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Introduzione al Dossier “Mettiamo ordine nei nostri affetti”

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Quattro sguardi per accompagnare i giovani oggi

Rossano Sala

Di fronte alla riduzione del corpo a oggetto di esibizione e alla deriva ludica della sessualità, all’enorme confusione affettiva e alla mercificazione dei legami in atto – il tutto accentuato dalla digitalizzazione delle relazioni, che smaterializza e virtualizza ogni cosa – il Dossier che proponiamo cerca di mettere a fuoco l’originario senso degli affetti umani.
Difficile quindi non comprendere quanto sia strategico quello che ci viene offerto. Sappiamo che nella società della distrazione di massa diveniamo sempre più superficiali e quindi meno sensibili nella percezione dei sentimenti altrui[1]. Quelli che erano i cambiamenti moderni nella vita affettiva e sessuale[2] si sono ancora più rapidamente trasformati nel mondo contemporaneo e soprattutto in quello giovanile[3]. Tendenzialmente tutti siamo tentati da un uso commerciale, vetrinistico e intensivo del nostro corpo[4] e, ancora peggio, di aderire inconsciamente alla cultura dello scarto che si allarga a macchia d’olio[5]. L’esito non può che essere la fine della nostra capacità di desiderare e di amare come si deve[6].
La vita di tutti i giorni, purtroppo anche quella ecclesiale, è ricca di controtestimonianze dal punto di vista affettivo. Tanta immaturità relazionale abbonda e si aggira tra noi. Diventa decisivo domandarsi: come possiamo continuare a sentire, amare e pensare nell’era digitale? La rete, offrendoci molte possibilità, contemporaneamente rischia di toglierci, da una parte, quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigili e reattivi; dall’altra quella sensibilità affettiva e spirituale che rende l’uomo unico e inimitabile. Sono due grandi pericoli di cui essere profondamente consapevoli e a cui rispondere con intelligenza critica e responsabilità etica.
Per queste ragioni entriamo nel mondo degli affetti con competenza e maturità, attraverso quattro sguardi che ci aiuteranno ad orientare la nostra formazione personale e l’azione educativo-pastorale: il primo contestuale, il secondo biblico, il terzo antropologico e il quarto educativo-pastorale.
Fabio Pasqualetti, esperto del mondo della comunicazione, ci guiderà dentro il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, con uno sguardo specifico al mondo dei social media che tanto plasmano la vita affettiva dei giovani oggi.
Gianluca Zurra, teologo ed ecclesiologo, ci farà gustare attraverso alcuni assaggi il modo di sentire del Signore. Il suo sguardo sulla rivelazione ci aiuterà a cogliere l’ordine degli affetti di Gesù, uomo dal sentire divino che partecipa all’amorevolezza infinita del Padre suo.
Paolo Zini, filosofo, mostrerà come la trama e l’ordito dell’umano è affettivo e affettuoso. La centralità del cuore è un dato fondamentale per cogliere il senso dell’antropologia cristiana, che non è mai divisiva ma sempre unificata intorno all’amore e al desiderio di amare e di essere amati.
Gustavo Cavagnari, teologo pastoralista, ci aiuterà a educare i nostri affetti per poter accompagnare i giovani all’arte del vero amore. Non c’è infatti autentica educazione affettiva che non nasca dalla vita buona di coloro che sono chiamati ad educare.
Un’ultima nota “tecnica”, di certo non inutile. I contributi che seguono sono in piena continuità con un importante Dossier pubblicato nel numero di marzo 2022 (SIAMO CORPO. Dall’emergenza al discernimento), dove abbiamo cercato di indagare l’originario del corpo come dono e compito. Lì si era partiti dalla corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo e, passando dal legame tra mente e corpo, si è cercato di comprendere il significato del corpo. Arrivando infine al legame tra corpo e liturgia e al corpo come vocazione.

NOTE

[1] Cfr. L. Iotti, 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione, Il saggiatore, Milano 2020.
[2] Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 2008.
[3] Cfr. C.M. Scarcelli, Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet, Franco Angeli, Milano 2015.
[4] V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, facebook, apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano – Udine 2015; Id., Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale dei corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[5] S. Capecchi – E. Ruspini (ed.), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Franco Angeli, Milano 2009.
[6] M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, Mondadori, Milano 2012.

 

Verso il Giubileo della Speranza

Dalla newsletter di Note di Pastorale Giovanile, l’editoriale di don Rossano Sala.

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I tempi sono maturi

Il 26 novembre 2023, nel messaggio per la 38a Giornata Mondiale della Gioventù papa Francesco concludeva il suo testo con queste parole: «Invito tutti voi, specialmente quanti sono coinvolti nella pastorale giovanile, a riprendere in mano il Documento Finale del 2018 e l’Esortazione apostolica Christus vivit. I tempi sono maturi per fare insieme il punto della situazione e adoperarci con speranza per la piena attuazione di quel Sinodo indimenticabile».
Tale riferimento diventerà per noi il filo rosso degli editoriali di NPG per il 2025, che si prefiggono di prendere sul serio questo invito del Santo Padre, riconoscendo che davvero adesso “i tempi sono maturi”. Perché l’interesse di non dimenticare quel felice e fecondo momento ecclesiale è più che strategico per noi che viviamo di pastorale giovanile. Anzi, sembra che dalle parole del successore di Pietro emerga il desiderio di recepire in pienezza un percorso che per tanti motivi non è stato ancora del tutto preso in carico da chi lo doveva fare. Vi è quindi la necessità di sviluppare le tante potenzialità ancora inespresse da quel Sinodo.
Vale la pena però, prima di rilanciare il metodo, lo stile e i contenuti del cammino sinodale che abbiamo vissuto con e per i giovani dall’ottobre 2016 al marzo del 2019, provare a vedere che cos’è successo alla pastorale giovanile in questi ultimi cinque anni, quelli che vanno dall’inizio del 2020 al termine del 2024, così da renderci conto perché è così importante ripartire con coraggio dall’evento sinodale dedicato ai giovani.

Un quinquennio molto turbolento

A tutti di certo sarà capitato di viaggiare in aereo ad alta quota e sentire la voce del pilota che invitava ad allacciare le cinture in quanto si stava entrando in una fase di “turbolenza”. Eravamo tranquilli, ci stavamo muovendo all’interno dell’aereo, stavamo facendo ciò che meglio pensavamo e abbiamo dovuto riprendere il nostro posto, allacciare le cinture, chiudere il tavolino e metterci in posizione di sicurezza per superare alcuni momenti di agitazione innaturale del velivolo.
Mi sembra una buona immagine per identificare il tempo immediatamente successivo alla conclusione del percorso sinodale con i giovani. Stavamo prendendo le misure e la rincorsa, cercando di comprendere che cosa il Signore avesse voluto dirci con tutto quel movimento innescato nella Chiesa intorno al mondo giovanile, e subito, a nemmeno un anno dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Christus vivit, è arrivata la pandemia in modo tanto inatteso quanto dirompente.
È stata a dire il vero molto più che una turbolenza, perché siamo letteralmente finiti nell’occhio di un ciclone per diversi anni. La pastorale in generale e quella dei giovani in particolare si sono fermate per molti mesi. Tutti ricordano, anche se oramai con una certa distanza e anche distacco, che cosa è successo a noi personalmente, al mondo nel suo insieme e alla vita ordinaria della Chiesa. Siamo entrati in un loop che ci ha in un certo senso risucchiati, paralizzati e frastornati. Da cui per certi aspetti non siamo usciti ancora del tutto.

Una recezione tutt’altro che semplice

Effettivamente a partire dal gennaio 2020 avevamo immaginato un movimento entusiasmante di ricezione, rilancio e potenziamento della pastorale giovanile, spinti dal vento in poppa di un cammino sinodale che aveva dato fiato alle fatiche dei primi anni del terzo millennio, ma che ci sembrava di avere superato.
Avevamo tutta la Chiesa con noi a sostenerci e accompagnarci. Un sinodo dedicato ai giovani è stato un unicum nella storia postconciliare, e non solo in quella storia. Avevamo documenti di qualità con indicazioni rilevanti e perfino profetiche: l’Instrumentum laboris, che faceva il punto della condizione giovanile e della pastorale giovanile, dandoci in mano un quadro di riferimento su scala mondiale che certamente andava poi contestualizzato in ogni territorio, ma che era una bussola assai precisa; avevamo il Documento finale, frutto dell’assemblea sinodale dell’ottobre 2018, ricco della freschezza e della passione di un momento di dialogo e confronto davvero ricco di proposte e stimolante da molti punti di vista; avevamo soprattutto la parola autorevole e propositiva di papa Francesco che aveva ripreso tutto il cammino fatto con l’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, rilanciandolo con originalità, audacia e profondità.
La pandemia ha bloccato praticamente questo cammino, dirottando tutte le nostre energie altrove. Prima di tutto sulla sopravvivenza, e poi nel cercare di immaginare come continuare a fare pastorale giovanile in un contesto così diverso da quello che avevamo fino ad allora vissuto. E la recezione del Sinodo sui giovani è stata messa sullo sfondo, almeno per quegli anni.

