Articoli

Ceuta: mondi che si incontrano

Da Note di Pastorale Giovanile.

***

di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

Ceuta: mondi che si incontrano

Dalla rubrica Voci dalle periferie – Per una PG segnata dagli ultimi.

***

di Renato Zilio

Come una lingua di terra immersa nell’acqua, la città autonoma spagnola si allunga a partire dell’Africa del Nord e con i suoi 80mila abitanti respira l’Europa: Ceuta.
Le sue “calle” sono gremite di negozi, di bar e di turisti, le sue chiese di ori e statue di santi, come nella madrepatria. Così, le poderose mura, più che difendere, servono ora a proteggere i suoi ricordi e i suoi secoli di storia. Iniziata già con i portoghesi nel lontano 1415, poi passata agli spagnoli, che ancora oggi la vivono come un pezzo di patria, incastonata nel Continente africano (insieme a Melilla).
Autori come Platone, Pomponio, Strabone… sfilano in centro città con il loro busto di marmo: già dall’antichità essi scrivono di lei come “l’invalicabile”, una delle due celebri colonne d’Ercole.
Il suo segreto, però, sta scritto in latino sulla piazza centrale, di fronte alla cattedrale: “Plus ultra”. Andare al di là. Fu questa la chiave del successo nel “secolo delle scoperte”: affrontare il mare e l’ignoto, senza paura. Al di là della fine del mondo allora conosciuto, precisamente Ceuta.
Paradossalmente, il suo senso oggi lo vivono centinaia di giovani migranti. In modo inverso. Spinti ad ogni costo ad andare “al di là” della loro terra africana, dove manca ogni prospettiva. Per entrare, così, in questo pezzo d’Europa ritagliato in terra d’Africa.
«Una vera mattìa!» mi fa don Nicola di Foggia, a Tangeri. Sì, i giovani subsahariani hanno tutti la stessa follia: superare la barrière“.
Nascosti nelle boscaglie alle spalle della città, per giorni senza cibo, o con acqua e pane secco si preparano ad assaltare la barriera di filo spinato alta sette metri. Si nastrano con lo scotch degli uncini di ferro alle mani. Invocano mille volte Allah, in soccorso. E si spezzano le ossa nell’impresa. Il resto lo faranno le due polizie spagnola e marocchina.
Alle parrocchie di Oujda, di Rabat e di Casablanca li ritrovate poi per mesi feriti a decine. Sempre pronti però a riprendere la loro avventura, come in una palestra maledetta. «Sii come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci»: come un mantra – si direbbe – le parole di Jim Morrison risuonano nella loro testa. L’Europa è il loro sogno.
«È necessario continuare a sognare – scrive Coelho –, altrimenti la nostra anima muore». Anche se oggi, veramente, qualcuno si interroga: «Le merci e le comunicazioni circolano facilmente, perché gli uomini no?».
A Ceuta, il Centro sant’Antonio, come altre strutture, accoglie una quindicina di adolescenti marocchini, entrati via mare. Su delle lavagne i loro nomi, gli orari, i piccoli servizi richiesti. Una regola di casa: imparare l’autonomia.
In un armadio, poi, un paio di pinne sono rinchiuse come una reliquia. Con queste ai piedi si presentava, infatti, un mattino Mohamed, marocchino ventenne, giorni fa. Nell’oscurità della notte aveva attraversato il mare incontrando al largo un adolescente in pericolo, a cui dava un piccolo salvagente, poi un secondo che stava annegando e poi ancora un terzo con una torcia accesa per chiamare aiuto, agganciandoli tutti all’unico salvagente. Raggiungeva da solo, poi, veloce, la riva, allertando i soccorsi…
Ancora commosso il racconto di Giulia, una delle volontarie italiane. La notte, infatti, o i giorni di nebbia e di mare mosso, cioè di pericolo, sono momenti buoni per i giovani marocchini di lanciarsi in mare. Con un tragico esito, molto sovente.
Esprimo, in fondo, la mia ammirazione per questi animatori del Centro nella loro attività su due mondi, in un terreno interculturale, tra due culture. «No, mi ribatte una di loro, quattro!». Ceuta, infatti, città di mare, eredita straordinariamente dalla sua storia una popolazione mista: spagnola, marocchina, ebrea e indù.
E poi, Lucie a spiegarmi come a Natale nella piazza del centro appare una grande scritta luminosa: “Felice Natale!”. Ma, durante il mese musulmano, diventa: “Felice Ramadan!”. E così pure per le feste delle altre due culture si illumina diversamente.
Quale è, per davvero, la regola d’oro? «Il rispetto dell’altro!», pronta la loro risposta.
Così, in un contesto di impietosa e dura chiusura europea, quasi una vera fortezza con telecamere, cani e filo spinato, che blocca qui la meglio gioventù africana, almeno nel cuore della città, una lezione di umanità. In fondo, sarà sempre la storia ad insegnare. Magistra vitae.

Il pensiero sportivo di p. Didon nel “discorso di Le Havre”

da Note di Pastorale Giovanile.

***

di Angela Teja

Il discorso pronunciato da p. Henri Didon (1840-1900)[1] a Le Havre nel 1897 è tra quelli che meglio rappresentano il celebre Domenicano, inventore del motto olimpico Citius, altius, fortius, come paladino del nascente Olimpismo. In esso infatti egli affrontò il tema dell’influenza morale degli sport atletici, uno degli argomenti portanti del suo metodo pedagogico ma che si sarebbe mostrato anche un percorso impegnativo per il nascente Movimento olimpico. Pronunciato il 29 luglio 1897, dunque nell’anno successivo alla prima edizione dei Giochi olimpici, la sua prima pubblicazione è della fine di quell’anno[2]. Presidente del Congresso di Le Havre fu lo stesso Coubertin, che ne aveva predisposto il programma in tre momenti (pedagogia, igiene e sport), in presenza di pochi stranieri e con prevalentemente un pubblico locale[3].
Coubertin stesso introdusse p. Didon in apertura della quarta giornata congressuale annunciando l’argomento che avrebbe trattato nella sua lectio per mostrarne i tratti non solo pedagogici e psicologici ma anche spirituali. Il titolo dell’intervento del Domenicano era piuttosto lungo: «Dell’azione morale degli esercizi fisici sul fanciullo, sull’adolescente e dell’influenza dello sforzo sulla formazione del carattere e lo sviluppo della personalità». Coubertin aveva autorizzato quel titolo e quell’ampia tematica da trattare perché sapeva di potersi fidare dell’aiuto di p. Didon, con la speranza di meglio indirizzare il nascente Movimento olimpico, che sembrava invece subire già deviazioni e tentennamenti rispetto alle intenzioni del suo Ideatore.
P. Didon per la prima volta si trovò a fare riferimenti precisi ed esclusivi agli «esercizi fisici en plein air», come amava chiamare gli sport, o meglio agli «esercizi atletici», altra denominazione che preferì utilizzare rispetto al termine inglese di fronte a un pubblico di esperti, medici e pedagogisti in prevalenza francesi. Egli sapeva bene che il tema che avrebbe trattato sarebbe stato interessante per tutti i presenti, genitori, politici, insegnanti, «tutti quelli che [avevano] a cuore l’avvenire del paese».[4] Per illustrarlo egli si servì di alcuni argomenti relativi ai risultati che gli esercizi en plein air  riuscivano a produrre, operando una costante “cucitura” tra il mondo della corporeità e quello morale, sapendo che così sarebbe stato utile a Coubertin e alle sue finalità: la pace tra i popoli e l’internazionalismo, grazie al rafforzamento delle giovani generazioni da ogni punto di vista, sia fisico che morale. Pierre de Coubertin voleva infatti recuperare gli aspetti storici, filosofici e intellettuali alla base del nuovo Movimento che apparivano già trascurati nei quindici mesi appena trascorsi dalla prima edizione dei Giochi e forse già assenti da essi dove sembrava esserci stata solo «la tecnica vestita da storia»[5].

