Articoli

Introduzione al Dossier “Mettiamo ordine nei nostri affetti”

Da Note di Pastorale Giovanile.

***

Quattro sguardi per accompagnare i giovani oggi

Rossano Sala

Di fronte alla riduzione del corpo a oggetto di esibizione e alla deriva ludica della sessualità, all’enorme confusione affettiva e alla mercificazione dei legami in atto – il tutto accentuato dalla digitalizzazione delle relazioni, che smaterializza e virtualizza ogni cosa – il Dossier che proponiamo cerca di mettere a fuoco l’originario senso degli affetti umani.
Difficile quindi non comprendere quanto sia strategico quello che ci viene offerto. Sappiamo che nella società della distrazione di massa diveniamo sempre più superficiali e quindi meno sensibili nella percezione dei sentimenti altrui[1]. Quelli che erano i cambiamenti moderni nella vita affettiva e sessuale[2] si sono ancora più rapidamente trasformati nel mondo contemporaneo e soprattutto in quello giovanile[3]. Tendenzialmente tutti siamo tentati da un uso commerciale, vetrinistico e intensivo del nostro corpo[4] e, ancora peggio, di aderire inconsciamente alla cultura dello scarto che si allarga a macchia d’olio[5]. L’esito non può che essere la fine della nostra capacità di desiderare e di amare come si deve[6].
La vita di tutti i giorni, purtroppo anche quella ecclesiale, è ricca di controtestimonianze dal punto di vista affettivo. Tanta immaturità relazionale abbonda e si aggira tra noi. Diventa decisivo domandarsi: come possiamo continuare a sentire, amare e pensare nell’era digitale? La rete, offrendoci molte possibilità, contemporaneamente rischia di toglierci, da una parte, quello spirito critico che ha bisogno di concentrazione e distanza riflessiva per essere vigili e reattivi; dall’altra quella sensibilità affettiva e spirituale che rende l’uomo unico e inimitabile. Sono due grandi pericoli di cui essere profondamente consapevoli e a cui rispondere con intelligenza critica e responsabilità etica.
Per queste ragioni entriamo nel mondo degli affetti con competenza e maturità, attraverso quattro sguardi che ci aiuteranno ad orientare la nostra formazione personale e l’azione educativo-pastorale: il primo contestuale, il secondo biblico, il terzo antropologico e il quarto educativo-pastorale.
Fabio Pasqualetti, esperto del mondo della comunicazione, ci guiderà dentro il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, con uno sguardo specifico al mondo dei social media che tanto plasmano la vita affettiva dei giovani oggi.
Gianluca Zurra, teologo ed ecclesiologo, ci farà gustare attraverso alcuni assaggi il modo di sentire del Signore. Il suo sguardo sulla rivelazione ci aiuterà a cogliere l’ordine degli affetti di Gesù, uomo dal sentire divino che partecipa all’amorevolezza infinita del Padre suo.
Paolo Zini, filosofo, mostrerà come la trama e l’ordito dell’umano è affettivo e affettuoso. La centralità del cuore è un dato fondamentale per cogliere il senso dell’antropologia cristiana, che non è mai divisiva ma sempre unificata intorno all’amore e al desiderio di amare e di essere amati.
Gustavo Cavagnari, teologo pastoralista, ci aiuterà a educare i nostri affetti per poter accompagnare i giovani all’arte del vero amore. Non c’è infatti autentica educazione affettiva che non nasca dalla vita buona di coloro che sono chiamati ad educare.
Un’ultima nota “tecnica”, di certo non inutile. I contributi che seguono sono in piena continuità con un importante Dossier pubblicato nel numero di marzo 2022 (SIAMO CORPO. Dall’emergenza al discernimento), dove abbiamo cercato di indagare l’originario del corpo come dono e compito. Lì si era partiti dalla corporeità nell’autocoscienza del nostro tempo e, passando dal legame tra mente e corpo, si è cercato di comprendere il significato del corpo. Arrivando infine al legame tra corpo e liturgia e al corpo come vocazione.

NOTE

[1] Cfr. L. Iotti, 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione, Il saggiatore, Milano 2020.
[2] Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 2008.
[3] Cfr. C.M. Scarcelli, Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet, Franco Angeli, Milano 2015.
[4] V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, facebook, apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano – Udine 2015; Id., Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale dei corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[5] S. Capecchi – E. Ruspini (ed.), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Franco Angeli, Milano 2009.
[6] M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, Mondadori, Milano 2012.

