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Respirare a due polmoni

Pubblichiamo l’editoriale di don Rossano Sala sull’ultimo numero di Note di Pastorale Giovanile.

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L’importanza dell’ascolto e i dinamismi del discernimento

Come abbiamo affermato nell’editoriale del numero precedente di NPG, seguiamo nel 2025 il filo rosso del cammino sinodale vissuto con i giovani dal 2016 al 2019 per riscoprirne i dinamismi e le prospettive, certi che in quei percorsi ci sono istanze da recepire per il rinnovamento della pastorale giovanile che attendono ancora di essere riscoperte e valorizzate.
Incominciamo mettendo a fuoco quelli che possiamo definire i due “polmoni” con cui abbiamo respirato per tutto il cammino fatto con e per i giovani: l’ascolto e il discernimento. Sono due disposizioni o posture che stanno una nell’altra: la prima è la condizione indispensabile per la seconda e la seconda è il frutto maturo e la destinazione naturale della prima.

La disciplina dell’ascolto

Anche oggi, se vogliamo fare una buona pastorale per e con i giovani, il punto di partenza rimane l’ascolto empatico della loro esistenza. Si sente nell’aria un grande bisogno di ascolto autentico.
Il Documento finale del Sinodo al n. 64 afferma che i giovani vanno considerati un “luogo teologico”. Che cosa significa? Che Dio – lo sappiamo – si esprime in molti modi, e non ultimo anche per mezzo della vita e della parola dei giovani di oggi. La loro esistenza è un “segno dei tempi”, perché essi sono un appello, un richiamo, e perfino una provocazione, che Dio rivolge alla Chiesa e al mondo. Attraverso i giovani Dio ci parla.
Perciò i giovani vanno quindi prima di tutto ascoltati. In un mondo adulto e in una Chiesa che nel suo insieme sembra essere in debito di ascolto questo non è facile, perché siamo abituati a parlare molto, un po’ meno a sentire, e poco ad ascoltare. Ascoltare è infatti più che sentire, ed è meglio che parlare. Significa essere aperti alla parola e all’esperienza degli altri, essere in grado di fare silenzio e spazio per ciò che mi vogliono comunicare, a partire dalle loro fatiche e sofferenze. Significa perfino avere il coraggio di “dare la parola” predisponendo un ambiente ricettivo e disponibile a lasciarsi anche trafiggere dalla parola viva dell’altro.
È scomodo e anche umiliante mettersi davvero in ascolto. È molto più facile sedersi al tavolo del confronto arrivando già con delle soluzioni preconfezionate o delle proposte già decise nella pastorale giovanile, perché pensate a monte rispetto all’ascolto dei giovani o ad un momento di confronto creativo. A volte si invitano i giovani a tavoli importanti, ma non sempre la disposizione nei loro confronti è aperta all’ascolto sincero del loro punto di vista.
C’è fatica ad ascoltare. E tale difficoltà ha una radice teologica. Nel senso che se non facciamo spazio nella nostra vita all’ascolto di Dio che continuamente parla e agisce nella storia, facendoci attenti alla sua parola nella meditazione quotidiana e a ciò che lo Spirito ci sta dicendo attraverso persone ed eventi, faremo fatica ad aprirci ai giovani. L’ascolto come esercizio spirituale ordinario va di pari passo con l’ascolto dei giovani: queste due realtà sono direttamente proporzionali.
L’ascolto ha bisogno di una disciplina specifica che non s’improvvisa, ma è frutto di un’esistenza aperta e disponibile. È un dinamismo che vince l’autoreferenzialità e fa diventare umili, disponibili ad imparare sempre di nuovo dalla vita e dal silenzio che lascia spazio agli altri e all’Altro. D’altra parte non si può essere discepoli del Signore senza l’assunzione di una disciplina che ci mette in ascolto attento della sua esistenza storica e della sua presenza attuale. In maniera sintetica, la parola del Sinodo sui giovani così affermava:

L’ascolto è un incontro di libertà, che richiede umiltà, pazienza, disponibilità a comprendere, impegno a elaborare in modo nuovo le risposte. L’ascolto trasforma il cuore di coloro che lo vivono, soprattutto quando ci si pone in un atteggiamento interiore di sintonia e docilità allo Spirito. Non è quindi solo una raccolta di informazioni, né una strategia per raggiungere un obiettivo, ma è la forma in cui Dio stesso si rapporta al suo popolo. Dio infatti vede la miseria del suo popolo e ne ascolta il lamento, si lascia toccare nell’intimo e scende per liberarlo (cfr. Es 3,7-8). La Chiesa quindi, attraverso l’ascolto, entra nel movimento di Dio che, nel Figlio, viene incontro a ogni essere umano (Documento finale, n. 6).

L’ascolto è il modo specifico in cui Dio si relazione con il suo popolo. E a noi, pastori dei giovani, è richiesto di assumere questa postura specifica nei confronti dei giovani che incontriamo in tutti gli ambienti. È il primo passo, necessario e insostituibile, per incominciare l’opera della pastorale giovanile. Senza tale ascolto la nostra opera è senza fondamenta, oppure ha fondamenta molto fragili.
Nell’Esortazione Apostolica postsinodale Christus vivit si parla dell’ascolto come disposizione fondamentale per una Chiesa che desidera essere significativa per le giovani generazioni. Al n. 65 si dice che, purtroppo,

i fedeli della Chiesa non sempre hanno l’atteggiamento di Gesù. Invece di disporci ad ascoltarli a fondo, “prevale talora la tendenza a fornire risposte preconfezionate e ricette pronte, senza lasciar emergere le domande giovanili nella loro novità e coglierne la provocazione”. D’altra parte, quando la Chiesa abbandona gli schemi rigidi e si apre ad un ascolto disponibile e attento dei giovani, questa empatia la arricchisce.

L’abito del discernimento

L’ascolto non è fine a se stesso, nel senso che è necessario, ma in sé insufficiente. L’ascolto è il passo iniziale per poter discernere. Il discernimento è il movimento successivo all’ascolto, nel senso che partendo dall’ascolto il discernimento è quella laboriosità personale e comunitaria guidata dallo Spirito del Signore che arriva a prendere delle decisioni pastorali adeguate alla situazione concreta.
Oggi il discernimento è sempre più essenziale, perché non è più possibile avere uno schema prestabilito da ripetere. Perché quando siamo in un’epoca di grandi cambiamenti – come la nostra – il discernimento diventa la modalità operativa ordinaria e permanente. Sempre la storia della Chiesa, se la osserviamo con attenzione, nei periodi di grande confusione e cambiamento è stata abitata da alcune minoranze creative in grado di discernere e inaugurare forme inedite di risposta ai problemi nuovi del proprio tempo.
La pratica del discernimento è quindi richiesta in forma imperativa dal “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo. Ecco alcune parole, tra le tante disponibili che circolano sul tema, che ne rendono chiara la sua estrema utilità in questo frangente storico:

La cultura dell’abbondanza a cui siamo sottoposti offre un orizzonte di tante possibilità, presentandole tutte come valide e buone. I nostri giovani sono esposti a uno zapping continuo. Possono navigare su due o tre schermi aperti contemporaneamente, possono interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Ci piaccia o no, è il mondo in cui sono inseriti ed è nostro dovere come pastori aiutarli ad attraversare questo mondo. Perciò ritengo che sia bene insegnare loro a discernere, perché abbiano gli strumenti e gli elementi che li aiutino a percorrere il cammino della vita senza che si estingua lo Spirito Santo che è in loro. In un mondo senza possibilità di scelta, o con meno possibilità, forse le cose sembrerebbero più chiare, non so. Ma oggi i nostri fedeli – e noi stessi – siamo esposti a questa realtà, e perciò sono convinto che come comunità ecclesiale dobbiamo incrementare l’habitus del discernimento. E questa è una sfida, e richiede la grazia del discernimento, per cercare di imparare ad avere l’abito del discernimento. Questa grazia, dai piccoli agli adulti, tutti (Cfr. Visita pastorale del Santo Padre Francesco a Milano, Incontro con i sacerdoti e con i consacrati, Duomo di Milano, 25 marzo 2017).

