontana di villaggio. Dio c’è; in modo misterioso ma reale e sempre interrogante e consolante è presente. Nessuna situazione drammatica potrà convincerci che ci abbia abbandonato o abbia smesso di amarci.

2. Il dono di una quotidianità infranta e di un popolo in sofferenza

La nostra vita quotidiana, dall’oggi al domani, si è infranta al suono delle cannonate e i sibili dei missili. Intendo la quotidianità nella sua normalità di alzarsi col cielo rosso dell’alba o grigio della pioggia, il caldo della colazione profumata, il bacio prima di uscire per il lavoro o la scuola, il rientro serale, il pasto in comune, la notte sicura nel proprio letto e nella propria cameretta… e sogni come tutti i sogni di persone normali.
Da quell’oggi tutti i nostri domani sono cambiati, e l’oggi è diventato un incubo, una tensione costante, una totale insicurezza. Sono rimasti i pezzi, i frammenti della nostra vita usuale, come se si fosse disfatto un puzzle completato. Ma ci siamo resi conto che la guerra non può mettere “in pausa” la vita. Adesso ci tocca ricostruire il quotidiano, ritrovare un filo di senso. Il quotidiano è l’unico luogo dove può avvenire la non perdita del senso e la ricostruzione della speranza, la crescita nell’oggi, la promessa di un futuro. Non possiamo aspettare la fine, quando essa possa venire per la grazia di Dio (e l’impegno degli uomini). Nel quotidiano dobbiamo non sopravvivere ma vivere, e trovare ragioni e modi per dare senso e gusto alle cose. Il quotidiano è non far finta che non stia succedendo niente, ma vivere ogni momento con l’opportunità che ci offre: i rapporti familiari e di amicizia, gli incontri di comunità domenicali e in settimana, il gioco dei bambini, la scuola e lo studio, le azioni di carità. Certo, con gli occhi, le orecchie e le gambe ben pronte per affrontare il pericolo. In questo quotidiano di spazio (rare volte non di macerie) anche il tempo è prezioso, ogni momento è prezioso, ogni attimo è avvertito come dono di Dio, perché il prossimo attimo potrebbe non esserci.
Può essere questo un dono a voi, riscoprire e rivalutare il quotidiano nella sua bellezza e gratuità e meravigliosità? Come la natura a volte ci sa restituire (le piante, gli animali, l’acqua) con la sua resilienza?
Ma non intendo fare poesia a buon mercato. In questa faticosa quotidianità da ricostruire, da ritrovare, siamo un popolo che soffre. Possiamo offrire come dono anche questo? Si può offrire in dono la propria sofferenza? Penso di sì, come esperienza di condivisione umana e anche come esperienza di corpo mistico. La passione e morte di Cristo ha portato la conversione del cuore umano. Credo che il dolore disumano e ingiusto vissuto in questo tempo drammatico potrà convertire il cuore umano e ricostruirlo nella pace.
Penso che la ricostruzione dell’Ucraina partirà da questo impegno della pastorale giovanile: ridare luce alle coscienze, e forse ci aiuterà il vangelo della Beatitudini, quelle che invocano la pace e promettono il dono di Dio a chi ha sofferto per le ingiustizie.
Ho parlato della quotidianità come spazio e tempo (qui-ora) della concretezza della vita. Ma essa non è un contenitore vuoto. Questa quotidianità è abitata, da persone, da cose, da legami, anche da memorie. Essa presenta e pretende un nuovo modo di essere, dove la persona, il giovane riscoprono l’importanza dell’esserci, della relazione, dell’essenziale e del poco. Ho visto riscoprire questi valori (volevo dire la “spiritualità” di questi valori) che probabilmente altrove contano o valgono poco, ma qui sono la distanza tra vita e morte, tra pieno e vuoto, tra senso e insignificanza, tra luce e tenebre. Se dovessi lasciare solo un messaggio, lascerei questo, appunto perché è essenziale e vitale, ed è una cosa che nella sofferenza abbiamo riscoperto con maggior intensità, e la affidiamo anche come tesoro nostro a tutti gli amici.

Fés. Una buona novella

La nuova rubrica online su NPG, “Voci dalle periferie” racconta cosa significa fare pastorale giovanile in territori della periferia, dove i soggetti vivono altre esperienze: “Vogliamo non certo mettere a confronto i diversi modi di pensare e fare pastorale giovanile, ma almeno vedere come ci vedono gli altri; magari ci può aiutare a calibrare, a rovesciare gerarchie di attenzioni, e forse ad aprire gli occhi sul mondo. In questo ci aiuteranno alcuni amici che vivono “altrove”, in zone particolarmente difficili perché segnate da povertà o guerra. Insomma, per una pastorale giovanile più missionaria, essenziale, evangelica. Con riflessioni, lettere, storie, racconti di iniziative”. 