L’esercizio fisico, virtù psico-morale

P. Didon a Le Havre si mostrò più spontaneo del solito e, se vogliamo, anche un po’ istrionesco nei modi, forse perché voleva rendere chiare e appetibili le sue convinzioni riguardo allo sport, in modo che tutti capissero e ne approvassero anche gli aspetti più profondi. Servendosi di argomenti concreti, egli iniziò citando i tre vantaggi di una pratica sportiva costante, che egli chiamò “virtù”: chiamò «morale» il primo vantaggio, la componente materiale e più consistente degli esercizi, quindi «psico-morale» il secondo che si manifestava nello spirito di lotta e di competizione, e infine la terza, la virtù della forza e della resistenza. Era evidente, infatti, che egli volesse sostenere il progetto del suo amico Pierre de Coubertin, in un periodo in cui tutti avvertivano la necessità di rinnovare i metodi pedagogici scolastici, per combattere il surménage intellettuale in vigore tra i banchi, pericoloso perché causava l’indebolimento dei giovani e la loro scarsa preparazione nei momenti critici, con la necessità invece di competere nelle conquiste coloniali. Didon dunque avvertì l’importanza di trovarsi in un’occasione che gli avrebbe permesso di presentare la novità dei metodi pedagogici da lui seguiti nella sua scuola ad Arcueil, ma nello stesso tempo capiva che non avrebbe potuto citare le sue intuizioni tomiste sullo sport, ovvero come questo fosse una «palestra di virtù» per i giovani. Pochi infatti lo avrebbero compreso e per il pubblico di Le Havre qualsiasi apertura al trascendente non sarebbe stata capita.
P. Didon iniziò dunque il suo discorso descrivendo l’«attività fisica» come elemento fondante della «virtù morale». Egli spiegò che i fanciulli inerti e pigri nel fisico lo erano anche dal punto di vista morale, mentre i fanciulli attivi «fino alla turbolenza» racchiudevano i germi delle Virtù, il primo vero traguardo degli «sport atletici». Il secondo frutto di questi ultimi dipendeva dal senso di combattività e di competizione che essi racchiudevano e che egli definiva una virtù «psico-morale». L’attività fisica aiutava infatti a combattere il timore e la timidezza perché, egli disse:

«… i combattivi sono forti, i forti sono buoni, ma i pigri sono furbi e deboli, e i deboli sono pericolosi perché sono traditori.

Sviluppiamo dunque lo spirito di combattività, cioè l’amore della lotta: il fine è questo. Se c’è un ostacolo, buttiamolo giù, e se dobbiamo aggirarlo e siamo inseguiti, non esitiamo ad attaccare. Ecco lo spirito combattivo, una delle più belle virtù psico-morali dell’uomo, poiché se l’uomo possiede in germe una viltà con cui nasce, egli possiede anche il germe di una bravura con cui nasce. Si tratta di capire cosa gli interesserà, la viltà o la bravura. Gli sport fanno prevalere lo spirito di combattività, cioè lo spirito di valore e di bravura originari che dormono nel fanciullo. Gli sport fanno del fanciullo un adolescente di valore…»[6].

Queste parole descrivono in realtà la virtù della Fortezza, che a livello teologico è tra le maggiori perché aiuta a superare il timore con un’audacia calibrata, condizione molto importante in situazioni estreme. Tuttavia p. Didon, si diceva, preferì utilizzare dei toni laici che rendessero facilmente accessibile ai più il suo allenamento alle Virtù attraverso quello sui campi sportivi, anche per raggiungere il terzo risultato dell’esercizio fisico, quello della forza e della resistenza. Forte, infatti, era colui che sapeva resistere con tenacia, chi non indietreggiava mai.
Didon concluse la prima parte del suo discorso aggiungendo qualche cenno all’ultima delle Virtù definite «psico-morali», la Temperanza. Questa era infatti ben visibile in chi praticava lo sport, perché gli atleti non bevevano vino né alcol, non fumavano e sapevano dominare il piacere. Infine nelle parole del Domenicano non poteva mancare un cenno a quelle che egli definiva «virtù civili», ovvero la fraternità (lo sport infatti univa in una contesa cavalleresca in campo) e la libertà (nella organizzazione delle associazioni sportive). Il discorso sulla libertà in ambito sportivo ci pare tra i più interessanti e moderni che egli abbia fatto, alludendo all’autonomia dei giovani nell’organizzarsi. Libertà dunque nella stessa fondazione delle associazioni

«… perché bisogna che i giovani organizzino da soli le loro piccole società. Devono nominare i loro presidenti, i loro segretari, i loro tesorieri, creare i loro direttivi. Essendo costituiti da loro stessi, li accettano come un’autorità liberamente riconosciuta. […]  La centralizzazione è dappertutto ed è quello che non posso accettare. Così mi sono ripromesso che quando avessi avuto un complesso da gestire, avrei fatto un buco attraverso il quale far entrare la libertà nelle associazioni e negli istituti educativi. Ora, Signori, la libertà, ben collocata lì e praticata lì, finirà, statene sicuri, per stabilirsi nel paese come padrona sovrana»[7].

P. Didon sapeva infatti che il processo educativo si basava sulla capacità di tirar fuori dai giovani le loro virtù e possibilità, incoraggiandole e sostenendole, dando fiducia, facendo dei giovani gli artefici della loro vita, con una forte sottolineatura del senso dell’onore e della dignità che l’atleta doveva avere:

«E dato che le associazioni sportive producono tutti i loro effetti, vorrei che fossero assolutamente intransigenti per quanto riguarda l’onore e la dignità dell’atleta. Niente compromessi. – Signore, avete violato la legge, siete squalificato. – Signore, avete imbrogliato, siete squalificato. – Signore, avete maltrattato il vostro avversario, siete squalificato. Punto e basta. Con questo sistema, forse andremo con successo contro queste coscienze di caoutchouc che la politica ha sfortunatamente sviluppato, perché la politica, essendo fatta di interessi, spinge al compromesso, e il compromesso è sempre una distorsione della coscienza. »[8]

Parole adattabili a qualsiasi epoca e che comunque fanno pensare che sin dal suo nascere lo sport, per il fatto di essere uno spettacolo che dava fama e premi a chi si batteva per la vittoria, abbia avuto un cammino attraversato da molteplici problematiche di tipo morale. Se era importante infatti che i giovani conoscessero e amassero l’onestà, p. Didon sembrava guardare soprattutto alla necessità di costruire nazioni democratiche, costituite da cittadini liberi e coscienziosi, convinto che se si fossero formati cittadini passivi, spinti solo da logiche di potere, e da questo malleabili, sarebbe stato impossibile dar vita a stati democratici. Ecco le sue infiammate e convinte espressioni al riguardo:

«Non possiamo dimenticare che viviamo in una vasta democrazia, non solo francese, ma universale. Che si viva sotto un monarca o un presidente della repubblica, si è sempre cittadini liberi. Il vantaggio di una democrazia come la nostra, è che l’individuo partecipa per dare un indirizzo generale. Dunque, in democrazia, bisogna formare uomini illuminati e capaci di iniziativa. Se formate esseri passivi, che agiscono solo per l’impulso del potere, come costituirete una seria democrazia? Avrete solo persone sotto tutela, che saranno battute a ogni colpo, come sarà battuto in campo chi non avrà ricevuto alcuna educazione atletica»[9].

In queste parole, ricche di metafore sportive che ci colpiscono per la loro attualità, specie per lo sguardo “universale” necessario nei confronti delle diverse nazioni del mondo e che oggi chiameremmo “globalizzante”, p. Didon guardava alla vita dei colleges britannici.

La parte finale del discorso è forse quella più accattivante, nel senso che p. Didon si esprime in essa in modo spigliato e ironico, accogliendo una grande quantità di applausi entusiasti. Egli infatti vi descrive con sagacia i tre «nemici dello sport»: gli individui passivi, quelli affettivi, cioè i sentimentali, e gli intellettuali[10]. Alla fine egli cerca di giustificare le sue posizioni a volte eccessive, se non eccentriche, con una frase piuttosto netta e rivelatrice dei suoi modi di uomo schietto e sincero: «Io sono quel che sono; ho le mie idee, ho il coraggio di dirle e cerco di farle trionfare»[11], in un’atmosfera di applausi «frenetici e prolungati», come riporta il testo stenografato del discorso di Le Havre. P. Didon era infatti un ottimo retore e dietro alle sue parole si intravede ancora oggi la novità del suo metodo educativo che definiremmo “esperienziale”, l’unico che considerasse valido per la formazione di cittadini in grado di sottoporsi alla pratica austera, leale e cavalleresca del rispetto e della tolleranza reciproci. Il discorso di Le Havre si presenta dunque come una vera e propria summa della nascente pedagogia sportiva di fine Ottocento, che in p. Didon ha visto prendere vigore e che ancora oggi mostra tutta la sua attualità”.