Siamo bombardati mediaticamente. Riceviamo stimoli molto superiori alle nostre capacità ricettive. Fatichiamo quindi ad orientarci per cogliere il bene. Rischiamo perciò una radicale incapacità di deciderci con cognizione di causa. Ecco perché imparare a discernere è sempre più determinante, se non vogliamo annegare nelle sabbie mobili del nostro tempo, che è più liquido che solido, più plurale che univoco, più oscuro che limpido, più frastagliato che lineare, più virtuale che virtuoso. Tanto ricco di opportunità da confonderci continuamente.
Il discernimento ci aiuta ad intuire ciò che viene da Dio e ciò che invece proviene dal Maligno, a chiarire le impercettibili differenze tra il bene e il male, ad approfondire la provenienza e la destinazione di ciò che ci si presenta davanti e infine di scegliere con coraggio ciò che si è riconosciuto vero, buono, bello, giusto e santo.
Si dice giustamente che il discernimento è chiamato a divenire un “abito”. Ovvero una modalità feriale di vivere, uno stile di Chiesa normale e perfino scontato, una metodologia operativa che ci fa procedere sicuri nel cammino. Quando si parla di “virtù” la teologia morale ne ha sempre parlato come di “abiti”, cioè di dinamismi presenti in forma permanente nella vita delle persone, capaci di interagire in tempo reale con le situazioni concrete in vista di decisioni e azioni buone.
Proprio così va pensato il discernimento. Un abito costruito con una regola precisa che sa tenersi aperta all’apporto di tutti, e che va declinato con alcuni verbi scanditi secondo un ordine preciso, che nel cammino di progettazione nella pastorale in genere e nella pastorale giovanile in particolare vanno presi davvero sul serio:
• Ascoltare con attenzione: è il primo passo, quello dell’apertura all’altro che arricchisce il punto di vista di tutti, perché è solo con l’apporto di ogni membro della comunità che essa si esprime in pienezza;
• Dialogare con rispetto: saper reagire con intelligenza critica alla parola udita, non tanto per biasimare ciò che non ci ha convinto, ma per sottolineare ciò che di buono si è udito;
• Confrontarci con apertura di spirito: mettere insieme le varie posizioni, cercando di far emergere il meglio ed eliminando il superfluo. Qui si tratta di qualificare il dialogo, facendo sintesi positiva;
• Progettare con lungimiranza: mettere insieme una serie di decisioni e di prospettive capace di fare forma ad un cammino fecondo per generare frutti di vita buona;
• Verificare con umiltà: essere in grado di rivedere ciò che si è fatto, sottolineando con realismo ciò che ha generato frutti positivi e ciò che invece non è andato a buon fine
• Rilanciare con entusiasmo: riproporre una prassi rinnovata dopo il laborioso percorso scandito dai cinque passaggi esposti sopra.
È evidente che se il discernimento diventa un habitus, questo vero e proprio “circolo virtuoso” è vissuto in forma perenne, cioè diventa uno stile normale di animazione di un gruppo di persone che guidano la pastorale giovanile in tutti i suoi cammini. Diventa perfino uno stile per la vita e la missione di ogni comunità cristiana.

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A partire dai dinamismi dell’ascolto e del discernimento emerge un invito chiaro per noi tutti, che ci viene dalla parola autorevole del Santo Padre: «Esorto le comunità a realizzare con rispetto e serietà un esame della propria realtà giovanile più vicina, per poter discernere i percorsi pastorali più adeguati» (Christus vivit, n. 103). È una spinta a mettersi in gioco a partire dall’ascolto della nostra realtà giovanile in vista di un discernimento pastorale appropriato e conveniente. Facciamolo con serietà e rispetto.

Il tempo e la speranza

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Maria Rattà

Il nuovo anno comincia sotto il segno di una donna: Maria, la Madre di Dio, la Madre degli uomini.
Ma del tempo diciamo che è esso è dono di Dio, e così l’anno che inizia è il regalo che ci concede il Padre per essere, ancora una volta, immersi nella storia in un moto di rinnovamento che viviamo alla luce dei cosiddetti “buoni propositi” con cui accogliamo, in fin dei conti, ogni fine che si riversa in un ricominciare. Sono le nostre aspettative personali e globali, che riflettono, nella loro profondità più intima, il nostro bisogno di trascendenza: ciò che abbiamo non è mai sufficiente, siamo sempre alla ricerca di altro, abbiamo costantemente necessità di guardare oltre, di respirare una felicità più grande, di cogliere obiettivi più elevati, di incontrare, in fin dei conti, la versione migliore di noi stessi.
La dimensione storica che attraversiamo non è soltanto un pugno di mesi in successione l’uno dopo l’altro, ma un cammino che cresce con noi e in cui noi stessi cresciamo, nella speranza di andare incontro agli altri e all’Altro, e che gli altri e l’Altro facciano altrettanto con noi.
Ogni nuovo anno è, insomma, una piccola Genesi, in cui desideriamo essere ricreati, per riprendere la nostra corsa con più slancio, lasciandoci alle spalle le cose che di quello precedente non ci sono piaciute, che ci hanno provocato sofferenza, ferite, traumi; ma anche conservando e migliorando le situazioni nuove, belle, entusiasmanti che abbiamo vissuto; portando con noi le persone che ci hanno offerto la loro vicinanza, la loro amicizia, il loro amore.
La fine che si riversa nell’inizio ha un po’ il sapore dell’innamoramento, in cui davvero sentiamo che tutte le cose si fanno sempre nuove, sempre “principio” di un oggi che diventa un domani più bello e pieno; la fine che si consuma nel principio ha sempre un po’ il gusto dell’amore che sboccia, in cui la speranza ha la parola più forte, e ci fa realmente credere che tutto sia possibile.
L’anno nuovo, come la vita e come l’amore, richiede allora un Padre e una Madre per essere veramente generativo, vitale, vivente. Qualcuno che non solo ci porti alla luce, ma che ci prenda anche per mano e ci accompagni, ci insegni ciò che ci serve e poi ci lasci liberi di andare con le nostre gambe.
L’anno nuovo, come la vita e come l’amore, necessita di un Padre e una Madre che rigenerino in noi la fiducia nella freschezza di nuove possibilità; che riaccendano in noi la capacità di scorgere grandi orizzonti anche quando tutto sembra cupo; che rianimino in noi il desiderio di rialzarci anche se siamo caduti.
Se Dio è il Dio della speranza, del tempo e della storia, allora ogni nuovo anno è, principalmente, un tempo di speranza: non c’è virtù umana per esercitare un qualche potere sul tempo – diceva papa Francesco nel 2013 – ma l’unica virtù per guardare al tempo è la speranza [1].
Nella speranza, proprio il tempo che apparentemente si riavvolge intorno al nastro di partenza non è semplicemente una fiaba, ma lo spazio di nuove, concrete possibilità: e laddove non si possono cambiare vicende e persone, allora, che nella speranza, possiamo almeno cambiare noi stessi, per avere sguardi, pensieri e cuore allenato. Per vivere meglio, più padroni di noi stessi, autonomi e forti come quel Padre e quella Madre che ci introducono in questo nuovo inizio per farci guardare dentro di noi e nelle nostre esistenze, e farci scoprire, proprio nella speranza, ricchezze che forse non sapevamo di possedere.
Questa è la vera speranza: essere consapevoli di non essere soli, e che ogni tassello che compone la nostra vita ha un senso, anche quando non si incastra secondo i nostri progetti umani, perché tutto procede verso Colui che raccoglie e armonizza in sé tutta la storia.
La nostra, insieme alla Sua.