Vari tentativi di ripartenza

Il tempo post pandemico è stato vissuto portandosi dietro le ferite accumulate dal tempo della pandemia. Ferite nel corpo fisico e in quello sociale. Ferite affettive e relazionali. Ferite ecclesiali. Tutte cose che non si rimarginano presto e che lasciano il segno a lungo. Soprattutto il bagno di realtà sulla nostra fragilità ha colpito duro. Siamo vulnerabili, non siamo onnipotenti. Non dominiamo davvero il mondo. È bastato poco per metterci in ginocchio, per riscoprirci friabili e debilitati da molti punti di vista, incapaci di risollevarci. È stato un tempo di umiliazione, che purtroppo non sempre ci ha portato a ridiventare umili.
Anche la Chiesa ha preso coscienza della sua debolezza e vulnerabilità. La mancanza della celebrazione in presenza, perno dell’appartenenza e della partecipazione alla vita in Cristo, ha generato i suoi frutti amari: alcuni tentativi di scimmiottare banalmente ciò che non si poteva più vivere realmente ci hanno fatto vergognare, la lontananza dal contatto fisico ha reso il corpo ecclesiale disunito, nervoso e anche lacerato, la mancanza di una pastorale fatta di incontri in carne e ossa ha lasciato strascichi non indifferenti. Il primo è stato quello dell’ampia disaffezione della pratica liturgica seguita alla pandemia, ma il più importante è stato quello della presunta inessenzialità della Chiesa: si poteva vivere senza di essa, questo per molti è stato il punto. Si poteva vivere comunque, anche senza vivere con la Chiesa e nella Chiesa.
La ripartenza è stata dunque difficile. Non è ancora del tutto conclusa. Facciamo ancora fatica a mandare giù quello che abbiamo vissuto. Anche se alcuni segnali luminosi sono arrivati. Per esempio la Giornata Mondiale della Gioventù: al di là di molte aspettative non entusiasmanti da parte di vari attori ecclesiali e civili, è stato un momento in cui la Chiesa ha ripreso coscienza a livello universale che si può andare avanti con speranza, e che i giovani ci sono e ci stanno, che partecipano e appartengono. Che desiderano fare corpo, fare squadra, ed esserci come protagonisti del rinnovamento nella vita della Chiesa.

Siamo arrivati allo snodo del 2025

Ora, dopo questo quinquennio per lo meno “interessante” che ci ha messo alla prova e ci ha riservato molte sorprese, non ultime alcune guerre fino ad alcuni anni fa impensabili che non vedono per ora delle vie di uscita praticabili, siamo davanti al Giubileo della speranza. Si tratta di uno svincolo importante non solo rispetto agli ultimi cinque anni, ma anche rispetto ai 25 anni di inizio di questo agitato Terzo millennio dell’era cristiana.
Il Giubileo ha sempre significato, sia nella storia del popolo d’Israele che nella vita della Chiesa, un’opportunità di cambiare passo, di ripartire in modo nuovo. Un evento di grazia particolarmente abbondante che capovolge le nostre aspettative e offre nuova luce alle nostre prospettive. Un tempo di riconciliazione e di ripartenza, di rinnovato incontro con Dio e solidarietà tra gli uomini.
La stessa venuta del Signore Gesù e l’inizio della sua missione stanno non per nulla sotto il segno e nella luce del Giubileo, perché egli interpreta giustamente la sua presenza nella logica della proclamazione dell’anno di grazia del Signore:

Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,16-21).

Il Giubileo è una rinnovata occasione per ripartire dal Signore Gesù. Quindi è una grande opportunità da tutti i punti di vista. Non ultimo per la pastorale giovanile, che è chiamata a ripartire con speranza, sapendo che il Dio dell’alleanza è ancora disponibile ad entrare in contatto con l’umanità, con tutti i popoli e in particolare con i giovani, da sempre pupilla dei suoi occhi.
Ma di questo, ovvero dell’immensa grazia giubilare, ce ne occuperemo per tutto il 2025. Quindi andiamo avanti con coraggio, cercando di far tesoro di ciò che abbiamo vissuto negli anni scorsi e proiettandoci con speranza e gioia verso gli anni a venire. La Porta Santa, segno di Cristo che ci invita ad entrare in comunione con il Padre, ci aspetta per essere attraversata con fede da noi e da tutti i giovani con cui ci faremo pellegrini in questo anno di grazia.

Ceuta: mondi che si incontrano

Dalla rubrica Voci dalle periferie – Per una PG segnata dagli ultimi.

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di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

Fés. Una buona novella

La nuova rubrica online su NPG, “Voci dalle periferie” racconta cosa significa fare pastorale giovanile in territori della periferia, dove i soggetti vivono altre esperienze: “Vogliamo non certo mettere a confronto i diversi modi di pensare e fare pastorale giovanile, ma almeno vedere come ci vedono gli altri; magari ci può aiutare a calibrare, a rovesciare gerarchie di attenzioni, e forse ad aprire gli occhi sul mondo. In questo ci aiuteranno alcuni amici che vivono “altrove”, in zone particolarmente difficili perché segnate da povertà o guerra. Insomma, per una pastorale giovanile più missionaria, essenziale, evangelica. Con riflessioni, lettere, storie, racconti di iniziative”. 

Fés. Una buona novella

Testimonianza di don Matteo Revelli, Parroco di Fès *

Le attività dell’anno pastorale sono iniziate, tanti studenti africani che l’anno scorso erano qui e formavano il nerbo della comunità, dedicandosi con tutto il cuore al servizio della nostra chiesa, sono partiti. Altri studenti sono arrivati – da circa 25 Paesi africani diversi – per iniziare i loro studi universitari a Fes. Così, ogni tre anni la nostra comunità cristiana cambia volto, persone, storie… Alcuni studenti scherzando dicono che il nostro lavoro pastorale assomiglia a una catena di montaggio: non bisogna perdere il ritmo, altrimenti tutto si inceppa… Mi trovo qui a Fes da 24 anni, appassionato del lavoro apostolico di qui, così le nostre attività mi paiono quasi ovvie e scontate…
Per « rinnovare il mio sguardo », ho pensato di affidarmi allo sguardo nuovo di italiani, che in questi giorni sono venuti in Marocco per servizio o turismo: uno sguardo attento a questa Chiesa, che vive semplice e discreta, ma si percepisce viva e dinamica…
Un gruppo di pellegrini di Montegrotto Terme, accompagnato da Don Roberto, mi scrive: « Il nostro viaggio è stato un vero e proprio pellegrinaggio. Davvero viaggiare apre occhi e cuore e mette in crisi pregiudizi così tanto radicati nella mente e nella società. Siamo stati affascinati da questa Chiesa del dialogo, della sua prossimità come il buon Samaritano, mettendo in pratica il Vangelo senza porre etichette. Ci siamo scoperti cristiani autosufficienti e autoreferenziali tanto da perdere il senso della Missione e del Regno di Dio, che non è fatto di numeri o di organizzazione. »
Anche un piccolo gruppo della Comunità « Papa Giovanni » è venuto a svolgere un’attività di animazione in un villaggio berbero di montagna. Li ho accolti per una notte. Mariaserena, la portavoce, mi scrive « Provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo, siamo partiti per una settimana di incontri, condivisione, fraternità nel cuore del Marocco.
In un piccolo villaggio tra le montagne dell’Atlante, tanti bambini e ragazzi aspettavano gioiosi la settimana della “colonie” per spezzare la routine del loro mondo. Dopo una settimana condivisa con le famiglie del villaggio berbero, sei parole ci risuonano: accoglienza, amicizia, gioia, semplicità, stupore e amore. Cioè è bello sperimentare il sentirsi accolti ancora prima di conoscersi, e la cura che queste persone hanno avuto per noi. Abbiamo sperimentato come l’amicizia sia un dono di Dio e come questa permetta di andare avanti. I bambini ci insegnavano a donare sorrisi e ad accogliere col cuore: questo genera gioia.
Gli uomini e le donne del villaggio vivono, poi, una vita molto semplice, fatta di cura della famiglia, della terra, degli animali, di preghiera e di vita comunitaria. I bambini vi crescono con una sensibilità al prossimo molto maggiore che in città. In fondo, non si può non rimanere sbalorditi dalle tante bellezze e novità che in ogni persona e in ogni cosa si possono trovare. Abbiamo sperimentato, insomma, il miracolo della fraternità: l’accogliere e il farsi accogliere.”
“La conoscenza di alcuni responsabili della catechesi e della Caritas della parrocchia di Fès – mi scrivono, invece, Luca e Claudio Margaria, due fratelli sacerdoti del Cuneese – hanno fatto apprezzare da un lato la capillarità della conoscenza delle persone e delle situazioni che vivono e, dall’altra, la mole di lavoro e di relazioni che, pur nel silenzio e nel nascondimento, vengono portate avanti alle volte con finanze inadeguate. Ci portiamo in cuore la testimonianza di una presenza cristiana che offre uno stimolo di profondità e di umiltà, nell’essere segni di Vangelo, soprattutto per chi è più fragile ».
Alla fine, tutti questi sguardi nuovi sulla nostra presenza cristiana, mi spingono a rinnovare il mio per portare avanti un’azione pastorale impegnata, efficace, ma leggera, senza il peso di grandi strutture. Una vera, buona Novella.