NOTE

[1] Per alcuni cenni alla vita e all’operato di p. Henri Didon si veda A. Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo. Citius altius fortius tra corpo e spirito, Ave, Roma 2024, e NPG 4/2024, pp. 70-72.
[2] La prima edizione è consultabile in https://gallica.bnf.fr e i numeri delle pagine citate si riferiscono a questo testo: Le p. Didon, Influence morale des sport athlétiques. Discours prononcé au Congrés Olympique du Havre le 29 juillet 1897, J.Mersch impr., Paris 1897, (https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k73110q.texteImage consultata nel maggio 2017). La seconda edizione si trova nella raccolta L’éducation présente cit. pp. 372-394.
[3] Cfr. in particolare gli Atti del Congresso del suo Centenario: N. Müller (ed.), Coubertin et l’Olympisme. Questions pour l’avénir. Le Havre 1897-1997, Raport du Congrès du 17 au 20 septembre 1997 à l’Universitè du Havre, Comité International Pierre de Coubertin – CIPC, Lausanne 1998.
[4] Le p. Didon, Influence morale des sport cit., pp. 6-7.
[5] N. Müller, Après un siècle d’Olympisme cit. Cfr. P. de Coubertin, Memorie olimpiche, a cura di R. Frasca. Mondadori, Milano 2003 (ed. orig. 1931), p. 39.
[6] P. H. Didon, Influence morale des sport athlétiques cit., p. 8.
[7] Ivi p. 12.
[8] Ibid.
[9] Ivi p. 15.
[10] Per uno sguardo più approfondito a queste tre categorie si veda Teja, P. H. Didon, un domenicano alle radici dell’olimpismo, cit. Con queste tre categorie si allude ai pigri e sedentari, alle madri apprensive e a chi dedica la sua vita allo studio, senza troppo capire dello sport agito.
[11] Ivi p .20.

Scegliere, con una Luce dentro

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” a cura del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

***

di Benedetta Visca (23 anni, nata e cresciuta nell’oratorio di Latina e ora fuorisede abbastanza “fake” che vive a Roma. Frequenta la Luiss, ormai agli sgoccioli e vicinissima alla Laurea Magistrale in economia, e sta lavorando in una società di consulenza). 

Come tanti giovani della mia età, rincorro un obiettivo dopo l’altro, ho mille paure per il mio futuro, cerco sempre di soddisfare le aspettative di chi mi circonda, sto cercando il mio posto nel mondo e ho un calendario strapieno di impegni. E ovviamente, vorrei tutto e subito senza fare un minimo di fatica. (Immagino che su questo siamo tutti d’accordo.)
Puoi trovarmi in discoteca il sabato sera, in giro con gli amici, ad una cena di famiglia o ad un’adorazione eucaristica. Ho un bellissimo gruppo di amicizie coltivate con cura in oratorio, amici che hanno rinchiuso il segno della croce in qualche stanza impolverata del loro cuore e altri che lo stanno un po’ rispolverando.
“Strano” diresti, che vita incasinata! Quanta poca coerenza, quante strade diverse e contrastanti… prendi una decisione figlia mia!
Tutti pensieri legittimi, vi perdono 🙂
Ma sapete il bello qual è?
È la serenità con cui coltivo tutte queste cose nella mia vita, quel famoso “filo rosso” che mi permette in ogni ambiente in cui mi trovo e con qualunque persona con cui sono, di essere la Benedetta che ha conosciuto il Signore! E che prova (spesso con scarsissimi risultati) a testimoniarlo ogni giorno nella sua vita.
Il motivo per cui mi sento tanto fortunata è che in un mondo così frenetico e decisamente pieno di cose e persone in crisi, io ho una Luce che illumina i miei passi. E che nessuno può togliermi! Ovviamente non perché io sia chissà quanto brava, ma perché nella mia vita ho incontrato persone straordinarie che mi hanno insegnato ad esserlo… e non esagero nel dire che la maggior parte di loro sono Salesiani e Fma. Loro sono stati la testimonianza più chiara ed evidente di come i cristiani non siano gente noiosa, vecchia e con il dito pronto a giudicare… ma persone felici!
Ci sono almeno mille motivi per cui i vostri amici vi diranno che essere cristiani al giorno d’oggi non è conveniente (per dirla in tono elegante)… ma voglio darvene almeno uno buono per esserlo, che li batte tutti.
La mia vita spirituale mi aiuta nell’affrontare l’attività che tutti noi riteniamo essere la più difficile in assoluto: scegliere.
Scegliere le relazioni, scegliere l’università, scegliere il lavoro, scegliere il servizio, scegliere come investire il proprio tempo, scegliere dove andare, cosa fare, scegliere chi essere. Scegliere è il vero problema e la vera difficoltà di questa vita. È la scelta che manda in crisi noi giovani, che spesso ci sentiamo naufraghi in un mare sempre in tempesta, alla disperata ricerca di coordinate che il mondo non sa darci.
Avete presente la paura di scegliere?
Vi è mai capitato di cavalcare bene un’onda, ma di non fare in tempo a gioire che siete già travolti dalla successiva?
La mia vita a 23 anni è una scelta continua, già da un bel po’ di anni. Ogni volta che devo fare una scelta importante sono terrorizzata! Ho paura di sbagliare, di pentirmi, di non essere abbastanza. La benedizione più grande per me è sapere di non scegliere mai da sola.
È nella preghiera che ho scelto la mia università, che ho trovato il coraggio di far nascere delle amicizie e di abbandonarne di altre, che ho selezionato le persone da avere accanto e quelle da lasciar andare, che ho attraversato i momenti più bui e reso grazie in quelli più luminosi. È nella preghiera che affido ogni giorno le sofferenze grandi di chi mi circonda, che pongo tutte quelle domande troppo grandi per avere risposta, che chiedo di avere abbastanza forza per affrontare la giornata quando proprio non mi va. È soltanto grazie al mio rapporto con il Signore che riesco a guardare a tutti i “se” e i “ma” per il mio futuro non come pesi schiaccianti, ma come opportunità. Come evoluzione di un filo rosso che qualcuno che mi ama ha pensato per me.
Niente di tutto questo fa sconti ai momenti di ansia e di sconforto, ma è essenziale per lasciarmi risollevare e “camminare con i piedi per terra, consapevole che il mio cuore è in cielo.”
Una cosa che mi fa soffrire è vedere come tanti miei coetanei siano terrorizzati dall’idea di scegliere, al punto quasi da diventare più spettatori che protagonisti della loro vita.
Ecco, la mia fede mi permette di essere protagonista. Ho assolutamente ben chiari nel mio cuore i volti delle persone che hanno aiutato ad esserlo: avevano (casualmente!) tutti quanti Gesù nel loro sguardo. Non si tratta di una frase fatta, per il compiacimento di qualcuno, ma soltanto di una confortante e bellissima esperienza personale!
Quando la vita di un giovane è abitata da una Luce divina, ecco che la scelta non è più un dirupo. Ecco che sbagliare non è più una condanna. Ecco che le cose che fai acquistano senso!
Ecco che riconosci la bellezza nelle cose che fai e nella persona che sei, perché sai che sei stato tu il primo ad essere amato, in maniera totalmente gratuita.
Ecco che Qualcuno si affaccia nella tua vita a darti le istruzioni! E quanto ne abbiamo bisogno!
Ecco che il peso e l’orizzontalità del mondo che ci circonda viene ribaltato.
Ecco che assapori la bellezza di trasformare quello che credevi essere un punto di non ritorno in un nuovo trampolino di lancio.
Il Signore abita la mia vita, in tutti gli spazi e i tempi che la riguardano. Abita i miei alti e bassi, le mie ansie da studio e da lavoro, i miei incontri in oratorio, le mie birre con gli amici, i miei workout, i momenti di riposo, il mio desiderio di mettermi a servizio del prossimo tanto quanto quello fare carriera.
Lui per me c’è sempre. Sono io che devo scegliere di esserci per Lui.
E quando lo faccio, la mia vita diventa una roba pazzesca.