Buon 2025 a tutti, buon Giubileo della speranza!

[1] Papa Francesco, Meditazione mattutina a Santa Marta, 25 novembre 2013.

L’azione educativa e pastorale della Chiesa

Dalla rubrica: I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale /3

di Luigi Amendolagine

(NPG 2024-07-52)

Pietre miliari per una riflessione profonda sull’essere cristiani, non solo per i giovani, sono: la fede, la vocazione, il discernimento e l’accompagnamento. Partendo dalle considerazioni che i giovani hanno condiviso, ci poniamo un interrogativo importante: quale azione educativa e pastorale la Chiesa deve mettere in campo, rimanendo allo stesso tempo coerente ai suoi insegnamenti e al passo della realtà in continua evoluzione?
I giovani desiderano un rinnovamento della Chiesa che possa renderla sempre più prossima, accogliente, umile, in uscita; una casa aperta e pronta ad accogliere tutti, indistintamente, capace e vogliosa di dialogare con tutti, che sia inclusiva e mai giudicante con la sua morale.
La prossimità è sicuramente l’aspetto maggiormente ambito dai giovani nell’azione educativa e pastorale della Chiesa che cammini con loro, anche a costo di uscire dai soliti registri. C’è la domanda di una Chiesa vicina e presente, che sappia rispettare la singolarità delle storie e delle ferite delle persone: “Ma io non esisto” – dice il ragazzo omosessuale quando parla della catechesi – . Come Cristo si è incarnato nel mondo, anche la Chiesa deve saper abitare i tempi ed esserci per i giovani, non solo per alcuni, ma per tutti.
I giovani auspicano che, oltre a farsi prossima, la Chiesa offra loro “spazio” inteso sia come luogo fisico sia come metafora del permettere ai giovani di essere più protagonisti all’interno della Chiesa. I giovani chiedono spazi concreti dove potersi incontrare, dove poter dialogare con gli adulti così da potersi sentire ascoltati, ma anche luoghi dove poter incontrare il “diverso”, inteso come chi la pensa diversamente dalla Chiesa o addirittura come chi non si sente proprio parte di essa. I giovani chiedono, inoltre, di essere considerati in quegli spazi decisionali dai quali troppo spesso, secondo il loro parere, sono esclusi o non sufficientemente valorizzati. A tal proposito propongono di rivedere la gestione della leadership all’interno della Chiesa, per esempio, circa il ruolo della donna.

Chiedono apertura, partecipazione, creatività, aggregazione, bellezza, valorizzazione delle idee giovanili mettendo da parte i tabù. Forte è nei giovani l’attesa di liturgie belle, creative, essenziali, vive, motivanti, che sappiano trasmettere gioia e calore, che raccontino il “mistero”, che sappiano emozionare. Dicono con franchezza che sono stanchi delle lunghe omelie, specie se lontane dai problemi della realtà e della quotidianità.
Ruolo importante e decisivo in un processo di rinnovamento dell’azione educativa e pastorale della Chiesa devono averlo sicuramente i laici. I giovani, infatti, rifiutano il clericalismo, con parrocchie che dipendono esclusivamente dalle peculiarità del parroco. Al contrario vorrebbero sacerdoti meno dediti alle questioni amministrative burocratiche e capaci di dare più tempo e spazio a chi ne ha bisogno di ascolto.

Lo stile della Chiesa cui i giovani aspirano è in sintesi quello di una Chiesa che racconti la bellezza della fede piuttosto che concentrarsi sui doveri morali. Una Chiesa materna e allo stesso tempo fraterna, perché sempre disponibile ad ascoltare. Una Chiesa “formato famiglia” che sappia chiedere e offrire perdono, che sappia sorridere sempre. Una Chiesa al passo coi tempi, tecnologica e presente sui social. Una Chiesa sincera, autentica, libera dai soliti schemi che la ingabbiano e la rendono vecchia e triste. Una Chiesa che proclami chiaramente Gesù Cristo, con un linguaggio fresco e attuale, comprensibile e attraente per i giovani. «Una Chiesa che raggiunga i giovani nella loro realtà evolvendosi e parlando il loro linguaggio; una Chiesa che risponda ai loro interrogativi e alle sfide del mondo (etica, ecologia, orientamento…). Una Chiesa che osa purificarsi dai propri arcaismi, che accetta il cambiamento, la novità, la diversità. Che sia aperta alle nuove iniziative, alla creatività, che sia accattivante. Che osi riconoscere i suoi limiti».
In questa richiesta di cambiamento avanzata dai giovani, questi sono consapevoli che loro stessi sono la Chiesa che si rinnova, i protagonisti di questa trasformazione. Sanno di poter dare un contributo innovativo e alternativo. Vorrebbero essere più corresponsabili, più protagonisti nelle liturgie e nella catechesi, impegnarsi nella missione evangelizzatrice della Chiesa attraverso l’arte, specialmente la musica. Si sentono portati soprattutto per l’educazione e la formazione dei loro coetanei, degli adolescenti, di chi si prepara a celebrare momenti importanti del proprio cammino di fede, come il sacramento della cresima.

Inoltre, non hanno paura nel denunciare che spesso, proprio nella Chiesa, i giovani non vengono incoraggiati ad assumersi delle responsabilità e che le loro potenzialità vengono trascurate e sottovalutate.
Essendo sensibili alle questioni di giustizia sociale, volentieri metterebbero a disposizione la loro freschezza e le loro energie per la pace, la salvaguardia del creato, il servizio ai più poveri e ai disabili, l’ascolto delle persone anziane e sole.
Emerge forte la volontà dei giovani di rendersi protagonisti anche nella società civile attraverso la partecipazione alla vita politica.
I giovani desiderano portare il lievito del Vangelo in tutti gli ambienti, anche in quelli che notoriamente sono facilmente invischiati in dinamiche di potere e di corruzione, per sensibilizzare al bene comune e agli altri principi della dottrina sociale della Chiesa.
Sport, oratorio, associazionismo, animazione, università, servizio civile, arte, mondo del lavoro, educazione sono gli ambiti in cui i giovani sentono di poter dare maggiormente il proprio contributo, facendo fruttare i loro talenti.

Non da ultima vi è la famiglia, primo luogo di missione e di evangelizzazione da non trascurare.
In tutto questo, i giovani non desiderano semplicemente “spazio”, come se volessero a tutti i costi soppiantare chi li precede, ma chiedono di essere accompagnati e non essere abbandonati attraverso un paradigma di reciprocità in cui “Non si tratta semplicemente di coinvolgere i giovani per aiutare la comunità ecclesiale, ma di chiedere cosa la comunità ecclesiale può fare per aiutarli”.Per intessere questo dialogo che mette in relazione Chiesa e giovani, la prima deve configurarsi come una “Chiesa in uscita” capace di evangelizzare non dal pulpito con monologhi, ma nei luoghi quotidiani, come la scuola, per cogliere convergenze di obiettivi e offrire opportunità formative integrate attraverso la via della bellezza. Inoltre non deve dimenticare chi è fuori dai percorsi formativi formali che merita di essere raggiunto attraverso il mondo digitale (internet, social network…) e il mondo del lavoro. La strada, i luoghi di divertimento, le attività sportive e ludico-aggregative, i luoghi di cultura, l’arte, la musica, i bar, i locali, le discoteche: sono tutti ambiti dove poter intessere relazioni semplici e significative.
Non vengono trascurati nemmeno i luoghi ecclesiali “ordinari” di incontro dei giovani: la parrocchia, l’oratorio, l’associazionismo cattolico, i movimenti spirituali. Qui si ribadisce il desiderio di permettere un maggior protagonismo dei giovani, responsabilizzandoli in servizi pastorali e dando loro spazi di dialogo
e confronto.