Fés. Una buona novella

Testimonianza di don Matteo Revelli, Parroco di Fès *

Le attività dell’anno pastorale sono iniziate, tanti studenti africani che l’anno scorso erano qui e formavano il nerbo della comunità, dedicandosi con tutto il cuore al servizio della nostra chiesa, sono partiti. Altri studenti sono arrivati – da circa 25 Paesi africani diversi – per iniziare i loro studi universitari a Fes. Così, ogni tre anni la nostra comunità cristiana cambia volto, persone, storie… Alcuni studenti scherzando dicono che il nostro lavoro pastorale assomiglia a una catena di montaggio: non bisogna perdere il ritmo, altrimenti tutto si inceppa… Mi trovo qui a Fes da 24 anni, appassionato del lavoro apostolico di qui, così le nostre attività mi paiono quasi ovvie e scontate…
Per « rinnovare il mio sguardo », ho pensato di affidarmi allo sguardo nuovo di italiani, che in questi giorni sono venuti in Marocco per servizio o turismo: uno sguardo attento a questa Chiesa, che vive semplice e discreta, ma si percepisce viva e dinamica…
Un gruppo di pellegrini di Montegrotto Terme, accompagnato da Don Roberto, mi scrive: « Il nostro viaggio è stato un vero e proprio pellegrinaggio. Davvero viaggiare apre occhi e cuore e mette in crisi pregiudizi così tanto radicati nella mente e nella società. Siamo stati affascinati da questa Chiesa del dialogo, della sua prossimità come il buon Samaritano, mettendo in pratica il Vangelo senza porre etichette. Ci siamo scoperti cristiani autosufficienti e autoreferenziali tanto da perdere il senso della Missione e del Regno di Dio, che non è fatto di numeri o di organizzazione. »
Anche un piccolo gruppo della Comunità « Papa Giovanni » è venuto a svolgere un’attività di animazione in un villaggio berbero di montagna. Li ho accolti per una notte. Mariaserena, la portavoce, mi scrive « Provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo, siamo partiti per una settimana di incontri, condivisione, fraternità nel cuore del Marocco.
In un piccolo villaggio tra le montagne dell’Atlante, tanti bambini e ragazzi aspettavano gioiosi la settimana della “colonie” per spezzare la routine del loro mondo. Dopo una settimana condivisa con le famiglie del villaggio berbero, sei parole ci risuonano: accoglienza, amicizia, gioia, semplicità, stupore e amore. Cioè è bello sperimentare il sentirsi accolti ancora prima di conoscersi, e la cura che queste persone hanno avuto per noi. Abbiamo sperimentato come l’amicizia sia un dono di Dio e come questa permetta di andare avanti. I bambini ci insegnavano a donare sorrisi e ad accogliere col cuore: questo genera gioia.
Gli uomini e le donne del villaggio vivono, poi, una vita molto semplice, fatta di cura della famiglia, della terra, degli animali, di preghiera e di vita comunitaria. I bambini vi crescono con una sensibilità al prossimo molto maggiore che in città. In fondo, non si può non rimanere sbalorditi dalle tante bellezze e novità che in ogni persona e in ogni cosa si possono trovare. Abbiamo sperimentato, insomma, il miracolo della fraternità: l’accogliere e il farsi accogliere.”
“La conoscenza di alcuni responsabili della catechesi e della Caritas della parrocchia di Fès – mi scrivono, invece, Luca e Claudio Margaria, due fratelli sacerdoti del Cuneese – hanno fatto apprezzare da un lato la capillarità della conoscenza delle persone e delle situazioni che vivono e, dall’altra, la mole di lavoro e di relazioni che, pur nel silenzio e nel nascondimento, vengono portate avanti alle volte con finanze inadeguate. Ci portiamo in cuore la testimonianza di una presenza cristiana che offre uno stimolo di profondità e di umiltà, nell’essere segni di Vangelo, soprattutto per chi è più fragile ».
Alla fine, tutti questi sguardi nuovi sulla nostra presenza cristiana, mi spingono a rinnovare il mio per portare avanti un’azione pastorale impegnata, efficace, ma leggera, senza il peso di grandi strutture. Una vera, buona Novella.

* Testimonianza raccolta da Renato Zilio, missionario in Marocco