 

Verso il Giubileo della Speranza

Dalla newsletter di Note di Pastorale Giovanile, l’editoriale di don Rossano Sala.

***

I tempi sono maturi

Il 26 novembre 2023, nel messaggio per la 38a Giornata Mondiale della Gioventù papa Francesco concludeva il suo testo con queste parole: «Invito tutti voi, specialmente quanti sono coinvolti nella pastorale giovanile, a riprendere in mano il Documento Finale del 2018 e l’Esortazione apostolica Christus vivit. I tempi sono maturi per fare insieme il punto della situazione e adoperarci con speranza per la piena attuazione di quel Sinodo indimenticabile».
Tale riferimento diventerà per noi il filo rosso degli editoriali di NPG per il 2025, che si prefiggono di prendere sul serio questo invito del Santo Padre, riconoscendo che davvero adesso “i tempi sono maturi”. Perché l’interesse di non dimenticare quel felice e fecondo momento ecclesiale è più che strategico per noi che viviamo di pastorale giovanile. Anzi, sembra che dalle parole del successore di Pietro emerga il desiderio di recepire in pienezza un percorso che per tanti motivi non è stato ancora del tutto preso in carico da chi lo doveva fare. Vi è quindi la necessità di sviluppare le tante potenzialità ancora inespresse da quel Sinodo.
Vale la pena però, prima di rilanciare il metodo, lo stile e i contenuti del cammino sinodale che abbiamo vissuto con e per i giovani dall’ottobre 2016 al marzo del 2019, provare a vedere che cos’è successo alla pastorale giovanile in questi ultimi cinque anni, quelli che vanno dall’inizio del 2020 al termine del 2024, così da renderci conto perché è così importante ripartire con coraggio dall’evento sinodale dedicato ai giovani.

Un quinquennio molto turbolento

A tutti di certo sarà capitato di viaggiare in aereo ad alta quota e sentire la voce del pilota che invitava ad allacciare le cinture in quanto si stava entrando in una fase di “turbolenza”. Eravamo tranquilli, ci stavamo muovendo all’interno dell’aereo, stavamo facendo ciò che meglio pensavamo e abbiamo dovuto riprendere il nostro posto, allacciare le cinture, chiudere il tavolino e metterci in posizione di sicurezza per superare alcuni momenti di agitazione innaturale del velivolo.
Mi sembra una buona immagine per identificare il tempo immediatamente successivo alla conclusione del percorso sinodale con i giovani. Stavamo prendendo le misure e la rincorsa, cercando di comprendere che cosa il Signore avesse voluto dirci con tutto quel movimento innescato nella Chiesa intorno al mondo giovanile, e subito, a nemmeno un anno dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Christus vivit, è arrivata la pandemia in modo tanto inatteso quanto dirompente.
È stata a dire il vero molto più che una turbolenza, perché siamo letteralmente finiti nell’occhio di un ciclone per diversi anni. La pastorale in generale e quella dei giovani in particolare si sono fermate per molti mesi. Tutti ricordano, anche se oramai con una certa distanza e anche distacco, che cosa è successo a noi personalmente, al mondo nel suo insieme e alla vita ordinaria della Chiesa. Siamo entrati in un loop che ci ha in un certo senso risucchiati, paralizzati e frastornati. Da cui per certi aspetti non siamo usciti ancora del tutto.

Una recezione tutt’altro che semplice

Effettivamente a partire dal gennaio 2020 avevamo immaginato un movimento entusiasmante di ricezione, rilancio e potenziamento della pastorale giovanile, spinti dal vento in poppa di un cammino sinodale che aveva dato fiato alle fatiche dei primi anni del terzo millennio, ma che ci sembrava di avere superato.
Avevamo tutta la Chiesa con noi a sostenerci e accompagnarci. Un sinodo dedicato ai giovani è stato un unicum nella storia postconciliare, e non solo in quella storia. Avevamo documenti di qualità con indicazioni rilevanti e perfino profetiche: l’Instrumentum laboris, che faceva il punto della condizione giovanile e della pastorale giovanile, dandoci in mano un quadro di riferimento su scala mondiale che certamente andava poi contestualizzato in ogni territorio, ma che era una bussola assai precisa; avevamo il Documento finale, frutto dell’assemblea sinodale dell’ottobre 2018, ricco della freschezza e della passione di un momento di dialogo e confronto davvero ricco di proposte e stimolante da molti punti di vista; avevamo soprattutto la parola autorevole e propositiva di papa Francesco che aveva ripreso tutto il cammino fatto con l’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, rilanciandolo con originalità, audacia e profondità.
La pandemia ha bloccato praticamente questo cammino, dirottando tutte le nostre energie altrove. Prima di tutto sulla sopravvivenza, e poi nel cercare di immaginare come continuare a fare pastorale giovanile in un contesto così diverso da quello che avevamo fino ad allora vissuto. E la recezione del Sinodo sui giovani è stata messa sullo sfondo, almeno per quegli anni.