Nella sua azione educativa e pastorale tra gli strumenti che la Chiesa può e dovrebbe utilizzare in maniera efficace vi è il linguaggio semplice, concreto, diretto, coerente, chiaro, senza fronzoli, mai ambiguo, gioioso, per immagini, pratico, creativo, narrativo. Su tutto i giovani preferiscono la credibilità, cioè il linguaggio “del buon esempio”, della santità. Vogliono ascoltare la testimonianza coerente di chi è impegnato nell’annunciare il Vangelo con una vita gioiosa e fraterna. Sono consapevoli che loro stessi possono essere i primi evangelizzatori dei loro coetanei, perché capaci di comprenderli meglio e di raggiungerli con facilità. I gesti concreti, come le opere di misericordia, sono considerati un linguaggio diretto e fortemente comunicativo, mai scontato e sempre attuale e attraente. L’arte, nelle sue multiformi rappresentazioni, è considerata uno strumento comunicativo ricco, prezioso, accessibile e diretto. Per questo i giovani lo prediligono e chiedono alla Chiesa che siano promosse la letteratura, la musica, le belle arti.

I giovani sono fortemente convinti che la Chiesa debba essere più visibile attraverso i mezzi della comunicazione sociale: in particolar modo i social, ma anche la televisione e la radio.
Nonostante questa particolare predilezione continuano a considerare l’incontro personale come insostituibile.
Infine anche la liturgia, con il suo ricco simbolismo, è riconosciuta come una fonte di ricchezza tante volte inespressa perché sconosciuta, capace di comunicare con immediatezza il mistero della fede che le parole non riescono ad esprimere.

Concludendo con le parole di Papa Francesco nella Christus vivit, “la pastorale giovanile non può che essere sinodale”. Essa si concretizza in un andare insieme, consentendo ai giovani di essere partecipanti attivi del cammino; nell’ascoltare e discernere attentamente per dare risposte adeguate; nel “creare casa”, costruendo legami significativi; nel mettere in relazione le diverse generazioni. La pastorale, così delineata, risponde esattamente ai desideri dei giovani della Riunione presinodale.
Sulla base delle provocazioni offerte dai giovani, nel prossimo articolo proveremo ad immaginare la necessaria conversione ecclesiale che possa consentire alla Chiesa di essere autenticamente a servizio con e per i giovani.

Introduzione al Dossier “Mettiamo ordine nei nostri affetti”

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Quattro sguardi per accompagnare i giovani oggi

Rossano Sala

Di fronte alla riduzione del corpo a oggetto di esibizione e alla deriva ludica della sessualità, all’enorme confusione affettiva e alla mercificazione dei legami in atto – il tutto accentuato dalla digitalizzazione delle relazioni, che smaterializza e virtualizza ogni cosa – il Dossier che proponiamo cerca di mettere a fuoco l’originario senso degli affetti umani.
Difficile quindi non comprendere quanto sia strategico quello che ci viene offerto. Sappiamo che nella società della distrazione di massa diveniamo sempre più superficiali e quindi meno sensibili nella percezione dei sentimenti altrui[1]. Quelli che erano i cambiamenti moderni nella vita affettiva e sessuale[2] si sono ancora più rapidamente trasformati nel mondo contemporaneo e soprattutto in quello giovanile[3]. Tendenzialmente tutti siamo tentati da un uso commerciale, vetrinistico e intensivo del nostro corpo[4] e, ancora peggio, di aderire inconsciamente alla cultura dello scarto che si allarga a macchia d’olio[5]. L’esito non può che essere la fine della nostra capacità di desiderare e di amare come si deve[6].
La vita di tutti i giorni, purtroppo anche quella ecclesiale, è ricca di controtestimonianze dal punto di vista affettivo. Tanta immaturità relazionale abbonda e si aggira tra noi. Diventa decisivo domandarsi: come possiamo continuare a sentire, amare e pensare nell’era digitale? La rete, offrendoci molte possibilità, contemporaneamente rischia di toglierci, da una parte, quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigili e reattivi; dall’altra quella sensibilità affettiva e spirituale che rende l’uomo unico e inimitabile. Sono due grandi pericoli di cui essere profondamente consapevoli e a cui rispondere con intelligenza critica e responsabilità etica.
Per queste ragioni entriamo nel mondo degli affetti con competenza e maturità, attraverso quattro sguardi che ci aiuteranno ad orientare la nostra formazione personale e l’azione educativo-pastorale: il primo contestuale, il secondo biblico, il terzo antropologico e il quarto educativo-pastorale.
Fabio Pasqualetti, esperto del mondo della comunicazione, ci guiderà dentro il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, con uno sguardo specifico al mondo dei social media che tanto plasmano la vita affettiva dei giovani oggi.
Gianluca Zurra, teologo ed ecclesiologo, ci farà gustare attraverso alcuni assaggi il modo di sentire del Signore. Il suo sguardo sulla rivelazione ci aiuterà a cogliere l’ordine degli affetti di Gesù, uomo dal sentire divino che partecipa all’amorevolezza infinita del Padre suo.
Paolo Zini, filosofo, mostrerà come la trama e l’ordito dell’umano è affettivo e affettuoso. La centralità del cuore è un dato fondamentale per cogliere il senso dell’antropologia cristiana, che non è mai divisiva ma sempre unificata intorno all’amore e al desiderio di amare e di essere amati.
Gustavo Cavagnari, teologo pastoralista, ci aiuterà a educare i nostri affetti per poter accompagnare i giovani all’arte del vero amore. Non c’è infatti autentica educazione affettiva che non nasca dalla vita buona di coloro che sono chiamati ad educare.
Un’ultima nota “tecnica”, di certo non inutile. I contributi che seguono sono in piena continuità con un importante Dossier pubblicato nel numero di marzo 2022 (SIAMO CORPO. Dall’emergenza al discernimento), dove abbiamo cercato di indagare l’originario del corpo come dono e compito. Lì si era partiti dalla corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo e, passando dal legame tra mente e corpo, si è cercato di comprendere il significato del corpo. Arrivando infine al legame tra corpo e liturgia e al corpo come vocazione.

NOTE

[1] Cfr. L. Iotti, 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione, Il saggiatore, Milano 2020.
[2] Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 2008.
[3] Cfr. C.M. Scarcelli, Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet, Franco Angeli, Milano 2015.
[4] V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, facebook, apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano – Udine 2015; Id., Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale dei corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[5] S. Capecchi – E. Ruspini (ed.), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Franco Angeli, Milano 2009.
[6] M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, Mondadori, Milano 2012.

 

Campagna abbonamenti

Verso il Giubileo della Speranza

Dalla newsletter di Note di Pastorale Giovanile, l’editoriale di don Rossano Sala.

