Respirare a due polmoni
Pubblichiamo l’editoriale di don Rossano Sala sull’ultimo numero di Note di Pastorale Giovanile.
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L’importanza dell’ascolto e i dinamismi del discernimento
Come abbiamo affermato nell’editoriale del numero precedente di NPG, seguiamo nel 2025 il filo rosso del cammino sinodale vissuto con i giovani dal 2016 al 2019 per riscoprirne i dinamismi e le prospettive, certi che in quei percorsi ci sono istanze da recepire per il rinnovamento della pastorale giovanile che attendono ancora di essere riscoperte e valorizzate.
Incominciamo mettendo a fuoco quelli che possiamo definire i due “polmoni” con cui abbiamo respirato per tutto il cammino fatto con e per i giovani: l’ascolto e il discernimento. Sono due disposizioni o posture che stanno una nell’altra: la prima è la condizione indispensabile per la seconda e la seconda è il frutto maturo e la destinazione naturale della prima.
La disciplina dell’ascolto
Anche oggi, se vogliamo fare una buona pastorale per e con i giovani, il punto di partenza rimane l’ascolto empatico della loro esistenza. Si sente nell’aria un grande bisogno di ascolto autentico.
Il Documento finale del Sinodo al n. 64 afferma che i giovani vanno considerati un “luogo teologico”. Che cosa significa? Che Dio – lo sappiamo – si esprime in molti modi, e non ultimo anche per mezzo della vita e della parola dei giovani di oggi. La loro esistenza è un “segno dei tempi”, perché essi sono un appello, un richiamo, e perfino una provocazione, che Dio rivolge alla Chiesa e al mondo. Attraverso i giovani Dio ci parla.
Perciò i giovani vanno quindi prima di tutto ascoltati. In un mondo adulto e in una Chiesa che nel suo insieme sembra essere in debito di ascolto questo non è facile, perché siamo abituati a parlare molto, un po’ meno a sentire, e poco ad ascoltare. Ascoltare è infatti più che sentire, ed è meglio che parlare. Significa essere aperti alla parola e all’esperienza degli altri, essere in grado di fare silenzio e spazio per ciò che mi vogliono comunicare, a partire dalle loro fatiche e sofferenze. Significa perfino avere il coraggio di “dare la parola” predisponendo un ambiente ricettivo e disponibile a lasciarsi anche trafiggere dalla parola viva dell’altro.
È scomodo e anche umiliante mettersi davvero in ascolto. È molto più facile sedersi al tavolo del confronto arrivando già con delle soluzioni preconfezionate o delle proposte già decise nella pastorale giovanile, perché pensate a monte rispetto all’ascolto dei giovani o ad un momento di confronto creativo. A volte si invitano i giovani a tavoli importanti, ma non sempre la disposizione nei loro confronti è aperta all’ascolto sincero del loro punto di vista.
C’è fatica ad ascoltare. E tale difficoltà ha una radice teologica. Nel senso che se non facciamo spazio nella nostra vita all’ascolto di Dio che continuamente parla e agisce nella storia, facendoci attenti alla sua parola nella meditazione quotidiana e a ciò che lo Spirito ci sta dicendo attraverso persone ed eventi, faremo fatica ad aprirci ai giovani. L’ascolto come esercizio spirituale ordinario va di pari passo con l’ascolto dei giovani: queste due realtà sono direttamente proporzionali.