Vari tentativi di ripartenza

Il tempo post pandemico è stato vissuto portandosi dietro le ferite accumulate dal tempo della pandemia. Ferite nel corpo fisico e in quello sociale. Ferite affettive e relazionali. Ferite ecclesiali. Tutte cose che non si rimarginano presto e che lasciano il segno a lungo. Soprattutto il bagno di realtà sulla nostra fragilità ha colpito duro. Siamo vulnerabili, non siamo onnipotenti. Non dominiamo davvero il mondo. È bastato poco per metterci in ginocchio, per riscoprirci friabili e debilitati da molti punti di vista, incapaci di risollevarci. È stato un tempo di umiliazione, che purtroppo non sempre ci ha portato a ridiventare umili.
Anche la Chiesa ha preso coscienza della sua debolezza e vulnerabilità. La mancanza della celebrazione in presenza, perno dell’appartenenza e della partecipazione alla vita in Cristo, ha generato i suoi frutti amari: alcuni tentativi di scimmiottare banalmente ciò che non si poteva più vivere realmente ci hanno fatto vergognare, la lontananza dal contatto fisico ha reso il corpo ecclesiale disunito, nervoso e anche lacerato, la mancanza di una pastorale fatta di incontri in carne e ossa ha lasciato strascichi non indifferenti. Il primo è stato quello dell’ampia disaffezione della pratica liturgica seguita alla pandemia, ma il più importante è stato quello della presunta inessenzialità della Chiesa: si poteva vivere senza di essa, questo per molti è stato il punto. Si poteva vivere comunque, anche senza vivere con la Chiesa e nella Chiesa.
La ripartenza è stata dunque difficile. Non è ancora del tutto conclusa. Facciamo ancora fatica a mandare giù quello che abbiamo vissuto. Anche se alcuni segnali luminosi sono arrivati. Per esempio la Giornata Mondiale della Gioventù: al di là di molte aspettative non entusiasmanti da parte di vari attori ecclesiali e civili, è stato un momento in cui la Chiesa ha ripreso coscienza a livello universale che si può andare avanti con speranza, e che i giovani ci sono e ci stanno, che partecipano e appartengono. Che desiderano fare corpo, fare squadra, ed esserci come protagonisti del rinnovamento nella vita della Chiesa.

Siamo arrivati allo snodo del 2025

Ora, dopo questo quinquennio per lo meno “interessante” che ci ha messo alla prova e ci ha riservato molte sorprese, non ultime alcune guerre fino ad alcuni anni fa impensabili che non vedono per ora delle vie di uscita praticabili, siamo davanti al Giubileo della speranza. Si tratta di uno svincolo importante non solo rispetto agli ultimi cinque anni, ma anche rispetto ai 25 anni di inizio di questo agitato Terzo millennio dell’era cristiana.
Il Giubileo ha sempre significato, sia nella storia del popolo d’Israele che nella vita della Chiesa, un’opportunità di cambiare passo, di ripartire in modo nuovo. Un evento di grazia particolarmente abbondante che capovolge le nostre aspettative e offre nuova luce alle nostre prospettive. Un tempo di riconciliazione e di ripartenza, di rinnovato incontro con Dio e solidarietà tra gli uomini.
La stessa venuta del Signore Gesù e l’inizio della sua missione stanno non per nulla sotto il segno e nella luce del Giubileo, perché egli interpreta giustamente la sua presenza nella logica della proclamazione dell’anno di grazia del Signore:

Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,16-21).