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I tempi sono maturi

Il 26 novembre 2023, nel messaggio per la 38a Giornata Mondiale della Gioventù papa Francesco concludeva il suo testo con queste parole: «Invito tutti voi, specialmente quanti sono coinvolti nella pastorale giovanile, a riprendere in mano il Documento Finale del 2018 e l’Esortazione apostolica Christus vivit. I tempi sono maturi per fare insieme il punto della situazione e adoperarci con speranza per la piena attuazione di quel Sinodo indimenticabile».
Tale riferimento diventerà per noi il filo rosso degli editoriali di NPG per il 2025, che si prefiggono di prendere sul serio questo invito del Santo Padre, riconoscendo che davvero adesso “i tempi sono maturi”. Perché l’interesse di non dimenticare quel felice e fecondo momento ecclesiale è più che strategico per noi che viviamo di pastorale giovanile. Anzi, sembra che dalle parole del successore di Pietro emerga il desiderio di recepire in pienezza un percorso che per tanti motivi non è stato ancora del tutto preso in carico da chi lo doveva fare. Vi è quindi la necessità di sviluppare le tante potenzialità ancora inespresse da quel Sinodo.
Vale la pena però, prima di rilanciare il metodo, lo stile e i contenuti del cammino sinodale che abbiamo vissuto con e per i giovani dall’ottobre 2016 al marzo del 2019, provare a vedere che cos’è successo alla pastorale giovanile in questi ultimi cinque anni, quelli che vanno dall’inizio del 2020 al termine del 2024, così da renderci conto perché è così importante ripartire con coraggio dall’evento sinodale dedicato ai giovani.

Un quinquennio molto turbolento

A tutti di certo sarà capitato di viaggiare in aereo ad alta quota e sentire la voce del pilota che invitava ad allacciare le cinture in quanto si stava entrando in una fase di “turbolenza”. Eravamo tranquilli, ci stavamo muovendo all’interno dell’aereo, stavamo facendo ciò che meglio pensavamo e abbiamo dovuto riprendere il nostro posto, allacciare le cinture, chiudere il tavolino e metterci in posizione di sicurezza per superare alcuni momenti di agitazione innaturale del velivolo.
Mi sembra una buona immagine per identificare il tempo immediatamente successivo alla conclusione del percorso sinodale con i giovani. Stavamo prendendo le misure e la rincorsa, cercando di comprendere che cosa il Signore avesse voluto dirci con tutto quel movimento innescato nella Chiesa intorno al mondo giovanile, e subito, a nemmeno un anno dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Christus vivit, è arrivata la pandemia in modo tanto inatteso quanto dirompente.
È stata a dire il vero molto più che una turbolenza, perché siamo letteralmente finiti nell’occhio di un ciclone per diversi anni. La pastorale in generale e quella dei giovani in particolare si sono fermate per molti mesi. Tutti ricordano, anche se oramai con una certa distanza e anche distacco, che cosa è successo a noi personalmente, al mondo nel suo insieme e alla vita ordinaria della Chiesa. Siamo entrati in un loop che ci ha in un certo senso risucchiati, paralizzati e frastornati. Da cui per certi aspetti non siamo usciti ancora del tutto.

Una recezione tutt’altro che semplice

Effettivamente a partire dal gennaio 2020 avevamo immaginato un movimento entusiasmante di ricezione, rilancio e potenziamento della pastorale giovanile, spinti dal vento in poppa di un cammino sinodale che aveva dato fiato alle fatiche dei primi anni del terzo millennio, ma che ci sembrava di avere superato.
Avevamo tutta la Chiesa con noi a sostenerci e accompagnarci. Un sinodo dedicato ai giovani è stato un unicum nella storia postconciliare, e non solo in quella storia. Avevamo documenti di qualità con indicazioni rilevanti e perfino profetiche: l’Instrumentum laboris, che faceva il punto della condizione giovanile e della pastorale giovanile, dandoci in mano un quadro di riferimento su scala mondiale che certamente andava poi contestualizzato in ogni territorio, ma che era una bussola assai precisa; avevamo il Documento finale, frutto dell’assemblea sinodale dell’ottobre 2018, ricco della freschezza e della passione di un momento di dialogo e confronto davvero ricco di proposte e stimolante da molti punti di vista; avevamo soprattutto la parola autorevole e propositiva di papa Francesco che aveva ripreso tutto il cammino fatto con l’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, rilanciandolo con originalità, audacia e profondità.
La pandemia ha bloccato praticamente questo cammino, dirottando tutte le nostre energie altrove. Prima di tutto sulla sopravvivenza, e poi nel cercare di immaginare come continuare a fare pastorale giovanile in un contesto così diverso da quello che avevamo fino ad allora vissuto. E la recezione del Sinodo sui giovani è stata messa sullo sfondo, almeno per quegli anni.

Vari tentativi di ripartenza

Il tempo post pandemico è stato vissuto portandosi dietro le ferite accumulate dal tempo della pandemia. Ferite nel corpo fisico e in quello sociale. Ferite affettive e relazionali. Ferite ecclesiali. Tutte cose che non si rimarginano presto e che lasciano il segno a lungo. Soprattutto il bagno di realtà sulla nostra fragilità ha colpito duro. Siamo vulnerabili, non siamo onnipotenti. Non dominiamo davvero il mondo. È bastato poco per metterci in ginocchio, per riscoprirci friabili e debilitati da molti punti di vista, incapaci di risollevarci. È stato un tempo di umiliazione, che purtroppo non sempre ci ha portato a ridiventare umili.
Anche la Chiesa ha preso coscienza della sua debolezza e vulnerabilità. La mancanza della celebrazione in presenza, perno dell’appartenenza e della partecipazione alla vita in Cristo, ha generato i suoi frutti amari: alcuni tentativi di scimmiottare banalmente ciò che non si poteva più vivere realmente ci hanno fatto vergognare, la lontananza dal contatto fisico ha reso il corpo ecclesiale disunito, nervoso e anche lacerato, la mancanza di una pastorale fatta di incontri in carne e ossa ha lasciato strascichi non indifferenti. Il primo è stato quello dell’ampia disaffezione della pratica liturgica seguita alla pandemia, ma il più importante è stato quello della presunta inessenzialità della Chiesa: si poteva vivere senza di essa, questo per molti è stato il punto. Si poteva vivere comunque, anche senza vivere con la Chiesa e nella Chiesa.
La ripartenza è stata dunque difficile. Non è ancora del tutto conclusa. Facciamo ancora fatica a mandare giù quello che abbiamo vissuto. Anche se alcuni segnali luminosi sono arrivati. Per esempio la Giornata Mondiale della Gioventù: al di là di molte aspettative non entusiasmanti da parte di vari attori ecclesiali e civili, è stato un momento in cui la Chiesa ha ripreso coscienza a livello universale che si può andare avanti con speranza, e che i giovani ci sono e ci stanno, che partecipano e appartengono. Che desiderano fare corpo, fare squadra, ed esserci come protagonisti del rinnovamento nella vita della Chiesa.

Siamo arrivati allo snodo del 2025

Ora, dopo questo quinquennio per lo meno “interessante” che ci ha messo alla prova e ci ha riservato molte sorprese, non ultime alcune guerre fino ad alcuni anni fa impensabili che non vedono per ora delle vie di uscita praticabili, siamo davanti al Giubileo della speranza. Si tratta di uno svincolo importante non solo rispetto agli ultimi cinque anni, ma anche rispetto ai 25 anni di inizio di questo agitato Terzo millennio dell’era cristiana.
Il Giubileo ha sempre significato, sia nella storia del popolo d’Israele che nella vita della Chiesa, un’opportunità di cambiare passo, di ripartire in modo nuovo. Un evento di grazia particolarmente abbondante che capovolge le nostre aspettative e offre nuova luce alle nostre prospettive. Un tempo di riconciliazione e di ripartenza, di rinnovato incontro con Dio e solidarietà tra gli uomini.
La stessa venuta del Signore Gesù e l’inizio della sua missione stanno non per nulla sotto il segno e nella luce del Giubileo, perché egli interpreta giustamente la sua presenza nella logica della proclamazione dell’anno di grazia del Signore:

Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,16-21).