 

Abbonamenti

“Virginia e il professore”: nuovo libro di Elledici

Da NPG.

***

Nuovo libro in uscita: Virginia e il Professore – di Virginia Di Vincenzo e Marco Pappalardo, edito da Elledici.

IL LIBRO
Una corrispondenza di e-mail tra una studentessa e un insegnante che vivono a molti chilometri di distanza…
Lei alle prese con il liceo classico e la voglia di vivere “senza fretta” questa avventura che si chiama adolescenza…
Lui tra famiglia, scuola, giornalismo, social e volontariato e il desiderio di aiutare altri a credere nei propri sogni…
Frammenti di vita vera attraverso un’amicizia epistolare.

GLI AUTORI
Virginia Di Vincenzo, ha 18 anni, vive a Chieri, in provincia di Torino. Frequenta il quinto anno del liceo classico e si immagina già a studiare “Lettere o Filosofia” in qualche città d’arte italiana. Ha scritto per il sito web di Note di Pastorale Giovanile.
Marco Pappalardo, classe 1976, giornalista pubblicista di Catania, docente di Lettere presso il Liceo Classico “Cutelli – Salanitro”. Dirige l’Ufficio per la Pastorale Scolastica dell’Arcidiocesi di Catania. Scrive per il quotidiano Avvenire, per il settimanale Credere, per il quotidiano La Sicilia, per diversi siti (tra cui Note di Pastorale Giovanile). Ha scritto libri su temi educativi, scolastici, sociali, religiosi, formativi per varie case editrici.

Intervista a Pappalardo

Mantenere viva la fiamma

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” del MGS su Note di Pastorale Giovanile.

***

di Paola Migliore (19 anni, originaria di Gela (Sicilia), studia alla facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università Kore di Enna. Fa parte del Movimento Giovanile Salesiano di Sicilia ed è animatrice nell’oratorio Salesiano San Domenico Savio di Gela, all’interno del quale trovano spazio tutte le sue passioni: la musica (si occupa di una band di ragazzi), il canto, i ragazzi (è animatrice di un gruppo formativo)

“Tu sei la mia Luce e splendi sempre dentro l’anima, anche in questa notte, questa lunga notte”. È questo il motivetto di una canzone che mi accompagna ormai da un paio di giorni e che penso potrebbe ben rendere l’idea di “rifugio, conforto” che il Signore è per me.
Una sensazione interiore che ha “invaso” una ragazza diciannovenne, che vive il suo periodo di maturazione – come tanti altri coetanei – attraversando varie esperienze e – diciamo – di “transizione”.
A contatto con i miei amici constato che ciascuno vive questa “transizione” in modo diverso: c’è chi la vive oramai in quella certa sicurezza che offre un ambiente lavorativo, chi con certe garanzie familiari, e chi, come me, catapultata al primo anno di università.
Fino a poco tempo fa, questa realtà mi sembrava così lontana da pensarla quasi come un’utopia, eppure è ormai diventata la mia quotidianità. Non è stato semplice abituarmici.
All’inizio riuscivo a vedere solo un’aula immensa, di quelle che sino ad allora avevo visto nei film, con altrettanti immensi posti a sedere, disposti a mo’ di platea di teatro greco; e infine in quest’aula c’erano docenti e colleghi.
Non nascondo che di tempo ne è passato un bel po’, prima di riuscire ad abbattere gli schemi banali e apprendere a relazionarmi con una realtà nuova, e vedere i VOLTI delle persone. È stato un difficile apprendimento, ma assolutamente necessario, di quelli che “ti aprono gli occhi e la mente”.
La mia crescita personale è stata, e continua ad essere, alimentata da una formazione che mette insieme la dimensione religiosa e quella umana, in un clima “salesiano”; per cui ho sempre provato ad assumere un atteggiamento empatico e cordiale, reciprocamente condiviso con quelli che frequentavano il mio stesso ambiente. La cosa era un pochino più complicata nei confronti degli “altri”, con cui pure ero in relazione. E così ho sperimentato che cerchi una reciprocità, e se non ce l’hai, tutte le tue buone intenzioni vanno a farsi benedire. Insomma, questa logica molte volte ha preso il sopravvento su di me: una logica “del mondo”, dove vige il “do ut des”, non la logica di Dio che si regge sulla gratuità!
Ecco, in quel momento mi è arrivata in soccorso una frase abituale nei nostri ambienti salesiani, e che qualche anno fa fece da slogan ad un anno formativo, “Puoi essere santo lì dove sei”.
Applicata alla mia vita, ho capito che, in qualunque posto ci si trovi e con chiunque abiti quel posto, sia possibile rimanere sé stessi e mantenere viva la propria fiamma, che non arderà costantemente allo stesso modo, ma comunque sarà lì, presente, a riscaldare chi ci sta accanto. D’altronde, diceva San Paolo che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E questo, tanto più nel nuovo mondo universitario da me frequentato.
Ho sempre pensato che il mondo universitario richiedesse una costanza e una dedizione assidue, tali da dover accantonare ogni altro impegno, come quelli in oratorio. Ma un amico salesiano un giorno, durante una lectio, disse che “il Signore non sceglie persone capaci, ma rende capaci le persone che sceglie”. Ecco un altro bagliore di quella luce di cui parlo all’inizio.
Certo, vivere questo, e soprattutto fidarsi di questo, non è stata cosa semplice, non lo è tuttora e probabilmente non lo sarà in futuro. Ma sicuramente, posso testimoniare che a settembre dell’anno scorso non avrei mai pensato che sarei riuscita a conciliare la mia fede con il mondo universitario, non avrei neppure ipotizzato che sarei riuscita a vivere, per un fine settimana al mese, un percorso formativo di vita cristiana con giovani di altri oratori, che oggi sono ormai famiglia.
Il Signore ci sorprende: quando pensiamo di non essere all’altezza, di non valere nulla, di non essere abbastanza, Lui silenziosamente si avvicina, se necessario giunge fino alla mia “Gerico”, il punto più basso della propria geografia interiore, per recuperare anche solo una delle pecorelle che si sono smarrite, e anche Paola. Ho davvero sperimentato personalmente come non esista la possibilità di sottrarsi alla misericordia di Dio e di non essere redenti: nulla gli è impossibile, lo posso garantire!
E poi ti prende la gioia. Ricordo un’esperienza “totale”, di fede, di fraternità e di divertimento, che ho vissuto nell’agosto 2023: la GMG.
Lì a Lisbona ho veramente toccato con mano la felicità, quella ti irrompe dentro e sembra ti faccia scoppiare, quella che dura giorni interi, ti fa ballare per ore e camminare per chilometri. Ho sperimentato la gioia di essere cristiana e l’ho condivisa con altri due milioni di persone: non ero più un ago in un pagliaio, non ero più l’eccezione, ma mi sentivo accumunata da uno stesso sentimento.
E a quel fiume di gente il Papa parlò, toccando le corde più profonde e misteriose dell’anima: “A voi che volete cambiare il mondo e che volete lottare per la giustizia e per la pace; a voi, giovani, che mettete impegno e fantasia alla vita ma vi sembra che non bastino; a voi, giovani, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia; a voi, giovani, che siete il presente e il futuro; sì, proprio a voi, giovani, Gesù oggi vi dice: non temete, non temete!”.
Queste parole mi sono penetrate dentro, mi hanno commossa e incoraggiata, spronata e fatto sognare. Lì, in quei giorni, quelle parole mi hanno scombussolata facendomi capire che sognare è possibile e che non fa parte di una realtà parallela; per noi salesiani, dovrebbe essere anche più semplice dato che siamo figli di un sognatore.
In questi giorni il MGS di Sicilia ha vissuto un evento improntato sui sogni, la festa Giovani, che coronava il cinquantesimo anniversario del MGS nella mia regione.
Come una degli “Animatori at work” che organizzavano l’evento, ho fatto parte della “commissione dei sogni”. E così mi ritrovai a studiare i sogni meno conosciuti di don Bosco, i cui nomi erano anche insoliti. A prescindere dal loro contenuto, la cosa che mi ha affascinato di più è la frequenza con cui don Bosco “sognava”. E io invece non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho sognato!
In questo contesto le parole del Papa sono sembrate profetiche e restano un raggio di luce nei momenti di ombra, e mi ricordano quale terra devo abitare.
Certamente, oltre ai momenti di “Tabor”, che vanno vissuti e custoditi gelosamente, nei momenti di ombra sono essenziali soprattutto delle figure concrete, capaci di essere fraterne e spirituali insieme.
Quando la mia fede ha vacillato, quando solo pensieri negativi invadevano la mia mente, quando mi sembrava di aver perso la bussola, di non riuscire a far parlare il cuore e mi sembrava di aver perduto quelle poche importanti certezze… in quel momento, solo il confronto con la mia guida spirituale mi ha fatto ritornare in carreggiata, facendosi da tramite tra me e Dio, non lasciandomi da sola, e anche se il dialogo non era sempre assiduo, la sua vicinanza con la preghiera riuscivo a sentirla.
Sembrerò ora retorica o romantica se mi rivolgo ai miei coetanei?
Caro giovane amico, non è sicuramente un cammino semplice quello cristiano. Come un sentiero di montagna: ci sono sassolini e pietre, salitine facili e rocce scoscese: ma è un cammino che porta a vette e orizzonti, felicità pura, un cammino il cui Pastore guida i passi del tuo esistere, senza mai lasciarti in balia della tempesta. E poi non siamo soli: abbiamo la “Maestra” che ci illumina la strada e ci incoraggia.
Impareremo così l’umiltà, la forza, la robustezza (come l’invito fatto a Giovanni Bosco nel suo sogno a 9 anni), e apprenderemo a cogliere la presenza di Dio nelle persone della nostra vita quotidiana. E soprattutto ti sentirai amato, tanto da voler rispondere con lo stesso amore.
Non ti sembra un bel cammino?