* Testimonianza raccolta da Renato Zilio, missionario in Marocco

Domine, quo vadis? Una rilettura del Convegno

Da Note di Pastorale Giovanile, nuovo numero di settembre/ottobre.

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di don Riccardo Pincerato

“Domine, quo vadis?” Questa domanda è il filo rosso del XVIII Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile che si è svolto a Sacrofano dal 6 al 9 maggio. La prima tra le tante domande che hanno accompagnato i giorni del convegno. La prima e la fondamentale, una domanda che mette al centro il desiderio di voler incontrare il Signore nelle sfide della quotidianità. Accompagnare ed essere al fianco delle nuove generazioni oggi è una sfida; a volte nascono dubbi e incertezze e le provocazioni del mondo giovanile non lasciano indifferenti e possono a volte disorientare. Per questo non possiamo essere da soli di fronte alle tante sfide del mondo giovanile e della cultura contemporanea, siamo invitati ad uscire per cercare compagni di viaggio e, tra questi compagni, il primo resta il Signore Gesù: Via, Verità e Vita.
“Signore, dove vai?” è la domanda che troviamo al cuore del Vangelo di Giovanni (Gv 13,36) nel contesto dell’ultima cena, dopo che Gesù consegna ai discepoli il comandamento dell’amore: “vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi; così anche voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34).
Questa domanda esprime l’ansia e l’incomprensione dei discepoli di fronte all’annuncio di Gesù. Essi non comprendono ancora pienamente il significato del sacrificio che sta per compiere.
Gesù invita i discepoli e Pietro in primis a comprendere che il suo percorso è un atto di amore supremo, è un amore incondizionato, che richiede un tempo di preparazione e di crescita per essere compreso e seguito. La risposta di Gesù a Pietro apre a un doppio cammino: il cammino di Gesù verso la propria passione, morte e resurrezione, segno dell’amore indelebile ed eterno del Padre per l’umanità, e il cammino che anche Pietro dovrà fare se vorrà continuare ad essere discepolo del Signore. Pietro per seguire il Maestro dovrà accettare le proprie fragilità, le proprie infedeltà, le proprie miserie e dovrà accettare l’onnipotenza dell’amore di Dio che è l’unica in grado di ri-abilitarlo, di rimetterlo in cammino. Pietro dovrà accettare e riconoscere che la propria forza sta nella Grazia anticipata, donata e confermata dallo sguardo del Signore.
Alla fine del Vangelo di Giovanni il Maestro dirà a Pietro: “Vieni e seguimi”. “Segui-me” è l’appello che il Signore continua a fare a ciascuno di noi nella vita quotidiana e personale, nel nostro impegno a servizio delle nuove generazioni. Di fronte alle sfide, ai dubbi, alle perplessità, alla complessità del contesto attuale e del contesto giovanile non possiamo rispondere solo con le nostre forze. Non possiamo seguire solo le strategie o gli strumenti del mondo, che certo ci possono aiutare, che certo sostengono l’opera evangelizzatrice del nostro impegno, ma non sono questi l’obiettivo del nostro agire. Le strategie, i piani, i progetti restano e devono restare strumenti a servizio del giovane perché possa vivere libero, riconciliato e accompagnato; sono strumenti importantissimi nella misura in cui permettono al giovane di incontrare Cristo Risorto e quindi permettono al giovane di scoprire chi è, a chi appartiene e per chi la sua vita può essere un dono (Karl Rahner diceva: «Il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà»).
“Signore, dove vai?”, la domanda ancorata al cuore del Vangelo di Giovanni e inserita nei nostri cuori, resta aperta e attuale. Resta una domanda che ci può spostare e che ci può continuamente rimettere in gioco.
Durante il Convegno attraverso le riflessioni, gli incontri, i momenti di preghiera e le esperienze che abbiamo vissuto, abbiamo cercato di declinarla, di offrire alcuni tratti, alcune pennellate; abbiamo cercato di offrire alcune piste in cui possiamo intravvedere che lì il Signore ci sta attendendo e ci sta interpellando. Nel nostro cammino personale verso l’età adulta, nelle nuove tecnologie, nelle grandi esperienze internazionali, nelle relazioni delicate e da tutelare, nel cuore delle nostre città, nell’arte e nel servizio, nel dialogo e nel vissuto di altre religioni che sono nel territorio nazionale, in associazioni e movimenti che si mettono a servizio del cammino di crescita dei bambini nelle città con meno possibilità economiche e culturali, nel dialogo fraterno e sincero che si è instaurato nei momenti laboratoriali e nei momenti informali; è lì che desideriamo tenere aperta costantemente questa domanda, perché è lì, nella vita, che possiamo incontrare il Vivente.
Vi auguriamo che i testi del Convegno possano essere di aiuto e di sostegno per la vostra riflessione e per il vostro cammino.

NPG – Nuova rubrica: Il “vantaggio”

Pubblichiamo la presentazione della nuova rubrica NPG, Il “vantaggio”, a cura di Clara Pomoni (Condirettrice di “Ricerca. Nuova Serie di Azione Fucina”. Responsabile della Comunicazione FUCI) – Giancarlo De Nicolò (Redattore di “Note di pastorale giovanile”) – Emanuela Gitto (Vicepresidente Giovani di Azione Cattolica). 

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«Di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se ne è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni. Frequentare bene l’università vuol dire avere vent’anni di vantaggio. È la stessa ragione per cui saper leggere allunga la vita. Chi non legge ha solo la sua vita, che, vi assicuro, è pochissimo. Invece noi quando moriremo ci ricorderemo di aver attraversato il Rubicone con Cesare, di aver combattuto a Waterloo con Napoleone, di aver viaggiato con Gulliver e incontrato nani e giganti. Un piccolo compenso per la mancanza di immortalità» (Umberto Eco).