Il Giubileo è una rinnovata occasione per ripartire dal Signore Gesù. Quindi è una grande opportunità da tutti i punti di vista. Non ultimo per la pastorale giovanile, che è chiamata a ripartire con speranza, sapendo che il Dio dell’alleanza è ancora disponibile ad entrare in contatto con l’umanità, con tutti i popoli e in particolare con i giovani, da sempre pupilla dei suoi occhi.
Ma di questo, ovvero dell’immensa grazia giubilare, ce ne occuperemo per tutto il 2025. Quindi andiamo avanti con coraggio, cercando di far tesoro di ciò che abbiamo vissuto negli anni scorsi e proiettandoci con speranza e gioia verso gli anni a venire. La Porta Santa, segno di Cristo che ci invita ad entrare in comunione con il Padre, ci aspetta per essere attraversata con fede da noi e da tutti i giovani con cui ci faremo pellegrini in questo anno di grazia.

Pastorale giovanile del quotidiano. Comunità, giovani e scuola

Da Note di Pastorale Giovanile, numero di luglio e agosto.

***

di Rossano Sala

Una lamentela spesso ricorrente

Una delle critiche regolari che vengono rivolte alla pastorale giovanile è la sua concentrazione sugli “eventi”. Il loro primato di visibilità e di organizzazione d’altra parte emerge: pensiamo alla Giornata Mondiale della Gioventù, che è il “grande evento” che ad intermittenza si ripropone. Ma pensiamo anche al prossimo anno giubilare, dove molti momenti riguardanti il mondo giovanile sono già calendarizzati, primo fra tutti il “Giubileo dei giovani” a cavallo tra luglio e agosto 2025.
Tale focus alimenta legittimamente l’idea che la pastorale giovanile sia lontana dalla vita quotidiana dei giovani. E che, in fondo, la Chiesa stessa lo sia. Vite parallele che talvolta si incrociano senza lasciare segni né dall’una né dall’altra parte, mantenendo la divaricazione un dato scontato e incontestabile: la Chiesa nel suo insieme non sembra essere toccata se non tangenzialmente dall’esperienza di fede dei giovani, e i giovani nel loro insieme non entrano nei circuiti ecclesiali se non occasionalmente, ma senza esserne intimamente toccati.
Effettivamente, sulla questione degli “eventi” la riflessione pastorale ha già fatto il punto: se non riescono a fecondare la vita quotidiana sono sostanzialmente avvicinabili all’esperienza di alcune sostanze stupefacenti, come ad esempio all’eroina: quest’ultima fa entrare in un mondo altro e ci fa andare altrove, e non ci aiuta ad affrontare le sfide dell’esistenza. Ci porta ad essere distopici rispetto alla vita quotidiana.

Immersi nel quotidiano dei giovani

Una pastorale giovanile seria e incisiva non ha paura del quotidiano. Non ha timore di vivere e operare dove la vita dei giovani si svolge concretamente. Non teme di giocare sul campo dell’esistenza concreta. Anzi, al contrario e con entusiasmo si posiziona strategicamente lì dove i giovani vivono e crescono, gioiscono e soffrono.
Questo è il caso specifico – e con un grande peso specifico – del mondo della scuola e della formazione professionale. La scuola, lo si deve riconoscere, è uno degli spazi privilegiati in cui la vita di un giovane avviene. Molto del loro tempo tutte le giovani generazioni lo vivono a scuola: luogo di socializzazione primaria, spazio privilegiato di istruzione, casa per la formazione, esperienza di affetti e legami condivisi. Questa è la scuola, anche quella italiana, che con tutti i suoi difetti continua ad essere una struttura accogliente e generativa per i giovani. E non dimentichiamo, per tutti i giovani, nessuno escluso.
Dove la scuola non arriva o non è incisiva lì c’è degrado, criminalità, inciviltà. Lì si cresce allo stato brado, lì tutto diventa possibile. Abbiamo esperienza continua di tutto ciò, perché dove la scuola non riesce a far scattare la scintilla della passione tutto si deprime, si appiattisce e diventa spazio aperto per ogni barbarie.
Questo la pastorale giovanile lo deve vedere, apprezzare e coltivare. E, senza nessuna indecisione, è chiamata a fare alleanza con chi in questo mondo spende la vita da sempre: dirigenti scolastici, insegnanti, educatori e formatori. È strategico più che mai, soprattutto oggi, perché siamo nel tempo della sinodalità!