Never too far away

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” di Note di Pastorale Giovanile,  a cura del MGS Italia.

***

di Giacomo Mazzoli (25 anni, giovane del MGS Lombardia Emilia, secondo di quattro fratelli, cresciuto all’oratorio di Bologna. Ama lo sport, in particolare la pallavolo, suonare il pianoforte e scalare in montagna)

A undici anni, in compagnia di papà e zio, grandi appassionati di montagna, scalai il mio primo ghiacciaio. Successe in un weekend di inizio settembre, in una valle poco frequentata della Valle d’Aosta, su di una cima, l’Entrelor (3430 m), vetta tra le più impervie del Gran Paradiso, senza un rifugio dove prendere lo slancio per la scalata. Sembrava che non solo la montagna, ma tutta la valle ponesse una sfida a chiunque le si avvicinasse: “Sei proprio sicuro?”. Perché, lo sanno tutti i montanari, non si tratta solo di una fatica nelle gambe, per camminare o arrampicarsi, ma di uno sforzo in tutto il corpo, trasportando, nel proprio zaino, una tenda, i viveri per due giorni, oltre a picozza, ramponi e quanto è necessario per la salita. Ad oggi riconosco senza dubbi che fu una delle fatiche più grandi di tutta la mia vita, una di quelle che restano impresse: un vero e proprio “battesimo” della montagna, un’impresa che lascia il segno. Sarà anche per questo che l’immagine che mi viene in mente quando penso alla fede e al suo cammino (composto da un vero rapporto con Dio, fatto di amore, amicizia, ma anche di dubbio e di buio) è proprio quella di una montagna. Esagerando un po’, direi che la fede è una cosa da veri scalatori. Anzi, per continuare la similitudine, la salita verso un monte è tanto più significativa quando si percorrono valli poco conosciute, senza comfort e rifugi, magari molto faticose: sono tutti ingredienti che permettono all’esperienza di cambiarci e di parlare al cuore.
Per me è stato così in montagna, per me è così nell’esperienza di fede.
Di essa ho fatto un’esperienza travolgente, al punto da sentire il cuore toccato e guarito. Nella mia adolescenza, in oratorio e a scuola, sono stato fortunato perché ho potuto vivere amicizie vere, e questo mi ha tirato fuori dal rischio di chiudermi in me, da risolvere da solo le cose, di non condividere pensieri e scoperte importanti. Penso davvero che un cristiano senza amici rischia seriamente di perdersi, perché negli amici Gesù si rivela nei modi più diversi, e l’amicizia condivisa è sempre un amore donato da una fonte più grande. Certo, sono stato anche ferito e “tradito”, specie quando ero più piccolo, e non nascondo che da più grande ho purtroppo anche ferito.
Fin da piccolo ho frequentato numerosi gruppi in parrocchia e ricordo con grande piacere quello dei ministranti. Ci si trovava il sabato pomeriggio a fare grandi partite di calcio, pizzate, spendendo tempo insieme; e poi la serietà della preparazione e la gioia di una messa domenicale dove avvertivo quella presenza dell’amico Gesù già sperimentata nel quotidiano della settimana precedente con gli amici. Ecco, nella mia adolescenza mi sono sentito davvero amato. Anche dagli educatori, che erano amici un po’ più grandi, che mi vedevano per quello che ero e che mi allargavano gli orizzonti.
Ho frequentato per sei anni anche il gruppo scout, ma non è stata per me una grande esperienza. In questo contesto ho fatto la scoperta delle mie debolezze e fragilità, di cui ancora oggi ringrazio perché le esperienze difficili permettono a ciascuno di noi di maturare, di chiedere aiuto e di abbattere le difese di cui ci circondiamo continuamente.
Ho già accennato alla fede come di un punto fermo per me: in essa sento di aver incontrato Uno che mi ha fatto sentire amato non per quello che sarei diventato, ma proprio per quello che sono adesso, il me stesso con pregi e difetti. Ecco, cambiare o essere. Quante volte l’accento nella fede è posto sul cambiamento. Cosa certamente necessaria, anche perché cambio, “divento” ogni giorno. Ma alla base c’è una accettazione incondizionata, grazie alla quale si spengono le domande “Vado bene così?” “È la strada giusta?”. Il fatto che la vita cambi è un frutto (importantissimo) di questa esperienza, non la condizione sine qua non. Un po’ come accade in montagna: se scali il Gran Paradiso e ammiri il panorama vivendo la fatica, superando le crisi e condividendo il tutto con i compagni, ritorni a casa cambiato, diverso, sicuro che la vita ha orizzonti molto più alti di quelli che pensavi.
Questa è stata per me l’esperienza interiore più decisiva, ed è avvenuta grazie a una persona adulta con cui ho riletto la mia vita e scoperto questa sconvolgente ma limpidissima verità: Dio mi ama comunque, e ama te comunque. Questo e nient’altro che questo. E così per tutti i miei giorni, all’oratorio, a scuola, in università ho sentito come una grande spinta interiore a testimoniare ciò, anzitutto vivendo personalmente questa nuova consapevolezza.
Pensate, proprio a Bologna, in una realtà universitaria ostile al messaggio evangelico in tutte le salse, è possibile e ve lo posso garantire. Questa assoluta certezza mi ha anche aiutato parecchio, da studente, negli studi, negli esami da preparare e nei pomeriggi passati a risolvere esercizi ad Ingegneria Energetica: è come una luce interiore che illumina anche i lunghi pomeriggi di studio, volti a preparare gli esami. Sento che anche la passione per lo studio forse viene proprio da qua, da questa consapevolezza che Dio mi ama. Ed è inevitabile tradurre ciò in una mano tesa verso i miei compagni, condividendo con loro anche momenti di studio durissimi. Quello che vorrei esprimere è appunto una fede che prende corpo e vita nel mio ambiente, fatto di lavoro e buone relazioni amicali.
Cosa farò in futuro? Quale forma prenderà questa mia consapevolezza? Non lo so ancora, diciamo che “sono in dialogo con Dio”: è un gioco di pazienza e ascolto tra me e Lui. Ma tutto parte da là, dal sentirsi amati e pensati da sempre. Certo, tra le esperienze affascinanti vissute c’è l’oratorio, un luogo in cui spendersi e dove è possibile comunicare agli altri quest’Amore. Non un luogo dove si è strumentalizzati, ma dove si accoglie, anche chi è “lontano”. Questa esperienza “mi ha salvato”, mi ha fatto incontrare lo spirito di servizio, di amicizia, tutte cose poco comuni nelle relazioni ordinarie e nella società.
Certamente non sono riuscito ad esprimere in toto quanto sento e vivo, ma suggerisco, a chi fosse interessato, di leggere quella specie di “mappa” esistenziale che è il libro “Sentirsi amati” di Henry Nouwen. Oppure di ascoltare la canzone “Never too far away” dei Newsboys.