Tra i tantissimi corsi universitari, ce n’è qualcuno che oltre ad assegnare materiale da studiare dia anche spazio alla ragione per cui farlo? spazio di ricerca, costruzione e discussione dei motivi personali per cui dedicarsi a quella materia? che senso ha fare l’Università?
La stessa parola studium racchiude un significato ben più profondo dell’applicarsi in una disciplina – come se le conoscenze dovessero attaccarsi in testa come post-it. Esprime infatti un senso di cura, diligenza, impegno, uniti all’entusiasmo, alla passione e all’amore per il sapere, per ciò che si potrà così saper fare per e con gli altri.
Che tu sia studente, laureato, o curioso di fare un affondo nel mondo dell’Università, questi articoli saranno l’occasione per dare spazio e spunti a questa costruzione di senso, sia in modo diretto (scrivendo) che indiretto (leggendo le storie di altri). Chiunque vorrà potrà riflettere sull’esperienza vissuta o che stai vivendo, guardando alla disciplina che ha preso a cuore e chiedendosi: che cosa ho colto di questa disciplina? quali chiavi di lettura e strumenti per stare e agire nel mondo mi può dare? a che cosa potrebbe servire per il miglioramento della società?
Si troverà così a rileggere la propria storia personale in relazione all’impegno nello studio, con gli entusiasmi e le fatiche, gli incontri che hanno chiarito o hanno aiutato nel cammino, le scoperte entusiasmanti e il senso di un percorso in continua evoluzione. Si tratta di una grande ricchezza, spesso sommersa perché non illuminata da uno sforzo di consapevolezza, perché non trova posto tra le voci del libretto universitario o del curriculum vitae. Noi vogliamo darle attenzione perché crediamo che sia la struttura portante della formazione personale, senza la quale quella professionale si rivelerebbe un guscio vuoto. Lo studio ti ha fatto e ti fa crescere personalmente? come?
Ogni storia ha una trama, è tessuta di fili che con continuità attraversano i singoli episodi mostrandosi in modi differenti, evolvendo nelle forme, garantendo l’originalità, ovvero il collegamento con l’origine. L’esercizio di connettere le tappe della nostra storia presente e passata, riconoscendo ciò che più ci ha colpito – è stato significativo perché ha lasciato un segno – è un modo per imparare a scegliere nel futuro. È ascoltando ciò che risuona più vivamente in noi che distinguiamo i desideri profondi del nostro cuore e ci orientiamo a realizzare i sogni che vanno maturando in noi. Perché un ragazzo, una ragazza ha scelto di fare l’università, e questo percorso di studi? come si è evoluta la sua motivazione? quali progetti di vita li hanno spinti in questa direzione? quali elementi l’hanno confermata o disconfermata?
Guardando a distanza di tempo i moti del cuore che abbiamo sperimentato, scorgiamo oltre le emozioni che ci hanno attraversato e ci addentriamo nello spazio della volontà, dei valori, dei desideri. È la dimensione spirituale della persona, cioè della vita interiore, che accomuna credenti e non. Come la ricerca esistenziale ed intellettuale si intersecano? Chi vive o ha vissuto questo percorso di crescita in una dimensione di fede, poi, si pone ulteriori domande etiche, ontologiche, pragmatiche.
L’esperienza dello studio universitario, in qualunque ambito si collochi, è un’esperienza determinante per un giovane. Per la sua identità, per la sua maturazione, per la costruzione di una personale visione del mondo e del futuro, per la sua capacità di collocarsi relazionalmente, socialmente, culturalmente. Essa mette alla prova la capacità del giovane di attrezzarsi adeguatamente, di sperimentare atteggiamenti determinanti, come la programmazione realistica, la capacità di organizzarsi, di motivarsi, di vivere la fatica e l’impegno, l’incontro con i propri limiti, ma anche la gioia della scoperta, l’uso dell’immaginazione, l’accostamento al mistero. E la capacità di immaginare il futuro.
Tutto questo passa attraverso storie personali di vita, incontri-scontri con la realtà dello studio e dell’università, delle persone che ne fanno parte e delle esperienze in cui ci immergiamo, del contesto del piccolo e grande mondo in cui siamo immersi.
Alla luce di tutto ciò, questa rubrica nasce con l’intento di dare voce a questa ricchezza, celata nel percorso di formazione di ciascuno e troppo spesso nascosta all’ombra delle tappe ufficiali nell’università, che fatichiamo a riconoscere e valorizzare anche in prima persona.
Non si tratta infatti di fare uno studio sociologico o una raccolta di saggi dotti sul tema dei giovani, le loro prospettive, del futuro del lavoro ecc. Diversamente da quanto spesso accade, la rubrica è uno spazio pensato da giovani in cui i giovani stessi raccontano la propria prospettiva “dall’interno”. Un “interno” che significa sia senza uno sguardo adulto che si avvicina con una prospettiva diversa, sia con l’attenzione alla vita interiore di ciascuno, in prima persona.
Diamo spazio quindi ai racconti di come diversi giovani hanno vissuto questo periodo e di speranze/disillusioni, in cosa è mutato cammin facendo, e se e come è stata un’esperienza “di vita vera” (Etty Hillesum) [1].

NOTA

1 «Quando, in passato, sedevo alla mia scrivania, ero presa da irrequietezza al pensiero di perdermi qualcosa fuori, qualcosa della “vera” vita. E così non riuscivo mai a concentrarmi sui miei studi. E quando ero immersa nella “vita vera”, in mezzo alle persone, provavo sempre il desiderio disperato di tornare a quella scrivania e non ero affatto allegra insieme agli altri. Quella distinzione artificiale tra studio e “vita vera” adesso è scomparsa. Adesso “vivo” davvero dietro alla mia scrivania. Lo studio è diventato una “vera” esperienza di vita e non è più solo qualcosa che riguardi la mente. Alla mia scrivania io sono completamente immersa nella vita, e trasporto nella “vita vera” la tranquillità interiore e l’equilibrio che mi sono conquistata nell’intimo. Prima dovevo ogni volta ritirarmi dal mondo esterno, perché le molte impressioni mi confondevano e mi rendevano infelice. Dovevo rifugiarmi in una stanza silenziosa. Adesso quella “stanza silenziosa”, per dir così, la porto sempre con me, e mi ci posso ritirare a ogni istante, sia che mi trovi in un tram pieno di gente sia nel mezzo della confusione in città» (Etty Hillesum).

Terza Pagina – Le rubriche novità di Note di Pastorale Giovanile

Nel prossimo anno ci saranno nuove rubriche ad animare le pagine di Note di Pastorale Giovanile e invitare alla riflessione i lettori.

I sensi come vie di senso nella vita   – di Alessandra Augelli
In un’epoca in cui siamo continuamente stimolati da tanti artifici e in molteplici direzioni, rischiamo di perdere l’esercizio dei sensi, ovvero quel patrimonio basilare che ciascuna persona ha a disposizione per vivere in pieno la propria presenza nel mondo, le relazioni con gli altri e il rapporto con Dio. Come educatori consapevoli, per noi stessi e per gli altri, cercheremo di riflettere e riappropriarci di queste dimensioni per imparare a orientarci meglio nel mondo e riscoprire il senso della vita e di ciò che ci circonda.

Incontrare Gesù nel vangelo di Giovanni – di Guido Benzi
Papa Francesco nella sua esortazione apostolica rivolta ai giovani Christus vivit dice al n° 129: «Se riesci ad apprezzare con il cuore la bellezza di questo annuncio e a lasciarti incontrare dal Signore; se ti lasci amare e salvare da Lui; se entri in amicizia con Lui e cominci a conversare con Cristo vivo sulle cose concrete della tua vita, questa sarà la grande esperienza, sarà l’esperienza fondamentale che sosterrà la tua vita cristiana. Questa è anche l’esperienza che potrai comunicare ad altri giovani. Perché “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI)».
Desideriamo indagare, attraverso il Vangelo di Giovanni, cosa significa questo «incontro con Cristo», seguiremo dunque Gesù e analizzeremo il suo stile, il suo modo di incontrare diversi tipi di persone, mescolandoci tra di loro per poter così fare anche noi il «nostro» incontro con Lui.

Playlist generazioneZ  – di Salvatore Miscio
Una rubrica sui giovani e la loro musica: i cantanti e le canzoni dai quali si sentono capiti e raccontati, stimolati e incoraggiati. I singoli articoli saranno condivisi con i ragazzi stessi.

Noi crediamo: ereditare oggi la novità cristiana – di Gianluca Zurra
La rubrica intende rileggere i fondamenti della fede cristiana in rapporto alla sua risonanza esistenziale per le giovani generazioni. In occasione dei 1700 anni dal Credo di Nicea, se ne riprendono gli articoli, nella consapevolezza che il lavoro compiuto allora dai nostri padri non fu quello di ridurre l’esperienza credente al dogma, ma di custodirne il cuore pulsante perché fosse ereditabile nel tempo a venire.
Proprio la categoria di “eredità” può essere suggestiva per intendere la Tradizione in modo adeguato. Non si parte mai dal nulla, ma da ciò che ci è stato consegnato; tuttavia, se ne riprende il tesoro in modo inedito e creativo, perché il Vangelo continui ad essere nel corso della storia una lieta notizia per l’umanità. 