Il Giubileo è una rinnovata occasione per ripartire dal Signore Gesù. Quindi è una grande opportunità da tutti i punti di vista. Non ultimo per la pastorale giovanile, che è chiamata a ripartire con speranza, sapendo che il Dio dell’alleanza è ancora disponibile ad entrare in contatto con l’umanità, con tutti i popoli e in particolare con i giovani, da sempre pupilla dei suoi occhi.
Ma di questo, ovvero dell’immensa grazia giubilare, ce ne occuperemo per tutto il 2025. Quindi andiamo avanti con coraggio, cercando di far tesoro di ciò che abbiamo vissuto negli anni scorsi e proiettandoci con speranza e gioia verso gli anni a venire. La Porta Santa, segno di Cristo che ci invita ad entrare in comunione con il Padre, ci aspetta per essere attraversata con fede da noi e da tutti i giovani con cui ci faremo pellegrini in questo anno di grazia.

Ceuta: mondi che si incontrano

Dalla rubrica Voci dalle periferie – Per una PG segnata dagli ultimi.

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di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

Fés. Una buona novella

La nuova rubrica online su NPG, “Voci dalle periferie” racconta cosa significa fare pastorale giovanile in territori della periferia, dove i soggetti vivono altre esperienze: “Vogliamo non certo mettere a confronto i diversi modi di pensare e fare pastorale giovanile, ma almeno vedere come ci vedono gli altri; magari ci può aiutare a calibrare, a rovesciare gerarchie di attenzioni, e forse ad aprire gli occhi sul mondo. In questo ci aiuteranno alcuni amici che vivono “altrove”, in zone particolarmente difficili perché segnate da povertà o guerra. Insomma, per una pastorale giovanile più missionaria, essenziale, evangelica. Con riflessioni, lettere, storie, racconti di iniziative”. 

Fés. Una buona novella

Testimonianza di don Matteo Revelli, Parroco di Fès *

Le attività dell’anno pastorale sono iniziate, tanti studenti africani che l’anno scorso erano qui e formavano il nerbo della comunità, dedicandosi con tutto il cuore al servizio della nostra chiesa, sono partiti. Altri studenti sono arrivati – da circa 25 Paesi africani diversi – per iniziare i loro studi universitari a Fes. Così, ogni tre anni la nostra comunità cristiana cambia volto, persone, storie… Alcuni studenti scherzando dicono che il nostro lavoro pastorale assomiglia a una catena di montaggio: non bisogna perdere il ritmo, altrimenti tutto si inceppa… Mi trovo qui a Fes da 24 anni, appassionato del lavoro apostolico di qui, così le nostre attività mi paiono quasi ovvie e scontate…
Per « rinnovare il mio sguardo », ho pensato di affidarmi allo sguardo nuovo di italiani, che in questi giorni sono venuti in Marocco per servizio o turismo: uno sguardo attento a questa Chiesa, che vive semplice e discreta, ma si percepisce viva e dinamica…
Un gruppo di pellegrini di Montegrotto Terme, accompagnato da Don Roberto, mi scrive: « Il nostro viaggio è stato un vero e proprio pellegrinaggio. Davvero viaggiare apre occhi e cuore e mette in crisi pregiudizi così tanto radicati nella mente e nella società. Siamo stati affascinati da questa Chiesa del dialogo, della sua prossimità come il buon Samaritano, mettendo in pratica il Vangelo senza porre etichette. Ci siamo scoperti cristiani autosufficienti e autoreferenziali tanto da perdere il senso della Missione e del Regno di Dio, che non è fatto di numeri o di organizzazione. »
Anche un piccolo gruppo della Comunità « Papa Giovanni » è venuto a svolgere un’attività di animazione in un villaggio berbero di montagna. Li ho accolti per una notte. Mariaserena, la portavoce, mi scrive « Provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo, siamo partiti per una settimana di incontri, condivisione, fraternità nel cuore del Marocco.
In un piccolo villaggio tra le montagne dell’Atlante, tanti bambini e ragazzi aspettavano gioiosi la settimana della “colonie” per spezzare la routine del loro mondo. Dopo una settimana condivisa con le famiglie del villaggio berbero, sei parole ci risuonano: accoglienza, amicizia, gioia, semplicità, stupore e amore. Cioè è bello sperimentare il sentirsi accolti ancora prima di conoscersi, e la cura che queste persone hanno avuto per noi. Abbiamo sperimentato come l’amicizia sia un dono di Dio e come questa permetta di andare avanti. I bambini ci insegnavano a donare sorrisi e ad accogliere col cuore: questo genera gioia.
Gli uomini e le donne del villaggio vivono, poi, una vita molto semplice, fatta di cura della famiglia, della terra, degli animali, di preghiera e di vita comunitaria. I bambini vi crescono con una sensibilità al prossimo molto maggiore che in città. In fondo, non si può non rimanere sbalorditi dalle tante bellezze e novità che in ogni persona e in ogni cosa si possono trovare. Abbiamo sperimentato, insomma, il miracolo della fraternità: l’accogliere e il farsi accogliere.”
“La conoscenza di alcuni responsabili della catechesi e della Caritas della parrocchia di Fès – mi scrivono, invece, Luca e Claudio Margaria, due fratelli sacerdoti del Cuneese – hanno fatto apprezzare da un lato la capillarità della conoscenza delle persone e delle situazioni che vivono e, dall’altra, la mole di lavoro e di relazioni che, pur nel silenzio e nel nascondimento, vengono portate avanti alle volte con finanze inadeguate. Ci portiamo in cuore la testimonianza di una presenza cristiana che offre uno stimolo di profondità e di umiltà, nell’essere segni di Vangelo, soprattutto per chi è più fragile ».
Alla fine, tutti questi sguardi nuovi sulla nostra presenza cristiana, mi spingono a rinnovare il mio per portare avanti un’azione pastorale impegnata, efficace, ma leggera, senza il peso di grandi strutture. Una vera, buona Novella.

* Testimonianza raccolta da Renato Zilio, missionario in Marocco

Domine, quo vadis? Una rilettura del Convegno

Da Note di Pastorale Giovanile, nuovo numero di settembre/ottobre.