In alleanza con il mondo della scuola

E così arriviamo al Dossier che viene presentato, curato magistralmente da E. Diaco e E. Cesari. Una pietra miliare che vuole confermare l’interesse della pastorale giovanile per il mondo della scuola. Qui, e non altrove, sta la vera sinodalità, quella capacità di camminare insieme che ci fa crescere tutti. La scuola è uno spazio privilegiato di alleanza, e la nostra Rivista da anni oramai batte questa strada.
Lo ha fatto qualche anno fa – cfr. il Dossier del dicembre 2018, intitolato La Chiesa e la scuola. Un rapporto che viene da lontano e che vuole rinnovarsi alla luce delle nuove sfide pastorali, culturali, educative, reperibile on line sul nostro sito – a cui è seguita una rubrica che ci ha accompagnato dal 2019 al 2022, significativamente intitolata La Chiesa per la scuola, anch’essa completamente on line sul nostro sito.
Tutto materiale di alta qualità facilmente fruibile da non lasciar cadere, ma da legare al Dossier di questo numero di NPG, perché si tratta di una vera continuità e un autentico approfondimento tematico.
Noi a tutto questo ci crediamo! Siamo convinti che il mondo della scuola e quello della pastorale (giovanile, ma non solo) si debbano incontrare, debbano collaborare, siamo chiamati per vocazione a vivere in unità d’intenti un’inclusione reciproca. Se ciò non avviene uno degli ambienti privilegiati della vita dei giovani viene escluso dal nostro raggio d’azione, generando pericolosi cortocircuiti civili ed ecclesiali.

Agenti “in incognito” di pastorale giovanile

Veniamo ora al tema specifico di questo Dossier, ovvero alla focalizzazione sul docente di IRC. Mi piace definirlo un “agente in incognito di pastorale giovanile”. Nell’ordinamento italiano è un professore riconosciuto come tutti gli altri, ma ha la particolarità di avere un legame diretto con la Chiesa, perché secondo il Concordato vigente egli deve avere un’approvazione ecclesiastica, oltre che i titoli adeguati derivanti da una formazione specifica.
È una doppia appartenenza la sua, civile ed ecclesiale. E se il suo compito è primariamente legato ad una presentazione “culturale” del fenomeno religioso in generale e del cristianesimo in particolare – chi potrebbe vivere non solo in Italia, ma anche nel mondo attuale, senza conoscere la storia (e il presente) delle istituzioni religiose e dei dinamismi di ricerca spirituale dell’umanità tutta? – non possiamo pensare che la sua presenza sia pastoralmente insignificante.
È esattamente vero il contrario. Egli è mandato dalla Chiesa per dire la verità della fede. Senza alcun intento proselitistico, ma con una missione di verità e di chiarezza. Per combattere l’ignoranza religiosa, per istruire sul fenomeno permanente e pervasivo della fede, per mostrare come essa ha plasmato il mondo in cui viviamo e come dobbiamo sempre fare i conti con i suoi dinamismi.
Un autentico docente di IRC vive di una missione ecclesiale e cerca di farla emergere entro i confini del suo ruolo istituzionale. Non confonde il suo ruolo con quello del catechista parrocchiale e nemmeno con il predicatore carismatico, ma fa valere lo spessore culturale del cristianesimo con professionalità impeccabile, passione profonda e sapienza pedagogica.

Parte di una comunità di fede

Il Dossier che segue ha anche – ultimo ma non ultimo! – un’intenzionalità decisiva: quella di riportare il mondo della scuola, l’insegnamento dell’IRC e la pastorale giovanile in dialogo e all’interno di una comunità cristiana che sa riconoscere e vivere la sua apertura verso il mondo.
La pastorale della scuola è una “pastorale in uscita”, ovvero capace di vivere in un contesto non direttamente legato alla comunità cristiana, ma con i tratti assunti dalla frequentazione della vita della Chiesa. È la Chiesa missionaria questa, che sa abbattere le barriere per essere presente altrove, ma senza abbandonare gli stili amorevoli e i passi educativi imparati dalla frequentazione della pedagogia della fede che affonda le sue radici nel vangelo.
Pedagogia che sa coltivare la certezza che non di solo pane vive l’uomo, e che questo fa parte dell’umano che è comune a tutti gli uomini. Proprio così: si sta nel mondo della scuola da cristiani quando si insegna che non solo di istruzione vivono i ragazzi, adolescenti e i giovani, che per loro natura sono creati per l’infinito e nessun sapere potrà mai saziare la loro inquietudine spirituale. Aprire spiragli di trascendenza nel mondo della scuola e della formazione professionale è l’impegno prioritario di un docente di IRC.
E questo lo si fa a nome e per conto di una Chiesa locale che ha a cuore i giovani: tutti i giovani, nessuno escluso. È importante, anzi decisivo, per un docente di IRC essere e sentirsi parte di una comunità. Purtroppo spesso ciò non capita, soprattutto quando un docente non partecipa alla vita di fede e al cammino di una comunità locale e di una Chiesa particolare.
Altrettanto importante per una comunità cristiana è riconoscere, sostenere e accompagnare queste persone che si impegnano con la Chiesa e per la Chiesa. Non solo con corsi di aggiornamento specifici, ma soprattutto con cammini ecclesiali di appartenenza e di condivisione. A loro modo, tutti i docenti di IRC sono missionari dei giovani. Possono fare molto se non vengono lasciati soli.