“Pellegrini con arte” Il Giubileo della speranza di Maria Rattà
Arte e speranza sono intimamente connesse fin dalle pagine bibliche, in un gioco in cui si intrecciano immagini e colori, dalla cordicella rossa grazie a cui Giosuè si salva nell’Antico Testamento fino all’ancora paolina e (volendo estendere il discorso in chiave prettamente cristologica) al legno verde della Croce fra le pagine del Nuovo.
Sembra quasi che la speranza non si possa comprendere senza uno sguardo “artistico”, capace di dipingere di armonica bellezza questa virtù teologale così importante per la vita spirituale del cristiano.
Ma accanto a questi temi strettamente legati alla speranza, anche altri ci permettono di affrontare “con arte” il cammino giubilare, spaziando su argomenti diversi, tutti legati al Giubileo, ma che ci consentono anche di allargare il nostro sguardo.
Ecco allora una prima progettazione delle grandi tematiche che affronteremo nel corso di questo anno, nell’usuale modalità: articolo nella Rivista e approfondimento artistico come pdf nella Newsletter.

Ragazzi e adulti pellegrini sulla terra. Un viaggio attraverso le grandi domande di senso  – di Raffaele Mantegazza e Christiano Nella
La rubrica propone una serie di articoli costruiti come dialoghi tra uno studente di 21 anni, Christiano Nella e un docente di 58 anni, Raffaele Mantegazza. I temi attorno ai quali graviteranno gli articoli sono alcune domande fondamentali che attraversano l’umanità non solo da oggi ma da secoli. La forma dialogica permette di confrontare idee e pensieri cercando di accerchiare i temi senza proporre verità definitive.

 

 

 

Cosa si prova a trovare una “casa” in Spagna

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, rubrica “Storie di volontari”.

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di Mariarosaria Marrone (28 anni, di origini campane. Ha studiato lingue e letterature straniere per la cooperazione internazionale e sognava da tanto un’opportunità che le permettesse di immergersi nella lingua e nella cultura di cui tanto aveva letto nei libri. Si reputa una ragazza affidabile e seria, e dichiara che i pilastri fondamentali della sua educazione sono sempre stati il rispetto e l’empatia verso il prossimo. Educare le future generazioni e contribuire alla loro formazione è la sua più grande aspirazione). 

Sarà forse una banalità dire che quella che si è vissuto o si sta vivendo è l’esperienza più bella, ecc. Ma non posso farci niente: per me è proprio così, e allora lo ridico chiaro e tondo: quella che racconterò è stata l’esperienza più bella e formativa che abbia fatto fino ad ora.

Da settembre 2023 sto svolgendo il servizio civile a Utrera, vicino a Siviglia. Del fatto che avrei voluto aderire ad un progetto con i Salesiani non ho mai avuto dubbi, dal primo momento che ho visto il loro nome nell’elenco delle associazioni partecipanti. I Salesiani e tutto ciò che li circonda sono un ambiente positivo, serio, genuino e con tanta voglia di fare. Dal mio punto di vista posso affermare che, dopo un anno vivendo a contatto con questa realtà, quelle che all’inizio erano impressioni si sono rivelate essere una verità e un dato di fatto. Mi sono trovata davvero bene, non mi sono mai sentita abbandonata dall’Ente e dal mio OLP e ho potuto vedere e vivere parte delle numerose iniziative svolte dai Salesiani qui a Utrera, cosa che ha confermato che questo ambiente è molto vivo e stimolante. Inoltre, la scuola salesiana di Utrera è la più antica (salesianamente parlando) di tutta la Spagna ed è una struttura enorme e bellissima, con tantissimo spazio e infrastrutture dedicate agli studenti. Prima di mandare la mia candidatura per Utrera ci ho riflettuto qualche giorno, dato che viene data la possibilità di candidarsi per tantissime città della Spagna e del mondo. Il servizio civile, purtroppo, si può svolgere solo per un anno e la scelta del luogo in cui ci si trasferirà è estremamente importante. Il cuore mi ha indicato questa città, senza una ragione ben precisa. L’anno 2023/2024 è stato il primo anno in cui anche la sede di Utrera ha iniziato ad accogliere volontari italiani, e io sono stata la prima volontaria a mettere piede in questa città.

La mia scelta si è rivelata essere più che giusta perché ad Utrera ho trovato una famiglia, persone amorevoli, pronte ad aiutarmi in qualsiasi difficoltà, una cittadina stupenda, tranquilla e con tutte le comodità. A due passi dall’aeroporto (cosa non scontata) e a due passi da Siviglia, famosa per essere la città più bella e autentica della Spagna. Accoglienza, cibo, clima e persone sono solo alcuni dei tanti motivi per il quale venire qui (o nei dintorni) non potrà mai essere una scelta sbagliata. L’Andalusia, con i suoi bar di tapas e con la loro meravigliosa maniera di parlare vi ruberà il cuore. Sulla lingua c’è da fare un piccolo appunto: l’andaluz non è esattamente la classica lingua castellana a cui siamo abituati, quella che ci viene fatta ascoltare nelle scuole durante le ore del listening. L’andaluso ha un fascino tutto suo e che io, personalmente, amo. Sarà che io sono originaria di Napoli e cresciuta in un ambiente in cui, oltre all’italiano, ho sempre ascoltato anche il napoletano, che il resto degli italiani fa fatica a comprendere, sarà che riesco bene a comprendere il sentimento che si vive in Andalusia, un po’ derisa dal resto della Spagna per i classici stereotipi che, ancora nel 2024, dividono nord e sud (gli stessi che viviamo in Italia), ma il fatto che qui si parli una lingua diversa dal classico castellano è stato un motivo in più per ritenermi contenta della mia scelta. Non è stato un problema abituare il mio orecchio, già allenato grazie al fatto che la lingua e la letteratura spagnola sono, da sempre, un mio interesse e che il mio obiettivo è quello di diventare una docente di lingue straniere oltre che un’educatrice (non bisogna mai dimenticare che ogni docente è prima di tutto un educatore).

Dopo questa personale introduzione ci tengo a parlare di quella che è l’esperienza a contatto con i ragazzi. Dal primo incontro con i destinatari ho cercato di conquistare la loro fiducia, e inizialmente credevo di non riuscirci ma, contro ogni aspettativa, fin da subito mi hanno aperto il loro cuore e, inevitabilmente, io gli ho aperto il mio. Il mio progetto prevede dare sostegno e aiuto a bambini e adolescenti con situazioni familiari non rosee. Il mio OLP è il direttore del progetto, è stato lui a volere fortemente la presenza di volontari italiani ed è grazie a lui se da quest’anno tanti altri ragazzi italiani potranno avere la fortuna di vivere quest’esperienza. Fin da subito mi ha spiegato molto bene quelli che sarebbero stati i miei compiti, senza mai lasciarmi sola. Da settembre a giugno i ragazzi di un quartiere di Utrera possono varcare la soglia del progetto e trovare un ambiente positivo, pronto a sostenerli e stimolarli quotidianamente. Sono molto fortunati perché ogni anno si trovano sempre tanti nuovi volontari pronti ad aiutarli nei loro compiti che, spesso, sono docenti veri e propri che dedicano il loro tempo libero per aiutare i ragazzi che vanno al progetto per studiare. Come ho già detto, questo è il primo anno che il Proyecto Oberti di Utrera ha accolto i volontari dall’Italia, però il progetto va avanti da molti anni grazie alla presenza di cittadini con un buon cuore e animati dalla voglia di aiutare il prossimo a cambio della soddisfazione di aver aiutato un ragazzino o una ragazzina a raggiungere un suo personale traguardo. Io mi sono occupata di lezioni di inglese, spagnolo e francese e posso ritenermi soddisfatta dei miglioramenti fatti dai ragazzi. Inoltre, ogni giorno ideavo un’attività di gruppo per sviluppare l’empatia e per formarli ad essere cittadini rispettosi del prossimo e della comunità in cui vivono. La bellezza del progetto sta nel fatto che non si limita ad essere solo un luogo di sostegno scolastico, al contrario si tratta di un’iniziativa che coinvolge loro e le loro famiglie a 360 gradi: non sono state rare le volte in cui abbiamo fatto attività extra come portarli a mangiare i churros, al cinema, in escursione, abbiamo festeggiato i compleanni dei ragazzi, li abbiamo portati a messa, a mangiare la pizza, abbiamo raccolto fondi per comprargli regali di Natale, gli abbiamo fornito materiale scolastico, vestiti, ecc. Loro sanno che possono contare su di noi per qualsiasi cosa e che tra quelle mura troveranno il sostegno di cui hanno bisogno. Li sproniamo quotidianamente ad intraprendere un cammino che li possa portare a un futuro migliore del presente che stanno vivendo, dato che stanno crescendo in un ambiente che, per forza di cose, li porta a crescere prima del previsto. Molti di loro sono frutto di un processo di immigrazione delle loro famiglie; in effetti il progetto accoglie famiglie di nazionalità spagnola, marocchina, rumena e sudamericana. Uno dei valori principali che cerchiamo di trasmettere ai nostri ragazzi è quello dell’uguaglianza: non devono, per nessun motivo, sottostare ad alcuna forma di discriminazione e, al tempo stesso, vogliamo che loro siano i primi ad evitare ogni forma di razzismo nei confronti di qualsiasi nazionalità. Devo ammettere che sono molto bravi in questo, perché si comportano come una grande famiglia e si sostengono a vicenda. In quest’anno ho avuto modo di relazionarmi con molteplici vicissitudini, perché ogni ragazzino/a ha una storia e quando esce da quella porta deve fare i conti con la propria battaglia, anche se non entrerò nei dettagli di ognuno di loro.