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di don Riccardo Pincerato

“Domine, quo vadis?” Questa domanda è il filo rosso del XVIII Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile che si è svolto a Sacrofano dal 6 al 9 maggio. La prima tra le tante domande che hanno accompagnato i giorni del convegno. La prima e la fondamentale, una domanda che mette al centro il desiderio di voler incontrare il Signore nelle sfide della quotidianità. Accompagnare ed essere al fianco delle nuove generazioni oggi è una sfida; a volte nascono dubbi e incertezze e le provocazioni del mondo giovanile non lasciano indifferenti e possono a volte disorientare. Per questo non possiamo essere da soli di fronte alle tante sfide del mondo giovanile e della cultura contemporanea, siamo invitati ad uscire per cercare compagni di viaggio e, tra questi compagni, il primo resta il Signore Gesù: Via, Verità e Vita.
“Signore, dove vai?” è la domanda che troviamo al cuore del Vangelo di Giovanni (Gv 13,36) nel contesto dell’ultima cena, dopo che Gesù consegna ai discepoli il comandamento dell’amore: “vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi; così anche voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34).
Questa domanda esprime l’ansia e l’incomprensione dei discepoli di fronte all’annuncio di Gesù. Essi non comprendono ancora pienamente il significato del sacrificio che sta per compiere.
Gesù invita i discepoli e Pietro in primis a comprendere che il suo percorso è un atto di amore supremo, è un amore incondizionato, che richiede un tempo di preparazione e di crescita per essere compreso e seguito. La risposta di Gesù a Pietro apre a un doppio cammino: il cammino di Gesù verso la propria passione, morte e resurrezione, segno dell’amore indelebile ed eterno del Padre per l’umanità, e il cammino che anche Pietro dovrà fare se vorrà continuare ad essere discepolo del Signore. Pietro per seguire il Maestro dovrà accettare le proprie fragilità, le proprie infedeltà, le proprie miserie e dovrà accettare l’onnipotenza dell’amore di Dio che è l’unica in grado di ri-abilitarlo, di rimetterlo in cammino. Pietro dovrà accettare e riconoscere che la propria forza sta nella Grazia anticipata, donata e confermata dallo sguardo del Signore.
Alla fine del Vangelo di Giovanni il Maestro dirà a Pietro: “Vieni e seguimi”. “Segui-me” è l’appello che il Signore continua a fare a ciascuno di noi nella vita quotidiana e personale, nel nostro impegno a servizio delle nuove generazioni. Di fronte alle sfide, ai dubbi, alle perplessità, alla complessità del contesto attuale e del contesto giovanile non possiamo rispondere solo con le nostre forze. Non possiamo seguire solo le strategie o gli strumenti del mondo, che certo ci possono aiutare, che certo sostengono l’opera evangelizzatrice del nostro impegno, ma non sono questi l’obiettivo del nostro agire. Le strategie, i piani, i progetti restano e devono restare strumenti a servizio del giovane perché possa vivere libero, riconciliato e accompagnato; sono strumenti importantissimi nella misura in cui permettono al giovane di incontrare Cristo Risorto e quindi permettono al giovane di scoprire chi è, a chi appartiene e per chi la sua vita può essere un dono (Karl Rahner diceva: «Il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà»).
“Signore, dove vai?”, la domanda ancorata al cuore del Vangelo di Giovanni e inserita nei nostri cuori, resta aperta e attuale. Resta una domanda che ci può spostare e che ci può continuamente rimettere in gioco.
Durante il Convegno attraverso le riflessioni, gli incontri, i momenti di preghiera e le esperienze che abbiamo vissuto, abbiamo cercato di declinarla, di offrire alcuni tratti, alcune pennellate; abbiamo cercato di offrire alcune piste in cui possiamo intravvedere che lì il Signore ci sta attendendo e ci sta interpellando. Nel nostro cammino personale verso l’età adulta, nelle nuove tecnologie, nelle grandi esperienze internazionali, nelle relazioni delicate e da tutelare, nel cuore delle nostre città, nell’arte e nel servizio, nel dialogo e nel vissuto di altre religioni che sono nel territorio nazionale, in associazioni e movimenti che si mettono a servizio del cammino di crescita dei bambini nelle città con meno possibilità economiche e culturali, nel dialogo fraterno e sincero che si è instaurato nei momenti laboratoriali e nei momenti informali; è lì che desideriamo tenere aperta costantemente questa domanda, perché è lì, nella vita, che possiamo incontrare il Vivente.
Vi auguriamo che i testi del Convegno possano essere di aiuto e di sostegno per la vostra riflessione e per il vostro cammino.

NPG – Nuova rubrica: Il “vantaggio”

Pubblichiamo la presentazione della nuova rubrica NPG, Il “vantaggio”, a cura di Clara Pomoni (Condirettrice di “Ricerca. Nuova Serie di Azione Fucina”. Responsabile della Comunicazione FUCI) – Giancarlo De Nicolò (Redattore di “Note di pastorale giovanile”) – Emanuela Gitto (Vicepresidente Giovani di Azione Cattolica). 

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«Di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se ne è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni. Frequentare bene l’università vuol dire avere vent’anni di vantaggio. È la stessa ragione per cui saper leggere allunga la vita. Chi non legge ha solo la sua vita, che, vi assicuro, è pochissimo. Invece noi quando moriremo ci ricorderemo di aver attraversato il Rubicone con Cesare, di aver combattuto a Waterloo con Napoleone, di aver viaggiato con Gulliver e incontrato nani e giganti. Un piccolo compenso per la mancanza di immortalità» (Umberto Eco).

Tra i tantissimi corsi universitari, ce n’è qualcuno che oltre ad assegnare materiale da studiare dia anche spazio alla ragione per cui farlo? spazio di ricerca, costruzione e discussione dei motivi personali per cui dedicarsi a quella materia? che senso ha fare l’Università?
La stessa parola studium racchiude un significato ben più profondo dell’applicarsi in una disciplina – come se le conoscenze dovessero attaccarsi in testa come post-it. Esprime infatti un senso di cura, diligenza, impegno, uniti all’entusiasmo, alla passione e all’amore per il sapere, per ciò che si potrà così saper fare per e con gli altri.
Che tu sia studente, laureato, o curioso di fare un affondo nel mondo dell’Università, questi articoli saranno l’occasione per dare spazio e spunti a questa costruzione di senso, sia in modo diretto (scrivendo) che indiretto (leggendo le storie di altri). Chiunque vorrà potrà riflettere sull’esperienza vissuta o che stai vivendo, guardando alla disciplina che ha preso a cuore e chiedendosi: che cosa ho colto di questa disciplina? quali chiavi di lettura e strumenti per stare e agire nel mondo mi può dare? a che cosa potrebbe servire per il miglioramento della società?
Si troverà così a rileggere la propria storia personale in relazione all’impegno nello studio, con gli entusiasmi e le fatiche, gli incontri che hanno chiarito o hanno aiutato nel cammino, le scoperte entusiasmanti e il senso di un percorso in continua evoluzione. Si tratta di una grande ricchezza, spesso sommersa perché non illuminata da uno sforzo di consapevolezza, perché non trova posto tra le voci del libretto universitario o del curriculum vitae. Noi vogliamo darle attenzione perché crediamo che sia la struttura portante della formazione personale, senza la quale quella professionale si rivelerebbe un guscio vuoto. Lo studio ti ha fatto e ti fa crescere personalmente? come?
Ogni storia ha una trama, è tessuta di fili che con continuità attraversano i singoli episodi mostrandosi in modi differenti, evolvendo nelle forme, garantendo l’originalità, ovvero il collegamento con l’origine. L’esercizio di connettere le tappe della nostra storia presente e passata, riconoscendo ciò che più ci ha colpito – è stato significativo perché ha lasciato un segno – è un modo per imparare a scegliere nel futuro. È ascoltando ciò che risuona più vivamente in noi che distinguiamo i desideri profondi del nostro cuore e ci orientiamo a realizzare i sogni che vanno maturando in noi. Perché un ragazzo, una ragazza ha scelto di fare l’università, e questo percorso di studi? come si è evoluta la sua motivazione? quali progetti di vita li hanno spinti in questa direzione? quali elementi l’hanno confermata o disconfermata?
Guardando a distanza di tempo i moti del cuore che abbiamo sperimentato, scorgiamo oltre le emozioni che ci hanno attraversato e ci addentriamo nello spazio della volontà, dei valori, dei desideri. È la dimensione spirituale della persona, cioè della vita interiore, che accomuna credenti e non. Come la ricerca esistenziale ed intellettuale si intersecano? Chi vive o ha vissuto questo percorso di crescita in una dimensione di fede, poi, si pone ulteriori domande etiche, ontologiche, pragmatiche.
L’esperienza dello studio universitario, in qualunque ambito si collochi, è un’esperienza determinante per un giovane. Per la sua identità, per la sua maturazione, per la costruzione di una personale visione del mondo e del futuro, per la sua capacità di collocarsi relazionalmente, socialmente, culturalmente. Essa mette alla prova la capacità del giovane di attrezzarsi adeguatamente, di sperimentare atteggiamenti determinanti, come la programmazione realistica, la capacità di organizzarsi, di motivarsi, di vivere la fatica e l’impegno, l’incontro con i propri limiti, ma anche la gioia della scoperta, l’uso dell’immaginazione, l’accostamento al mistero. E la capacità di immaginare il futuro.
Tutto questo passa attraverso storie personali di vita, incontri-scontri con la realtà dello studio e dell’università, delle persone che ne fanno parte e delle esperienze in cui ci immergiamo, del contesto del piccolo e grande mondo in cui siamo immersi.
Alla luce di tutto ciò, questa rubrica nasce con l’intento di dare voce a questa ricchezza, celata nel percorso di formazione di ciascuno e troppo spesso nascosta all’ombra delle tappe ufficiali nell’università, che fatichiamo a riconoscere e valorizzare anche in prima persona.
Non si tratta infatti di fare uno studio sociologico o una raccolta di saggi dotti sul tema dei giovani, le loro prospettive, del futuro del lavoro ecc. Diversamente da quanto spesso accade, la rubrica è uno spazio pensato da giovani in cui i giovani stessi raccontano la propria prospettiva “dall’interno”. Un “interno” che significa sia senza uno sguardo adulto che si avvicina con una prospettiva diversa, sia con l’attenzione alla vita interiore di ciascuno, in prima persona.
Diamo spazio quindi ai racconti di come diversi giovani hanno vissuto questo periodo e di speranze/disillusioni, in cosa è mutato cammin facendo, e se e come è stata un’esperienza “di vita vera” (Etty Hillesum) [1].