From your best moments to your darkest hours
You’re held inside the hands of supernatural power
Don’t you ever forget, you are a child of God

Un saluto a chi mi leggerà, e l’augurio di vivere ciò che la montagna insegna a tutti gli alpinisti: il silenzio, l’incontro con se stessi, il sublime.

Comunità corresponsabili

Pubblichiamo il nuovo editoriale a firma di don Rossano Sala del numero di marzo/aprile di Note di Pastorale Giovanile.

***

Dopo aver impostato l’anno 2024 con il primo editoriale puntato sull’identità missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa e sulla conseguente identità discepolare e missionaria del cristiano[1], proviamo, rimanendo in continuità con quanto già detto, a fare un passo in avanti.
Concentriamo ora la nostra attenzione ora sulla forma relazionale della Chiesa che siamo chiamati a perseguire e sullo stile operativo che il cammino attuale ci chiede di assumere.
Sempre con l’intenzione di accompagnare il processo di preparazione alla seconda sessione del Sinodo universale sulla sinodalità, parto dalla Chiesa come comunità fraterna: qui siamo spinti a riscoprire un volto familiare e fraterno di Chiesa. Declino poi il tema dell’operatività concreta nella logica di una corresponsabilità missionaria.

Verso una riforma familiare e fraterna della Chiesa

Se guardiamo alla qualità relazionale media delle nostre comunità cristiane e alla loro capacità di accoglienza sentiamo che talvolta la fraternità stenta a decollare. “Tessere legami e costruire comunità”[2] non è esattamente il nostro forte, almeno di questi tempi! Quello della fatica della fraternità è un sintomo ecclesiale da non sottovalutare e su cui interrogarsi con coraggio e determinazione.
La tesi che rilancio qui ancora una volta – Repetita iuvant, dicevano i nostri antichi padri latini – è in sé molto semplice, quasi scontata: ogni tema sinodale è un sintomo ecclesiale. Fare un Sinodo universale sulla sinodalità – allo stesso modo di un Sinodo sulla regione panamazzonica, sui giovani, sulla famiglia, sulla nuova evangelizzazione o sulla parola di Dio, per citare solo i temi sinodali trattati negli ultimi 15 anni – è una vera e propria urgenza ecclesiale: non possiamo negare che viviamo una forte fatica relazionale interna ed esterna; che arranchiamo su alcuni fondamentali del dialogo e dell’ascolto; che assistiamo a una conflittualità e a una mancanza di rispetto che a volte ci fanno vergognare; che fatichiamo a vivere e lavorare insieme; che la fraternità stenta a emergere nonostante il desiderio sincero di molti. Abbiamo certo qualche bella “oasi di fraternità”, ma all’interno di uno spazio popolato da tanto individualismo.
Al di là di varie dichiarazioni di principio (la sinodalità come “teoria ecclesiale” innovativa), la prassi sinodale fatica a emergere (cioè mancano autentiche e durature esperienze di sinodalità sul campo). Il passaggio auspicato dal primato delle strutture a quello delle relazioni non si sta ancora realizzando, e in questo modo la Chiesa non riesce a lasciarsi dietro il suo volto freddo e burocratico, e nemmeno quello litigioso e oscuro. Tutti invece sentono il bisogno di vivere in una Chiesa più familiare e amichevole, intessuta di confidenza e buona relazioni, facendo vedere nei fatti che una comunità è prima di tutto una casa serena, ospitale e vivibile per tutti, nessuno escluso.
Eppure su questo il Vangelo è limpido e trasparente. Esso testimonia il primato di un “noi” che diventa forma specifica della testimonianza ecclesiale. È l’agape evangelica che si fa corpo nella relazione fraterna dei credenti, che nel Nuovo Testamento porta il nome di koinonia.
La koinonia è comunione plenaria con i fratelli che hanno accolto la salvezza, che sono entrati nel ritmo del discepolato e che sono chiamati alla medesima vocazione apostolica. L’amore reciproco pare essere la condizione di possibilità di ogni testimonianza che voglia proporsi in modo plausibile, perché un discepolato fraterno rimanda alla sua radice cristologica e rende sincero l’annuncio dell’agape di Dio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»[3]. Come dire: senza questa comunione tra di noi non vi è credibilità della nostra azione pastorale.
Il segno di riconoscimento dell’agape che viene da Dio non è un amore per Gesù e nemmeno un semplice amore per quelli di fuori, ma l’amore reciproco, perché propriamente è questo il “comandamento nuovo”, lasciato da Gesù nel momento centrale della sua vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»[4]. L’amore fraterno appare il primo frutto dell’appropriazione della salvezza, quindi è la fonte e la radice della missione di annuncio dell’Evangelo di Dio: gli altri gesti della fede “testimoniale” avranno senso e saranno efficaci solo se avranno questo come fondamento. Lo splendore della vita cristiana si fa visibile e attraente proprio a partire dalla koinonia in atto così come è mirabilmente descritta nella vita della prima comunità cristiana[5].
Arriviamo a noi. I giovani, durante il cammino sinodale, in molti modi ci hanno sfidato sulla revisione della forma della Chiesa, chiedendoci di renderla sempre più fraterna e familiare. Questo ha prodotto, da una parte, la spinta verso la “sinodalità missionaria”, che ha messo le basi per l’attuale cammino sinodale; dall’altra ci sfida a livello locale a riconoscere che «l’esperienza comunitaria rimane essenziale per i giovani: se da una parte essi hanno “allergia alle istituzioni”, è altrettanto vero che sono alla ricerca di relazioni significative in “comunità autentiche” e di contatti personali con “testimoni luminosi e coerenti”»[6].
Nell’ascolto del popolo di Dio in vista del Sinodo sui giovani le cose erano per me assai chiare e spingevano in tale direzione. Basti, in questa sede, rileggere un numero sintetico dell’Instrumentum laboris sulla questione, che pone l’attenzione al legame tra la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa e la sua stessa riforma:

Un’esperienza familiare di Chiesa
Uno degli esiti più fecondi emersi dalla rinnovata attenzione pastorale alla famiglia vissuta in questi ultimi anni è stata la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa. L’affermazione che Chiesa e parrocchia sono «famiglia di famiglie» (cfr. Amoris laetitia, nn. 87.202) è forte e orientativa rispetto alla sua forma. Ci si riferisce a stili relazionali, dove la famiglia fa da matrice all’esperienza stessa della Chiesa; a modelli formativi di natura spirituale che toccano gli affetti, generano legami e convertono il cuore; a percorsi educativi che impegnano nella difficile ed entusiasmante arte dell’accompagnamento delle giovani generazioni e delle famiglie stesse; alla qualificazione delle celebrazioni, perché nella liturgia si manifesta lo stile di una Chiesa convocata da Dio per essere sua famiglia. Molte Conferenze Episcopali desiderano superare la difficoltà a vivere relazioni significative nella comunità cristiana e chiedono che il Sinodo offra elementi concreti in questa direzione. Una Conferenza Episcopale afferma che «nel bel mezzo della vita rumorosa e caotica molti giovani chiedono alla Chiesa di essere una casa spirituale». Aiutare i giovani a unificare la loro vita continuamente minacciata dall’incertezza, dalla frammentazione e dalla fragilità è oggi decisivo. Per molti giovani che vivono in famiglie fragili e disagiate, è importante che essi percepiscano la Chiesa come una vera famiglia in grado di “adottarli” come figli propri[7].

Ecco allora una prima serie di domande: stiamo lavorando nelle nostre comunità perché siano sempre più familiari e fraterne? Quali passi siamo chiamati a compiere perché esse siano sempre più una casa accogliente, in cui gli affetti e i legami siano vissuti con semplicità e letizia?

Continua a leggere

Abbonamenti

Alcune premesse e chiavi di lettura (del dossier “FARE. DISFARE. RIFARE L’ORATORIO?”)