Li ringrazierò per sempre perché il mondo dell’immigrazione l’avevo affrontato solo sui libri universitari, e grazie a loro mi sono immersa in una realtà che non pensavo avrei mai conosciuto e che ho scoperto appassionarmi particolarmente. Sapere di essere stata utile a qualcuno, sapere che un ragazzino/a stia aspettando il pomeriggio per venirmi a parlare di un qualcosa che lo turba, sapere di aver fatto colpo nei loro cuori è motivo di grande soddisfazione per me. Perché non si tratta solo di averli aiutati a superare l’anno scolastico, bensì di essere stata una spalla per loro, una persona con la quale si sono sfogati e in cui hanno trovato ascolto e comprensione. Ogni giorno ci ritagliamo un’ora di tempo in cui ci sono sempre tanti bei momenti di confronto. A luglio organizzeremo una escuela de verano, una bellissima iniziativa per non abbandonarli neanche d’estate, faremo ripasso scolastico e tante attività. Sport, giochi di squadra e attività educative saranno il nostro pane quotidiano per tutta l’estate. Ogni venerdì li porteremo in piscina e, infine, andremo con loro una settimana in un camping dove avranno modo di stare insieme e passare tanti momenti indimenticabili. Sarò sempre grata ai miei ragazzi e a questo meraviglioso progetto per avermi regalato momenti molto formativi e avermi dato la conferma che il mondo dei ragazzi è quello a cui voglio dedicare la mia vita. I Salesiani sanno essere casa e sono diventati la mia.

Il pensiero sportivo di p. Didon nel “discorso di Le Havre”

da Note di Pastorale Giovanile.

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di Angela Teja

Il discorso pronunciato da p. Henri Didon (1840-1900)[1] a Le Havre nel 1897 è tra quelli che meglio rappresentano il celebre Domenicano, inventore del motto olimpico Citius, altius, fortius, come paladino del nascente Olimpismo. In esso infatti egli affrontò il tema dell’influenza morale degli sport atletici, uno degli argomenti portanti del suo metodo pedagogico ma che si sarebbe mostrato anche un percorso impegnativo per il nascente Movimento olimpico. Pronunciato il 29 luglio 1897, dunque nell’anno successivo alla prima edizione dei Giochi olimpici, la sua prima pubblicazione è della fine di quell’anno[2]. Presidente del Congresso di Le Havre fu lo stesso Coubertin, che ne aveva predisposto il programma in tre momenti (pedagogia, igiene e sport), in presenza di pochi stranieri e con prevalentemente un pubblico locale[3].
Coubertin stesso introdusse p. Didon in apertura della quarta giornata congressuale annunciando l’argomento che avrebbe trattato nella sua lectio per mostrarne i tratti non solo pedagogici e psicologici ma anche spirituali. Il titolo dell’intervento del Domenicano era piuttosto lungo: «Dell’azione morale degli esercizi fisici sul fanciullo, sull’adolescente e dell’influenza dello sforzo sulla formazione del carattere e lo sviluppo della personalità». Coubertin aveva autorizzato quel titolo e quell’ampia tematica da trattare perché sapeva di potersi fidare dell’aiuto di p. Didon, con la speranza di meglio indirizzare il nascente Movimento olimpico, che sembrava invece subire già deviazioni e tentennamenti rispetto alle intenzioni del suo Ideatore.
P. Didon per la prima volta si trovò a fare riferimenti precisi ed esclusivi agli «esercizi fisici en plein air», come amava chiamare gli sport, o meglio agli «esercizi atletici», altra denominazione che preferì utilizzare rispetto al termine inglese di fronte a un pubblico di esperti, medici e pedagogisti in prevalenza francesi. Egli sapeva bene che il tema che avrebbe trattato sarebbe stato interessante per tutti i presenti, genitori, politici, insegnanti, «tutti quelli che [avevano] a cuore l’avvenire del paese».[4] Per illustrarlo egli si servì di alcuni argomenti relativi ai risultati che gli esercizi en plein air  riuscivano a produrre, operando una costante “cucitura” tra il mondo della corporeità e quello morale, sapendo che così sarebbe stato utile a Coubertin e alle sue finalità: la pace tra i popoli e l’internazionalismo, grazie al rafforzamento delle giovani generazioni da ogni punto di vista, sia fisico che morale. Pierre de Coubertin voleva infatti recuperare gli aspetti storici, filosofici e intellettuali alla base del nuovo Movimento che apparivano già trascurati nei quindici mesi appena trascorsi dalla prima edizione dei Giochi e forse già assenti da essi dove sembrava esserci stata solo «la tecnica vestita da storia»[5].

L’esercizio fisico, virtù psico-morale

P. Didon a Le Havre si mostrò più spontaneo del solito e, se vogliamo, anche un po’ istrionesco nei modi, forse perché voleva rendere chiare e appetibili le sue convinzioni riguardo allo sport, in modo che tutti capissero e ne approvassero anche gli aspetti più profondi. Servendosi di argomenti concreti, egli iniziò citando i tre vantaggi di una pratica sportiva costante, che egli chiamò “virtù”: chiamò «morale» il primo vantaggio, la componente materiale e più consistente degli esercizi, quindi «psico-morale» il secondo che si manifestava nello spirito di lotta e di competizione, e infine la terza, la virtù della forza e della resistenza. Era evidente, infatti, che egli volesse sostenere il progetto del suo amico Pierre de Coubertin, in un periodo in cui tutti avvertivano la necessità di rinnovare i metodi pedagogici scolastici, per combattere il surménage intellettuale in vigore tra i banchi, pericoloso perché causava l’indebolimento dei giovani e la loro scarsa preparazione nei momenti critici, con la necessità invece di competere nelle conquiste coloniali. Didon dunque avvertì l’importanza di trovarsi in un’occasione che gli avrebbe permesso di presentare la novità dei metodi pedagogici da lui seguiti nella sua scuola ad Arcueil, ma nello stesso tempo capiva che non avrebbe potuto citare le sue intuizioni tomiste sullo sport, ovvero come questo fosse una «palestra di virtù» per i giovani. Pochi infatti lo avrebbero compreso e per il pubblico di Le Havre qualsiasi apertura al trascendente non sarebbe stata capita.
P. Didon iniziò dunque il suo discorso descrivendo l’«attività fisica» come elemento fondante della «virtù morale». Egli spiegò che i fanciulli inerti e pigri nel fisico lo erano anche dal punto di vista morale, mentre i fanciulli attivi «fino alla turbolenza» racchiudevano i germi delle Virtù, il primo vero traguardo degli «sport atletici». Il secondo frutto di questi ultimi dipendeva dal senso di combattività e di competizione che essi racchiudevano e che egli definiva una virtù «psico-morale». L’attività fisica aiutava infatti a combattere il timore e la timidezza perché, egli disse:

«… i combattivi sono forti, i forti sono buoni, ma i pigri sono furbi e deboli, e i deboli sono pericolosi perché sono traditori.