L’ascolto ha bisogno di una disciplina specifica che non s’improvvisa, ma è frutto di un’esistenza aperta e disponibile. È un dinamismo che vince l’autoreferenzialità e fa diventare umili, disponibili ad imparare sempre di nuovo dalla vita e dal silenzio che lascia spazio agli altri e all’Altro. D’altra parte non si può essere discepoli del Signore senza l’assunzione di una disciplina che ci mette in ascolto attento della sua esistenza storica e della sua presenza attuale. In maniera sintetica, la parola del Sinodo sui giovani così affermava:
L’ascolto è un incontro di libertà, che richiede umiltà, pazienza, disponibilità a comprendere, impegno a elaborare in modo nuovo le risposte. L’ascolto trasforma il cuore di coloro che lo vivono, soprattutto quando ci si pone in un atteggiamento interiore di sintonia e docilità allo Spirito. Non è quindi solo una raccolta di informazioni, né una strategia per raggiungere un obiettivo, ma è la forma in cui Dio stesso si rapporta al suo popolo. Dio infatti vede la miseria del suo popolo e ne ascolta il lamento, si lascia toccare nell’intimo e scende per liberarlo (cfr. Es 3,7-8). La Chiesa quindi, attraverso l’ascolto, entra nel movimento di Dio che, nel Figlio, viene incontro a ogni essere umano (Documento finale, n. 6).
L’ascolto è il modo specifico in cui Dio si relazione con il suo popolo. E a noi, pastori dei giovani, è richiesto di assumere questa postura specifica nei confronti dei giovani che incontriamo in tutti gli ambienti. È il primo passo, necessario e insostituibile, per incominciare l’opera della pastorale giovanile. Senza tale ascolto la nostra opera è senza fondamenta, oppure ha fondamenta molto fragili.
Nell’Esortazione Apostolica postsinodale Christus vivit si parla dell’ascolto come disposizione fondamentale per una Chiesa che desidera essere significativa per le giovani generazioni. Al n. 65 si dice che, purtroppo,
i fedeli della Chiesa non sempre hanno l’atteggiamento di Gesù. Invece di disporci ad ascoltarli a fondo, “prevale talora la tendenza a fornire risposte preconfezionate e ricette pronte, senza lasciar emergere le domande giovanili nella loro novità e coglierne la provocazione”. D’altra parte, quando la Chiesa abbandona gli schemi rigidi e si apre ad un ascolto disponibile e attento dei giovani, questa empatia la arricchisce.
L’abito del discernimento
L’ascolto non è fine a se stesso, nel senso che è necessario, ma in sé insufficiente. L’ascolto è il passo iniziale per poter discernere. Il discernimento è il movimento successivo all’ascolto, nel senso che partendo dall’ascolto il discernimento è quella laboriosità personale e comunitaria guidata dallo Spirito del Signore che arriva a prendere delle decisioni pastorali adeguate alla situazione concreta.
Oggi il discernimento è sempre più essenziale, perché non è più possibile avere uno schema prestabilito da ripetere. Perché quando siamo in un’epoca di grandi cambiamenti – come la nostra – il discernimento diventa la modalità operativa ordinaria e permanente. Sempre la storia della Chiesa, se la osserviamo con attenzione, nei periodi di grande confusione e cambiamento è stata abitata da alcune minoranze creative in grado di discernere e inaugurare forme inedite di risposta ai problemi nuovi del proprio tempo.
La pratica del discernimento è quindi richiesta in forma imperativa dal “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo. Ecco alcune parole, tra le tante disponibili che circolano sul tema, che ne rendono chiara la sua estrema utilità in questo frangente storico:
La cultura dell’abbondanza a cui siamo sottoposti offre un orizzonte di tante possibilità, presentandole tutte come valide e buone. I nostri giovani sono esposti a uno zapping continuo. Possono navigare su due o tre schermi aperti contemporaneamente, possono interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Ci piaccia o no, è il mondo in cui sono inseriti ed è nostro dovere come pastori aiutarli ad attraversare questo mondo. Perciò ritengo che sia bene insegnare loro a discernere, perché abbiano gli strumenti e gli elementi che li aiutino a percorrere il cammino della vita senza che si estingua lo Spirito Santo che è in loro. In un mondo senza possibilità di scelta, o con meno possibilità, forse le cose sembrerebbero più chiare, non so. Ma oggi i nostri fedeli – e noi stessi – siamo esposti a questa realtà, e perciò sono convinto che come comunità ecclesiale dobbiamo incrementare l’habitus del discernimento. E questa è una sfida, e richiede la grazia del discernimento, per cercare di imparare ad avere l’abito del discernimento. Questa grazia, dai piccoli agli adulti, tutti (Cfr. Visita pastorale del Santo Padre Francesco a Milano, Incontro con i sacerdoti e con i consacrati, Duomo di Milano, 25 marzo 2017).