NOTA

1 «Quando, in passato, sedevo alla mia scrivania, ero presa da irrequietezza al pensiero di perdermi qualcosa fuori, qualcosa della “vera” vita. E così non riuscivo mai a concentrarmi sui miei studi. E quando ero immersa nella “vita vera”, in mezzo alle persone, provavo sempre il desiderio disperato di tornare a quella scrivania e non ero affatto allegra insieme agli altri. Quella distinzione artificiale tra studio e “vita vera” adesso è scomparsa. Adesso “vivo” davvero dietro alla mia scrivania. Lo studio è diventato una “vera” esperienza di vita e non è più solo qualcosa che riguardi la mente. Alla mia scrivania io sono completamente immersa nella vita, e trasporto nella “vita vera” la tranquillità interiore e l’equilibrio che mi sono conquistata nell’intimo. Prima dovevo ogni volta ritirarmi dal mondo esterno, perché le molte impressioni mi confondevano e mi rendevano infelice. Dovevo rifugiarmi in una stanza silenziosa. Adesso quella “stanza silenziosa”, per dir così, la porto sempre con me, e mi ci posso ritirare a ogni istante, sia che mi trovi in un tram pieno di gente sia nel mezzo della confusione in città» (Etty Hillesum).

Terza Pagina – Le rubriche novità di Note di Pastorale Giovanile

Nel prossimo anno ci saranno nuove rubriche ad animare le pagine di Note di Pastorale Giovanile e invitare alla riflessione i lettori.

I sensi come vie di senso nella vita   – di Alessandra Augelli
In un’epoca in cui siamo continuamente stimolati da tanti artifici e in molteplici direzioni, rischiamo di perdere l’esercizio dei sensi, ovvero quel patrimonio basilare che ciascuna persona ha a disposizione per vivere in pieno la propria presenza nel mondo, le relazioni con gli altri e il rapporto con Dio. Come educatori consapevoli, per noi stessi e per gli altri, cercheremo di riflettere e riappropriarci di queste dimensioni per imparare a orientarci meglio nel mondo e riscoprire il senso della vita e di ciò che ci circonda.

Incontrare Gesù nel vangelo di Giovanni – di Guido Benzi
Papa Francesco nella sua esortazione apostolica rivolta ai giovani Christus vivit dice al n° 129: «Se riesci ad apprezzare con il cuore la bellezza di questo annuncio e a lasciarti incontrare dal Signore; se ti lasci amare e salvare da Lui; se entri in amicizia con Lui e cominci a conversare con Cristo vivo sulle cose concrete della tua vita, questa sarà la grande esperienza, sarà l’esperienza fondamentale che sosterrà la tua vita cristiana. Questa è anche l’esperienza che potrai comunicare ad altri giovani. Perché “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI)».
Desideriamo indagare, attraverso il Vangelo di Giovanni, cosa significa questo «incontro con Cristo», seguiremo dunque Gesù e analizzeremo il suo stile, il suo modo di incontrare diversi tipi di persone, mescolandoci tra di loro per poter così fare anche noi il «nostro» incontro con Lui.

Playlist generazioneZ  – di Salvatore Miscio
Una rubrica sui giovani e la loro musica: i cantanti e le canzoni dai quali si sentono capiti e raccontati, stimolati e incoraggiati. I singoli articoli saranno condivisi con i ragazzi stessi.

Noi crediamo: ereditare oggi la novità cristiana – di Gianluca Zurra
La rubrica intende rileggere i fondamenti della fede cristiana in rapporto alla sua risonanza esistenziale per le giovani generazioni. In occasione dei 1700 anni dal Credo di Nicea, se ne riprendono gli articoli, nella consapevolezza che il lavoro compiuto allora dai nostri padri non fu quello di ridurre l’esperienza credente al dogma, ma di custodirne il cuore pulsante perché fosse ereditabile nel tempo a venire.
Proprio la categoria di “eredità” può essere suggestiva per intendere la Tradizione in modo adeguato. Non si parte mai dal nulla, ma da ciò che ci è stato consegnato; tuttavia, se ne riprende il tesoro in modo inedito e creativo, perché il Vangelo continui ad essere nel corso della storia una lieta notizia per l’umanità. 

“Pellegrini con arte” Il Giubileo della speranza di Maria Rattà
Arte e speranza sono intimamente connesse fin dalle pagine bibliche, in un gioco in cui si intrecciano immagini e colori, dalla cordicella rossa grazie a cui Giosuè si salva nell’Antico Testamento fino all’ancora paolina e (volendo estendere il discorso in chiave prettamente cristologica) al legno verde della Croce fra le pagine del Nuovo.
Sembra quasi che la speranza non si possa comprendere senza uno sguardo “artistico”, capace di dipingere di armonica bellezza questa virtù teologale così importante per la vita spirituale del cristiano.
Ma accanto a questi temi strettamente legati alla speranza, anche altri ci permettono di affrontare “con arte” il cammino giubilare, spaziando su argomenti diversi, tutti legati al Giubileo, ma che ci consentono anche di allargare il nostro sguardo.
Ecco allora una prima progettazione delle grandi tematiche che affronteremo nel corso di questo anno, nell’usuale modalità: articolo nella Rivista e approfondimento artistico come pdf nella Newsletter.

Ragazzi e adulti pellegrini sulla terra. Un viaggio attraverso le grandi domande di senso  – di Raffaele Mantegazza e Christiano Nella
La rubrica propone una serie di articoli costruiti come dialoghi tra uno studente di 21 anni, Christiano Nella e un docente di 58 anni, Raffaele Mantegazza. I temi attorno ai quali graviteranno gli articoli sono alcune domande fondamentali che attraversano l’umanità non solo da oggi ma da secoli. La forma dialogica permette di confrontare idee e pensieri cercando di accerchiare i temi senza proporre verità definitive.