Sviluppiamo dunque lo spirito di combattività, cioè l’amore della lotta: il fine è questo. Se c’è un ostacolo, buttiamolo giù, e se dobbiamo aggirarlo e siamo inseguiti, non esitiamo ad attaccare. Ecco lo spirito combattivo, una delle più belle virtù psico-morali dell’uomo, poiché se l’uomo possiede in germe una viltà con cui nasce, egli possiede anche il germe di una bravura con cui nasce. Si tratta di capire cosa gli interesserà, la viltà o la bravura. Gli sport fanno prevalere lo spirito di combattività, cioè lo spirito di valore e di bravura originari che dormono nel fanciullo. Gli sport fanno del fanciullo un adolescente di valore…»[6].

Queste parole descrivono in realtà la virtù della Fortezza, che a livello teologico è tra le maggiori perché aiuta a superare il timore con un’audacia calibrata, condizione molto importante in situazioni estreme. Tuttavia p. Didon, si diceva, preferì utilizzare dei toni laici che rendessero facilmente accessibile ai più il suo allenamento alle Virtù attraverso quello sui campi sportivi, anche per raggiungere il terzo risultato dell’esercizio fisico, quello della forza e della resistenza. Forte, infatti, era colui che sapeva resistere con tenacia, chi non indietreggiava mai.
Didon concluse la prima parte del suo discorso aggiungendo qualche cenno all’ultima delle Virtù definite «psico-morali», la Temperanza. Questa era infatti ben visibile in chi praticava lo sport, perché gli atleti non bevevano vino né alcol, non fumavano e sapevano dominare il piacere. Infine nelle parole del Domenicano non poteva mancare un cenno a quelle che egli definiva «virtù civili», ovvero la fraternità (lo sport infatti univa in una contesa cavalleresca in campo) e la libertà (nella organizzazione delle associazioni sportive). Il discorso sulla libertà in ambito sportivo ci pare tra i più interessanti e moderni che egli abbia fatto, alludendo all’autonomia dei giovani nell’organizzarsi. Libertà dunque nella stessa fondazione delle associazioni

«… perché bisogna che i giovani organizzino da soli le loro piccole società. Devono nominare i loro presidenti, i loro segretari, i loro tesorieri, creare i loro direttivi. Essendo costituiti da loro stessi, li accettano come un’autorità liberamente riconosciuta. […]  La centralizzazione è dappertutto ed è quello che non posso accettare. Così mi sono ripromesso che quando avessi avuto un complesso da gestire, avrei fatto un buco attraverso il quale far entrare la libertà nelle associazioni e negli istituti educativi. Ora, Signori, la libertà, ben collocata lì e praticata lì, finirà, statene sicuri, per stabilirsi nel paese come padrona sovrana»[7].

P. Didon sapeva infatti che il processo educativo si basava sulla capacità di tirar fuori dai giovani le loro virtù e possibilità, incoraggiandole e sostenendole, dando fiducia, facendo dei giovani gli artefici della loro vita, con una forte sottolineatura del senso dell’onore e della dignità che l’atleta doveva avere:

«E dato che le associazioni sportive producono tutti i loro effetti, vorrei che fossero assolutamente intransigenti per quanto riguarda l’onore e la dignità dell’atleta. Niente compromessi. – Signore, avete violato la legge, siete squalificato. – Signore, avete imbrogliato, siete squalificato. – Signore, avete maltrattato il vostro avversario, siete squalificato. Punto e basta. Con questo sistema, forse andremo con successo contro queste coscienze di caoutchouc che la politica ha sfortunatamente sviluppato, perché la politica, essendo fatta di interessi, spinge al compromesso, e il compromesso è sempre una distorsione della coscienza. »[8]

Parole adattabili a qualsiasi epoca e che comunque fanno pensare che sin dal suo nascere lo sport, per il fatto di essere uno spettacolo che dava fama e premi a chi si batteva per la vittoria, abbia avuto un cammino attraversato da molteplici problematiche di tipo morale. Se era importante infatti che i giovani conoscessero e amassero l’onestà, p. Didon sembrava guardare soprattutto alla necessità di costruire nazioni democratiche, costituite da cittadini liberi e coscienziosi, convinto che se si fossero formati cittadini passivi, spinti solo da logiche di potere, e da questo malleabili, sarebbe stato impossibile dar vita a stati democratici. Ecco le sue infiammate e convinte espressioni al riguardo:

«Non possiamo dimenticare che viviamo in una vasta democrazia, non solo francese, ma universale. Che si viva sotto un monarca o un presidente della repubblica, si è sempre cittadini liberi. Il vantaggio di una democrazia come la nostra, è che l’individuo partecipa per dare un indirizzo generale. Dunque, in democrazia, bisogna formare uomini illuminati e capaci di iniziativa. Se formate esseri passivi, che agiscono solo per l’impulso del potere, come costituirete una seria democrazia? Avrete solo persone sotto tutela, che saranno battute a ogni colpo, come sarà battuto in campo chi non avrà ricevuto alcuna educazione atletica»[9].

In queste parole, ricche di metafore sportive che ci colpiscono per la loro attualità, specie per lo sguardo “universale” necessario nei confronti delle diverse nazioni del mondo e che oggi chiameremmo “globalizzante”, p. Didon guardava alla vita dei colleges britannici.

La parte finale del discorso è forse quella più accattivante, nel senso che p. Didon si esprime in essa in modo spigliato e ironico, accogliendo una grande quantità di applausi entusiasti. Egli infatti vi descrive con sagacia i tre «nemici dello sport»: gli individui passivi, quelli affettivi, cioè i sentimentali, e gli intellettuali[10]. Alla fine egli cerca di giustificare le sue posizioni a volte eccessive, se non eccentriche, con una frase piuttosto netta e rivelatrice dei suoi modi di uomo schietto e sincero: «Io sono quel che sono; ho le mie idee, ho il coraggio di dirle e cerco di farle trionfare»[11], in un’atmosfera di applausi «frenetici e prolungati», come riporta il testo stenografato del discorso di Le Havre. P. Didon era infatti un ottimo retore e dietro alle sue parole si intravede ancora oggi la novità del suo metodo educativo che definiremmo “esperienziale”, l’unico che considerasse valido per la formazione di cittadini in grado di sottoporsi alla pratica austera, leale e cavalleresca del rispetto e della tolleranza reciproci. Il discorso di Le Havre si presenta dunque come una vera e propria summa della nascente pedagogia sportiva di fine Ottocento, che in p. Didon ha visto prendere vigore e che ancora oggi mostra tutta la sua attualità”.

NOTE

[1] Per alcuni cenni alla vita e all’operato di p. Henri Didon si veda A. Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo. Citius altius fortius tra corpo e spirito, Ave, Roma 2024, e NPG 4/2024, pp. 70-72.
[2] La prima edizione è consultabile in https://gallica.bnf.fr e i numeri delle pagine citate si riferiscono a questo testo: Le p. Didon, Influence morale des sport athlétiques. Discours prononcé au Congrés Olympique du Havre le 29 juillet 1897, J.Mersch impr., Paris 1897, (https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k73110q.texteImage consultata nel maggio 2017). La seconda edizione si trova nella raccolta L’éducation présente cit. pp. 372-394.
[3] Cfr. in particolare gli Atti del Congresso del suo Centenario: N. Müller (ed.), Coubertin et l’Olympisme. Questions pour l’avénir. Le Havre 1897-1997, Raport du Congrès du 17 au 20 septembre 1997 à l’Universitè du Havre, Comité International Pierre de Coubertin – CIPC, Lausanne 1998.
[4] Le p. Didon, Influence morale des sport cit., pp. 6-7.
[5] N. Müller, Après un siècle d’Olympisme cit. Cfr. P. de Coubertin, Memorie olimpiche, a cura di R. Frasca. Mondadori, Milano 2003 (ed. orig. 1931), p. 39.
[6] P. H. Didon, Influence morale des sport athlétiques cit., p. 8.
[7] Ivi p. 12.
[8] Ibid.
[9] Ivi p. 15.
[10] Per uno sguardo più approfondito a queste tre categorie si veda Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo, cit. Con queste tre categorie si allude ai pigri e sedentari, alle madri apprensive e a chi dedica la sua vita allo studio, senza troppo capire dello sport agito.
[11] Ivi p .20.