Siamo bombardati mediaticamente. Riceviamo stimoli molto superiori alle nostre capacità ricettive. Fatichiamo quindi ad orientarci per cogliere il bene. Rischiamo perciò una radicale incapacità di deciderci con cognizione di causa. Ecco perché imparare a discernere è sempre più determinante, se non vogliamo annegare nelle sabbie mobili del nostro tempo, che è più liquido che solido, più plurale che univoco, più oscuro che limpido, più frastagliato che lineare, più virtuale che virtuoso. Tanto ricco di opportunità da confonderci continuamente.
Il discernimento ci aiuta ad intuire ciò che viene da Dio e ciò che invece proviene dal Maligno, a chiarire le impercettibili differenze tra il bene e il male, ad approfondire la provenienza e la destinazione di ciò che ci si presenta davanti e infine di scegliere con coraggio ciò che si è riconosciuto vero, buono, bello, giusto e santo.
Si dice giustamente che il discernimento è chiamato a divenire un “abito”. Ovvero una modalità feriale di vivere, uno stile di Chiesa normale e perfino scontato, una metodologia operativa che ci fa procedere sicuri nel cammino. Quando si parla di “virtù” la teologia morale ne ha sempre parlato come di “abiti”, cioè di dinamismi presenti in forma permanente nella vita delle persone, capaci di interagire in tempo reale con le situazioni concrete in vista di decisioni e azioni buone.
Proprio così va pensato il discernimento. Un abito costruito con una regola precisa che sa tenersi aperta all’apporto di tutti, e che va declinato con alcuni verbi scanditi secondo un ordine preciso, che nel cammino di progettazione nella pastorale in genere e nella pastorale giovanile in particolare vanno presi davvero sul serio:
• Ascoltare con attenzione: è il primo passo, quello dell’apertura all’altro che arricchisce il punto di vista di tutti, perché è solo con l’apporto di ogni membro della comunità che essa si esprime in pienezza;
• Dialogare con rispetto: saper reagire con intelligenza critica alla parola udita, non tanto per biasimare ciò che non ci ha convinto, ma per sottolineare ciò che di buono si è udito;
• Confrontarci con apertura di spirito: mettere insieme le varie posizioni, cercando di far emergere il meglio ed eliminando il superfluo. Qui si tratta di qualificare il dialogo, facendo sintesi positiva;
• Progettare con lungimiranza: mettere insieme una serie di decisioni e di prospettive capace di fare forma ad un cammino fecondo per generare frutti di vita buona;
• Verificare con umiltà: essere in grado di rivedere ciò che si è fatto, sottolineando con realismo ciò che ha generato frutti positivi e ciò che invece non è andato a buon fine
• Rilanciare con entusiasmo: riproporre una prassi rinnovata dopo il laborioso percorso scandito dai cinque passaggi esposti sopra.
È evidente che se il discernimento diventa un habitus, questo vero e proprio “circolo virtuoso” è vissuto in forma perenne, cioè diventa uno stile normale di animazione di un gruppo di persone che guidano la pastorale giovanile in tutti i suoi cammini. Diventa perfino uno stile per la vita e la missione di ogni comunità cristiana.
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A partire dai dinamismi dell’ascolto e del discernimento emerge un invito chiaro per noi tutti, che ci viene dalla parola autorevole del Santo Padre: «Esorto le comunità a realizzare con rispetto e serietà un esame della propria realtà giovanile più vicina, per poter discernere i percorsi pastorali più adeguati» (Christus vivit, n. 103). È una spinta a mettersi in gioco a partire dall’ascolto della nostra realtà giovanile in vista di un discernimento pastorale appropriato e conveniente. Facciamolo con serietà e rispetto.