Dal

***

Stefano Guidi *

L’introduzione che apre questo dossier intende offrire – in premessa – la chiave di lettura dell’intero lavoro. Qui non intendiamo proporre soluzioni a buon mercato, rapide e sicure. Vorremmo invitare ad iniziare un percorso di rinnovamento della forma dell’oratorio che – includendo anche la dimensione immobiliare – lavora sul nucleo essenziale della sua proposta.
Tale introduzione tocca tre punti. Il primo richiama le ragioni che hanno guidato la realizzazione di questo dossier. Il secondo richiama la necessità di collocare la riflessione sulla struttura dell’oratorio all’interno di una revisione sostanziale del progetto educativo dell’oratorio, che prende le mosse dall’incontro con il destinatario e dallo studio del contesto territoriale. Il terzo punto accenna molto brevemente ai criteri qualificanti del discernimento ecclesiale.

Sul primo punto è sufficiente dire questo: il dossier segna un iniziale passo esplicito di riflessione attorno ad un tema che agita e preoccupa molti. Non è forse un caso che la Rivista abbia deciso di affidare questa riflessione iniziale alle diocesi lombarde. Infatti, proprio l’oratorio lombardo rappresenta un caso interessante. Esso si presenta anche (soprattutto) esteriormente come un ambiente riconoscibile, codificato e strutturato. Strettamente connesso al vissuto sia della parrocchia che della comunità civile, e parte integrante della trama che costituisce il tessuto della comunità locale.
Vogliamo quindi aprire esplicitamente la riflessione sull’oratorio inteso come edificio e come struttura visibile, riconoscibile, identificabile. Questa scelta è mossa a sua volta da una constatazione che sta maturando da diversi anni. E cioè: che – sotto il profilo quantitativo – gli oratori lombardi siano sproporzionati e non sempre adeguati. Qualche parola di spiegazione e di approfondimento.
Sono sproporzionati sia rispetto alla popolazione giovanile della regione, sia rispetto alle modalità e ai tempi di socializzazione che questa generazione esprime, sia rispetto alla partecipazione alla vita della comunità religiosa locale che questa generazione pratica. Si avverte poi una certa sproporzione sia rispetto alle energie educative che la parrocchia riesce effettivamente a mettere a disposizione, non solo per l’attività gestionale, ma – punto assai più delicato – per l’attività progettuale, sia rispetto alle forze presbiterali, religiose e laiche effettivamente disponibili al servizio educativo. Precisiamo che questa riflessione si basa non solo o non tanto su sensazioni raccolte dal territorio e dagli operatori, ma più seriamente su studi e ricerche che la giustificano. Studi e ricerche che in parte sono già state svolte e in parte sono in fase di avvio. Va anche detto che la diffusione capillare impressionante degli oratori in Lombardia non risponde ad una logica di affluenza e di riempimento ma di proposta. L’oratorio è indubbiamente tra le espressioni più riuscite e longeve del cattolicesimo popolare nel territorio lombardo, espressione di una Chiesa che si pensa di tutti e per tutti, e che per questo propone a tutti l’esperienza elementare del Vangelo. Occorre cautela e prudenza rispetto all’istinto prevalente – anche tra gli addetti ai lavori – che talvolta tende a liquidare troppo frettolosamente questa modalità ecclesiale definendola come ormai del tutto superata.
Al senso di sproporzione (detto in una parola con una espressione rapida: sono troppi, e sono alternativamente pieni e vuoti) si aggiunge l’intuizione di una certa inadeguatezza. Sul piano specificamente spaziale, l’oratorio lombardo somma in un’unica sede almeno due tipologie di strutture: l’edificio scolastico e l’impianto sportivo. Di cui il primo – per necessità – esprime esplicitamente l’idea di una formazione catechistica statica, razionale e di stampo scolastico. Da fare in un’aula. Come a scuola. Il canone scolastico-sportivo ha avuto l’ovvio vantaggio di integrare con un certo successo altre dimensioni altrettanto costitutive dell’esperienza oratoriana: penso alle esperienze espressive e artistiche (quanti piccoli e grandi teatri praticamente presenti in ogni parrocchia e oratorio!) e a quella di socializzazione e ricreativa, fino ad integrare quella abitativa (le esperienze di vita comune dei giovani).
Questa forma di oratorio, pensato come dispositivo educativo integrato, con il suo impianto complessivo e articolato, ha risposto adeguatamente per decenni a molteplici esigenze educative, sia famigliari che sociali, e soprattutto ecclesiali. La continuità tra l’oratorio e la Chiesa, ossia tra la dimensione educativa-ricreativa e la dimensione religiosa personale e sociale, sembrava essere garantita anche dalla continuità spaziale. Se non sotto il profilo propriamente personale credente, almeno sotto il profilo della intuizione di senso soggiacente a tale esperienza.

* Direttore Fondazione diocesana per gli oratori milanesi; Coordinatore Oratori diocesi lombarde.

Continua a leggere

Abbonamenti

Un anno per pensare

Editoriale del numero gennaio/febbraio 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

***

di don Rossano Sala

Il 2023 è passato molto velocemente. Per la pastorale giovanile certamente sarà ricordato per la Giornata Mondiale della Gioventù. Lisbona è stato un momento importante per la Chiesa tutta dopo la pandemia, perché ha segnato il passo verso un rilancio dell’esperienza di fede condivisa. La Chiesa può davvero essere una Chiesa di tutti e per tutti, come papa Francesco ha detto più volte durante quei giorni in terra lusitana.
La sfida della Giornata Mondiale della Gioventù è quella di mettere a frutto nel quotidiano quell’esperienza di fede attraverso scelte concrete e possibili di appartenenza e impegno come discepoli missionari del Signore Gesù nella propria Chiesa locale. Tutto nella GMG è predisposto perché si diventi sempre più discepoli e sempre meglio apostoli del Signore. Quell’esperienza va fatta fiorire e fruttificare.
Sappiamo che ciò non è scontato.
Per la Chiesa tutta poi c’è stato un momento importante di convocazione, quello della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione. Abbiamo visto com’è andata: c’è stato il tempo per dialogare e ascoltarsi, con la partecipazione di diversi membri del popolo di Dio che hanno potuto portare il loro apporto al discernimento in atto. Abbiamo un Documento di sintesi votato dall’assemblea interessante, anche se ancora interlocutorio.
A questa prima sessione ne seguirà un’altra nell’ottobre del 2024, che certamente sarà chiamata a focalizzare meglio almeno alcune questioni e offrire su di esse orientamenti più puntuali e precisi. Certamente il tempo intermedio tra la prima e la seconda sessione – che è sostanzialmente quest’anno 2024 – non è un tempo vuoto. Sappiamo per esempio che il Concilio Vaticano II si è svolto in quattro sessioni e ha avuto quindi tre momenti intermedi molto fecondi: tempo di approfondimento teologico delle tematiche in discussione, tempo per il confronto tra le diverse parti in campo, tempo di sedimentazione e di preghiera rispetto ai compiti della Chiesa, tempo per fare proposte e per ascoltarsi reciprocamente.
Penso che il 2024 sia un anno di approfondimento ecclesiale, anche perché non ci sono all’orizzonte particolari eventi che in un certo senso potrebbero “disturbare” la pastorale ordinaria e il discernimento sinodale. È un tempo dedicato ad andare in profondità: ci vogliono attenzione e concentrazione, preghiera e studio, intimità e contemplazione. Si tratta di cogliere quali sono le vie verso cui il Signore ci vuole condurre per rimanere all’altezza della nostra chiamata ad essere luce del mondo e sale della terra.
Vorrei in questo editoriale di inizio anno soffermarmi su due aspetti che meritano attenzione specifica e approfondimento necessario. Li considero i due temi fondamentali per il presente e il futuro della Chiesa: il primo verte sull’identità della Chiesa, il secondo su quella del cristiano.

L’identità della Chiesa: missionaria ed evangelizzatrice

La prima, principale e forse l’unica parola dell’attuale pontificato consiste sostanzialmente nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per molti aspetti quanto è seguito a questo importante documento è un insieme di sviluppi coerenti, specificazioni particolari e realizzazioni più o meno complete di questa ispirazione di fondo, che rimane come scenario del pontificato e diapason permanente per ogni successivo passo e decisione.
Penso in maniera specifica al tema fondamentale della conversione missionaria e della svolta evangelizzatrice della Chiesa, che porta con sé ogni altra cosa, perché è uno stile di Chiesa che ne esprime la sua identità propria:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”[1].