Un ponte tra scuola e Chiesa, a doppio senso di circolazione

Da Note di Pastorale Giovanile di luglio e agosto, l’introduzione al dossier sull’Insegnamento della religione cattolica: IRC, Comunità cristiana e pastorale giovanile. 

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di Ernesto Diaco (Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e del Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della CEI)

“La Chiesa non si serve della scuola per finalità estranee ad essa, ma si ritiene sua alleata e la considera un bene primario della comunità umana”. E ancora: “Nelle forme di proposta e di elaborazione educativa e culturale proprie della scuola stessa, e nel rispetto del pluralismo che caratterizza questo ambiente così come la società attuale, la Chiesa offre il suo primo e fondamentale servizio alla scuola presentando la bellezza dell’umanesimo cristiano”[1].
In queste due brevi citazioni del documento “Educare, infinito presente. La pastorale della Chiesa per la scuola”, pubblicato dalla Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università della CEI nell’estate del 2020, è racchiuso l’orientamento di fondo con cui la comunità cristiana guarda a quella scolastica, ossia con spirito di testimonianza, di responsabilità e di servizio.

Un’alleanza educativa a favore dei giovani

L’insegnamento della religione cattolica (IRC) nella scuola è forse il massimo esempio che si può citare a tale riguardo. Esso infatti si configura come una vera e propria alleanza educativa, pubblicamente riconosciuta e regolata, e concretizzata in “patti educativi” che prendono forma nella quotidianità delle aule grazie all’operato delle autorità scolastiche e dei vescovi diocesani, degli insegnanti di religione, delle famiglie e degli alunni che scelgono di frequentare tale insegnamento. Alla base dell’IRC così come è presente da circa quarant’anni nelle scuole italiane, infatti, ci sono la libertà e la responsabilità della scelta, la definizione di obiettivi e strumenti adeguati, l’incontro fra le domande educative dei ragazzi e dei giovani e proposte culturali pienamente integrate nel contesto scolastico. Tutti elementi indispensabili per un’esperienza formativa di qualità durante l’età della crescita.
Sull’identità scolastica di tale disciplina non ci sono dubbi. L’IRC è condotto nel quadro delle finalità della scuola, che il Ministero dell’istruzione definisce così: “Nella consapevolezza della relazione che unisce cultura, scuola e persona, la finalità generale della scuola è lo sviluppo armonico e integrale della persona, all’interno dei principi della Costituzione italiana e della tradizione culturale europea, nella promozione della conoscenza e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, con il coinvolgimento attivo degli studenti e delle famiglie”[2]. Non che manchino questioni aperte o difformità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme, ma – anche a fronte dell’altissima percentuale di studenti che se ne avvalgono – non è possibile oggi vedere l’IRC come un’anomalia o un corpo estraneo alla scuola.
Nei quarant’anni trascorsi dalla revisione del Concordato, a cui si deve l’attuale configurazione dello studio della religione nelle aule, l’IRC ha trovato casa nella scuola e nei suoi ordinamenti, nella riflessione pedagogica e nella sperimentazione didattica, nella definizione dei traguardi per le competenze e degli obiettivi di apprendimento, nei nuovi percorsi di formazione teologica e nella produzione editoriale. La scelta del presente dossier, dunque, riguarda l’altra faccia della medaglia, ovvero il legame dell’IRC con la comunità cristiana.

La responsabilità della comunità cristiana verso l’IRC

L’insegnamento scolastico della religione è una risorsa per la scuola. E per la Chiesa? Trattandosi di una disciplina con finalità proprie, complementari ma distinte da quelle della catechesi o della pastorale in senso stretto, quale ricaduta può avere nella vita della comunità ecclesiale? E quale attenzione merita da parte sua?
Il rischio dei percorsi paralleli, lo sappiamo, è sempre in agguato. D’altronde i vescovi italiani mettevano in guardia da questo già nel 1991, nella nota pastorale che accompagnava l’avvio del nuovo sistema dell’IRC: “Urge che la comunità ecclesiale cresca nella consapevolezza delle sue precise responsabilità circa l’insegnamento della religione cattolica. Non sempre infatti l’insegnamento della religione cattolica e il servizio del docente di religione sono collegati con l’azione pastorale che deve esistere fra la Chiesa e la scuola e fra la Chiesa e il mondo giovanile. Le nostre comunità devono considerare l’insegnamento della religione cattolica parte integrante del loro servizio alla piena promozione culturale dell’uomo e al bene del Paese”[3].
La comunità ecclesiale può ricevere molto dall’IRC in termini di ascolto e vicinanza al mondo giovanile, di sperimentazione di linguaggi e itinerari formativi adatti alla vita delle persone, di educatori preparati dal punto di vista teologico e pedagogico. Non solo. Con l’IRC è sollecitata la responsabilità della Chiesa “perché offra se stessa come segno storico, concreto e trasparente di quanto viene insegnato nella scuola”[4]. Con l’insegnante, in aula, “entra” tutta la comunità.

IRC e pastorale “per” la scuola
L’attenzione della Chiesa per il mondo scolastico si compone di diverse forme e occasioni. Oltre al compito proprio della scuola cattolica, vi è un’articolata serie di iniziative che si pongono a servizio della formazione e della testimonianza degli insegnanti, degli studenti, delle famiglie. Momenti culturali e di spiritualità, progetti di solidarietà e animazione, percorsi offerti dalle associazioni professionali, doposcuola e iniziative di sostegno allo studio e contrasto alla povertà educativa. Tutto finalizzato a contribuire alla crescita delle persone e ad una scuola di qualità, fedele alle sue finalità e creatrice di cultura veramente umana. L’IRC si colloca in questo alveo, ne è protagonista e ne riceve a sua volta sostegno. La pastorale per la scuola prende forma per lo più negli istituti scolastici e nei luoghi educativi, ma non solo. Diverse iniziative sono promosse a livello diocesano e nelle stesse parrocchie. È soprattutto nella vita ordinaria delle comunità cristiane che l’IRC può essere promosso e valorizzato, e “restituire” il frutto dell’incontro quotidiano con studenti e insegnanti. È in parrocchia, inoltre, che nascono spesso nuove vocazioni all’educazione e all’insegnamento della religione in particolare. Anche questo è un segno di vitalità per una Chiesa.

L’insegnante di religione, uomo della sintesi
Il primo “luogo” di incontro fra Chiesa e scuola non è nelle attività, ma nelle persone che incarnano l’alleanza fra questi due mondi. “La Chiesa vive già dentro la scuola – ricordano i vescovi – perché in essa operano adulti e giovani credenti: insegnanti, studenti e famiglie”[5]. E i docenti di religione, “senza confondere missione evangelizzatrice e insegnamento scolastico, assolvono un servizio prezioso di testimonianza e di animazione cristiana nella scuola, innanzitutto attraverso il migliore svolgimento del loro insegnamento”[6]. Essi appartengono pienamente alla scuola e alla Chiesa. L’idoneità che ricevono dal vescovo, infatti, non è da vedere come un ulteriore titolo per l’insegnamento, ma come una relazione viva, che abilita, sostiene, dà formazione e fiducia. Come tutte le relazioni, essa non è a senso unico, ma si rafforza nella reciprocità: nel contributo che l’insegnante porta alla scuola e in quello, diverso certamente ma non meno importante, che offre alla Chiesa. Per questo egli è uomo della sintesi: tra fede e cultura, tra Vangelo e storia, tra i bisogni degli alunni e le loro aspirazioni profonde[7].
Non è possibile assolvere a questo compito senza coltivare un’adeguata spiritualità: “una spiritualità cristiana ed ecclesiale, ma anche, in rapporto alla struttura in cui si opera, una spiritualità laicale, forgiatrice e animatrice di una nuova umanità nella scuola”[8].

NOTE

[1] CEI – Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, Educare, infinito presente. La pastorale della Chiesa per la scuola, 4 luglio 2020, pp. 23 e 21.
[2] Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, settembre 2012, p. 9.
[3] Conferenza Episcopale Italiana, nota pastorale Insegnare religione cattolica oggi, 19 maggio 1991, n. 27.
[4] Ivi.
[5] Educare, infinito presente, cit., p. 9.
[6] Ivi, p. 28.
[7] Cf. Insegnare religione cattolica oggi, cit. n. 23.
[8] Ivi, n. 24.

 

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