Abbonamenti

“Attesi dal suo amore”: pronto il Quaderno di lavoro MGS 2024/2025

“Attesi dal suo amore”: il Quaderno di Lavoro MGS 2024/2025 è pronto. Frutto del lavoro della Consulta MGS e della Segreteria Nazionale MGS, il Quaderno è stato scritto da  don Rossano Sala.

Si legge nelle pagine introduttive:

Nel pellegrinaggio giubilare siamo attesi dal suo amore, siamo chiamati a raggiungere e attraversare la Porta Santa che ci ripropone l’esperienza di essere attesi, accolti e abbracciati dal Dio della grazia e della misericordia. L’esperienza sarà simile a quella del figlio prodigo che ritorna alla casa del padre e prende coscienza di essere da sempre atteso dal suo amore. Lì si ritrova gioia e speranza. Don Bosco si fa casa e abbraccio per i primi giovani che
incontra nel carcere e nella periferia degradata di Torino. Offre a loro l’esperienza dell’oratorio, che per tutti coloro che lo frequentano è famiglia e parrocchia. Famiglia per chi non ha famiglia e parrocchia per chi non ha parrocchia. Nell’oratorio c’è l’amore di Dio che attende, accoglie, ascolta e abbraccia. Lì i giovani sono attesi dal suo amore. Lì ritrovano vita e speranza.

Per acquistarne delle delle copie, si può inviare la richiesta con il numero di quaderni  a segretariogeneralecisi@donboscoitalia.it

 

Attenzione antropologica e proposte pedagogiche

Dal nuovo numero di Note di Pastorale Giovanile, la presentazione del nuovo dossier a firma di don Rossano Sala.

***

Un Dossier di stampo e stile genuinamente pedagogico è una bella occasione per riflettere su temi educativi che, sappiamo, sono parte integrante dell’assetto strutturale della pastorale giovanile. Nel Dossier di questo numero di NPG il prof. Raffaele Mantegazza, pedagogista di rara finezza e da sempre amico della nostra rivista, individua tre “buchi neri” dell’educazione: la storia, la politica, la teoria. Avere la memoria corta o perderla del tutto, dimenticare la nostra natura di esseri sociali e pensare poco o male sono tre tarli della pedagogia che l’hanno depotenziata, afferma il nostro. Non possiamo che convenire su questa analisi e appoggiarlo con convinzione nelle proposte che avanza.
L’immagine del “buco nero” è decisamente forte: qualcosa viene attirato, risucchiato e infine annichilito. E non sono cose da poco la buona memoria, la partecipazione attiva, l’intelligenza critica. Perderle significa lasciarsi vincere dal presentismo, dall’autoreferenzialità e dalla superficialità. Tre istanze che ci rimandano a temi di natura antropologica e che, a mio parere, evidenziano che le attuali emergenze educative che stiamo affrontando affondano le loro radici ultime in un terreno genuinamente umano.
Nelle riflessioni che seguono vorrei mostrare quanto l’attenzione antropologica sia decisiva per qualificare la proposta pedagogica. La tesi che porto avanti è molto semplice: ogni emergenza educativa affonda le sue radici in una disattenzione o riduzione antropologica. Tale idea è ben rinvenibile nel percorso storico che la Chiesa ha fatto negli ultimi vent’anni. A partire da Benedetto XVI, che nel lontano 2007 lanciò l’espressione “emergenza educativa”, possiamo seguire un filo rosso che ci porta fino a noi. Proviamo a ripercorrere insieme, seppur per brevi cenni, questa strada.