Il nucleo rovente di questa proposta affonda le sue radici nel Vangelo: uno ritrova se stesso proprio nel momento in cui perde se stesso attraverso il dono di se stesso. È proprio uscendo da se stessa che la Chiesa ritrova la sua identità più profonda. Di Gesù dicevano che era «fuori di sé»[2], ma se ci pensiamo bene questa affermazione coincide con la pienezza della sua identità, che è perfettamente decentrata e completamente radicata nel Padre suo. Gesù è se stesso solo nella relazione e nel legame con il suo Abbà, nel suo riceversi continuo. La dimensione estatica è quella che gli offre contenuto, sostanza e consistenza.
Solo uscendo da me stesso divento me stesso, questa è la verità del mio essere! Ecco il senso dell’invito fatto ai giovani in Christus vivit, quando vengono spinti a uscire da loro stessi per andare incontro agli altri: «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita. Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio»[3].
Nel tempo del narcisismo generalizzato – vero virus che contagia giovani e adulti, società civile ed ecclesiale, comunità religiose e istituzioni di ogni tipo – l’invito è, non semplicemente, a tirar fuori il meglio di sé, ma ad uscire da se stessi, abbandonando il proprio “io” egoistico e autoreferenziale. È doveroso pensare oggi all’educazione in questo senso: uscire da se stessi, più che tirar fuori il meglio da se stessi!
Tanti documenti cercano poi di realizzare questo nei diversi ambiti della vita della Chiesa. Faccio solo tre esempi, tra i tanti possibili. Primo, la Costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle Università e le Facoltà ecclesiastiche. Lì si dice con chiarezza che il motore del rinnovamento nasce dalla necessità di «imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”»[4]. Secondo, la Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, che con la medesima chiarezza afferma che

in un momento storico in cui la Chiesa si introduce in una nuova tappa evangelizzatrice, che le chiede di costituirsi in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”, il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. Soprattutto, come auspicava già il Concilio, è necessario che il Sinodo, nella consapevolezza che il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale, si impegni a promuovere con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa[5].

Infine, la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla riforma della curia romana, in cui si dice che «nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia Romana» e che «questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo»[6].
In tre ambiti strategici – quello della cultura, quello della sinodalità e quello dell’organizzazione della Curia Romana – è il principio della missione evangelizzatrice che ispira il rinnovamento, spinge alla conversione, propone i cambiamenti necessari. La teologia stessa, secondo Francesco, ha il compito di ripensarsi in ottica missionaria ed evangelizzatrice, perché «a una Chiesa sinodale, missionaria e “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”»[7].
La prima grande domanda a cui rispondere sembra essere questa: quanto e in che modo ci stiamo impegnando per riscoprire l’identità missionaria della Chiesa e il suo compito prioritario, che è l’evangelizzazione?

L’identità del cristiano: discepolo e missionario

Per rimettere al centro il volto missionario della Chiesa e il suo compito essenziale, che è quello dell’evangelizzazione, bisogna che ci impegniamo con serietà nella riscoperta dell’identità propria del cristiano. In sintesi diciamo, con una formula sintetica: siamo “discepoli-missionari”, siamo “tutti discepoli, tutti missionari”, e tutto ciò a partire dalla piattaforma battesimale. Questo lo leggiamo a chiare lettere in un famoso passaggio dell’Evangelii gaudium:

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati[8].

Nella mia esperienza accademica e pastorale di questi ultimi anni vedo che l’accento sul binomio identitario del cristiano è tutto spostato verso la seconda parte. Ovvero si sottolinea con forza, ma a mio parere in forma spesso unilaterale, la dimensione missionaria dell’identità cristiana e si dimentica facilmente il lato del discepolato[9]. Il risultato è che manchiamo di profondità e non abbiamo una base solida per sostenere adeguatamente il nostro apostolato.
Penso che la trasformazione missionaria della Chiesa sarà un’illusione se non ripartiamo dal discepolato. L’identità del cristiano – come quella di Gesù – è prima di tutto filiale e quindi discepolare. Come Gesù è figlio e discepolo del Padre suo, così il cristiano lo è di Gesù. Egli rimane «il primo e il più grande evangelizzatore»[10] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo quando si tratta di ripartire o di dare slancio al proprio cammino di discepoli missionari.
Non possiamo pensare che la questione contemplativa – e anche quella dell’adorazione, su cui papa Francesco ha richiamato diverse volte l’attenzione proprio durante il cammino sinodale in atto – sia altro rispetto alla questione pastorale: è invece da ritenersi fondamentale che per essere efficaci animatori pastorali sia necessario prima essere degli autentici discepoli: è sempre dietro l’angolo il rischio di pensarsi apostoli del Signore senza prima essere suoi discepoli! Ecco perché è necessario uno spirito contemplativo: capace di rimanere ammirato davanti all’Evangelo, sempre stupito di fronte alle opere di Gesù e continuamente rapito dal suo stile unico. Contemplare insieme, seppur brevemente, il suo rapporto con il Padre, la sua vita nascosta a Nazareth e lo stile della sua missione ci offre elementi di rinnovamento sempre antichi e sempre nuovi.
Gesù è amico e confidente del Padre suo che è nei cieli. Il segreto profondo della vita di Gesù sta nel suo rapporto con il Padre, che egli chiama volentieri Abbà. Il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico dei Vangeli è la relazione tra Gesù e il Padre. Spiega J. Ratzinger, introducendo il primo volume del suo Gesù di Nazareth, che

“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi[11].

La relazione incomparabile di Gesù con il suo Abbà illumina e spiega la novità inaudita del suo insegnamento e il coinvolgimento dei discepoli, che propriamente saranno chiamati ad entrare anch’essi, per grazia, in questa filialità: figli nel Figlio. Non sarebbe possibile, eliminando questo legame o mettendolo in disparte, cogliere l’originalità di Gesù, che si può invece percepire in ogni pagina di Vangelo. Per questo Francesco ci invita con forza ad abbeverarci alla fonte della Parola di Dio, perché

tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio “diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale”.
L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria. Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente “Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso”. Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata[12].

Per essere missionari bisogna prima mettersi alla scuola del Signore Gesù: è questo in fondo il senso proprio del discepolato! La missione cristiana non s’improvvisa e senza un’adeguata contemplazione e formazione non siamo altro che dei “dilettanti allo sbaraglio”, missionari senza radicamento in Dio, annunciatori di qualcosa che non abbiamo accolto né assimilato!
L’evangelizzazione – che viene concretizzata storicamente dall’azione pastorale – non è solo in continuità storica rispetto alla rivelazione, ma è generata da quest’ultima. La rivelazione non è solo il suo inizio contingente, ma la sua origine permanente. Ciò significa che non è mai possibile essere missionari separandosi dallo stile, dal metodo e dai contenuti della rivelazione cristologica. Per questo la pastorale, se non affonda le sue radici nella spiritualità e non si sostiene al tronco della formazione, è un albero che non potrà mai portare frutto.
Ecco allora una seconda domanda importante che condivido con i lettori, e da cui invito a partire in questo anno 2024: siamo una comunità che si lascia evangelizzare, prima di divenire evangelizzatrice? Oppure presumiamo di essere missionari senza essere discepoli, ovvero senza un serio cammino di contemplazione, conversione e formazione?

NOTE

[1] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 27.
[2] Cfr. Mc 3,21; Gv 10,20.
[3] Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit del 25 marzo 2019, nn. 163-164.
[4] Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium del 27 dicembre 2017, n. 3.
[5] Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio del 15 settembre 2018, n. 1.
[6] Francesco, Costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 27 dicembre 2022, n. 3.
[7] Francesco, Lettera apostolica in forma di “motu proprio” Ad theologiam promovendam del 1 novembre 2023. «Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo» (ivi).
[8] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 120.
[9] Come esempio recente ci basti vedere, anche solo a livello statistico, come nella Relazione di sintesi della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi al termine della Prima Sessione (4-29 ottobre 2023), compaiano per circa 110 volte i termini che si riferiscono alla missione e invece meno di 15 volte quelli che si riferiscono al discepolato.
[10] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8 dicembre 1975, n. 9; Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 12.
[11] J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano 2007, 10.
[12] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, nn. 174.175.

 

Abbonamenti