Benedetto XVI e l’emergenza educativa

Con coraggio apostolico e intelligenza profetica, papa Benedetto XVI attraverso una memorabile lettera alla diocesi alla città di Roma “sul compito urgente dell’educazione”, ha chiarito una volta per tutte la posta in gioco della questione e le sue possibili conseguenze in ambito ecclesiale e civile. È una lettera che in un certo senso raccoglie e ordina il disagio diffuso e conferma un immaginario sociale ed ecclesiale condiviso: «Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”»[1].
È interessante per noi andare a vedere come Benedetto XVI, pur rilevando tutta una serie di questioni pratiche legate all’educazione, vada al cuore antropologico e perfino teologico del problema evidenziando la radice ultima dell’emergenza educativa in atto. La tentazione di rinunciare all’opera educativa dipende, per il pontefice tedesco, non solo da questioni tangenziali o da difficoltà circoscritte, ma da un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita[2].

In ultima analisi tutto ciò rimanda a Dio, che in un’antropologia cristiana non può che essere il destino ultimo dell’uomo. Proprio l’educazione, nel senso più nobile e alto del termine, rimanda a Dio. Egli è il grande educatore del suo popolo e insieme offre speranza certa e sostegno efficace a questo compito inderogabile: «Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita[3].

Un decennio dedicato all’educazione

Prima ancora che la diocesi di Roma, è l’Italia nel suo insieme che si sente interpellata dalle parole profetiche del papa teologo. Nella Conferenza Episcopale Italiana stava allora terminando un decennio dedicato a Comunicare il vangelo in un mondo che cambia e si sta pensando agli orientamenti per il prossimo decennio in arrivo. Tra le tante possibilità prende corpo, nel dialogo e nel confronto, la necessità di concentrare la propria attenzione esattamente sull’educazione. E il punto di partenza, la bussola orientativa, la stella polare viene riconosciuta in quella lettera.
Gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, significativamente intitolati “Educare alla vita buona del vangelo” sono il tentativo di rendere sistemica e comunitaria l’intuizione ratzingeriana intorno all’emergenza educativa, attenzione che il Santo Padre non cessava di ribadire ad ogni incontro programmatico con l’episcopato italiano. Tale debito di riconoscenza è affermato fin dall’inizio del documento programmatico: «È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale»[4].
Gli orientamenti pastorali appaiono operativi: il testo si sviluppa in cinque capitoli: il primo legato al contesto attuale, il secondo ad alcuni spunti di teologia dell’educazione, il terzo alla pratica educativa, il quarto alla Chiesa definita “comunità educante”, e il quinto orientato alla progettazione pastorale. Nell’insieme sembra essere un grande appello alla comunità cristiana perché ritrovi audacia e passione per un compito educativo che non affascina più il mondo degli adulti, talvolta più ripiegati su loro stessi piuttosto che aperti all’accoglienza delle giovani generazioni.

Continua a leggere

e

Abbonamenti

Comunità corresponsabili

Pubblichiamo il nuovo editoriale a firma di don Rossano Sala del numero di marzo/aprile di Note di Pastorale Giovanile.

***

Dopo aver impostato l’anno 2024 con il primo editoriale puntato sull’identità missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa e sulla conseguente identità discepolare e missionaria del cristiano[1], proviamo, rimanendo in continuità con quanto già detto, a fare un passo in avanti.
Concentriamo ora la nostra attenzione ora sulla forma relazionale della Chiesa che siamo chiamati a perseguire e sullo stile operativo che il cammino attuale ci chiede di assumere.
Sempre con l’intenzione di accompagnare il processo di preparazione alla seconda sessione del Sinodo universale sulla sinodalità, parto dalla Chiesa come comunità fraterna: qui siamo spinti a riscoprire un volto familiare e fraterno di Chiesa. Declino poi il tema dell’operatività concreta nella logica di una corresponsabilità missionaria.

Verso una riforma familiare e fraterna della Chiesa

Se guardiamo alla qualità relazionale media delle nostre comunità cristiane e alla loro capacità di accoglienza sentiamo che talvolta la fraternità stenta a decollare. “Tessere legami e costruire comunità”[2] non è esattamente il nostro forte, almeno di questi tempi! Quello della fatica della fraternità è un sintomo ecclesiale da non sottovalutare e su cui interrogarsi con coraggio e determinazione.
La tesi che rilancio qui ancora una volta – Repetita iuvant, dicevano i nostri antichi padri latini – è in sé molto semplice, quasi scontata: ogni tema sinodale è un sintomo ecclesiale. Fare un Sinodo universale sulla sinodalità – allo stesso modo di un Sinodo sulla regione panamazzonica, sui giovani, sulla famiglia, sulla nuova evangelizzazione o sulla parola di Dio, per citare solo i temi sinodali trattati negli ultimi 15 anni – è una vera e propria urgenza ecclesiale: non possiamo negare che viviamo una forte fatica relazionale interna ed esterna; che arranchiamo su alcuni fondamentali del dialogo e dell’ascolto; che assistiamo a una conflittualità e a una mancanza di rispetto che a volte ci fanno vergognare; che fatichiamo a vivere e lavorare insieme; che la fraternità stenta a emergere nonostante il desiderio sincero di molti. Abbiamo certo qualche bella “oasi di fraternità”, ma all’interno di uno spazio popolato da tanto individualismo.
Al di là di varie dichiarazioni di principio (la sinodalità come “teoria ecclesiale” innovativa), la prassi sinodale fatica a emergere (cioè mancano autentiche e durature esperienze di sinodalità sul campo). Il passaggio auspicato dal primato delle strutture a quello delle relazioni non si sta ancora realizzando, e in questo modo la Chiesa non riesce a lasciarsi dietro il suo volto freddo e burocratico, e nemmeno quello litigioso e oscuro. Tutti invece sentono il bisogno di vivere in una Chiesa più familiare e amichevole, intessuta di confidenza e buona relazioni, facendo vedere nei fatti che una comunità è prima di tutto una casa serena, ospitale e vivibile per tutti, nessuno escluso.
Eppure su questo il Vangelo è limpido e trasparente. Esso testimonia il primato di un “noi” che diventa forma specifica della testimonianza ecclesiale. È l’agape evangelica che si fa corpo nella relazione fraterna dei credenti, che nel Nuovo Testamento porta il nome di koinonia.
La koinonia è comunione plenaria con i fratelli che hanno accolto la salvezza, che sono entrati nel ritmo del discepolato e che sono chiamati alla medesima vocazione apostolica. L’amore reciproco pare essere la condizione di possibilità di ogni testimonianza che voglia proporsi in modo plausibile, perché un discepolato fraterno rimanda alla sua radice cristologica e rende sincero l’annuncio dell’agape di Dio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»[3]. Come dire: senza questa comunione tra di noi non vi è credibilità della nostra azione pastorale.
Il segno di riconoscimento dell’agape che viene da Dio non è un amore per Gesù e nemmeno un semplice amore per quelli di fuori, ma l’amore reciproco, perché propriamente è questo il “comandamento nuovo”, lasciato da Gesù nel momento centrale della sua vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»[4]. L’amore fraterno appare il primo frutto dell’appropriazione della salvezza, quindi è la fonte e la radice della missione di annuncio dell’Evangelo di Dio: gli altri gesti della fede “testimoniale” avranno senso e saranno efficaci solo se avranno questo come fondamento. Lo splendore della vita cristiana si fa visibile e attraente proprio a partire dalla koinonia in atto così come è mirabilmente descritta nella vita della prima comunità cristiana[5].
Arriviamo a noi. I giovani, durante il cammino sinodale, in molti modi ci hanno sfidato sulla revisione della forma della Chiesa, chiedendoci di renderla sempre più fraterna e familiare. Questo ha prodotto, da una parte, la spinta verso la “sinodalità missionaria”, che ha messo le basi per l’attuale cammino sinodale; dall’altra ci sfida a livello locale a riconoscere che «l’esperienza comunitaria rimane essenziale per i giovani: se da una parte essi hanno “allergia alle istituzioni”, è altrettanto vero che sono alla ricerca di relazioni significative in “comunità autentiche” e di contatti personali con “testimoni luminosi e coerenti”»[6].
Nell’ascolto del popolo di Dio in vista del Sinodo sui giovani le cose erano per me assai chiare e spingevano in tale direzione. Basti, in questa sede, rileggere un numero sintetico dell’Instrumentum laboris sulla questione, che pone l’attenzione al legame tra la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa e la sua stessa riforma:

Un’esperienza familiare di Chiesa
Uno degli esiti più fecondi emersi dalla rinnovata attenzione pastorale alla famiglia vissuta in questi ultimi anni è stata la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa. L’affermazione che Chiesa e parrocchia sono «famiglia di famiglie» (cfr. Amoris laetitia, nn. 87.202) è forte e orientativa rispetto alla sua forma. Ci si riferisce a stili relazionali, dove la famiglia fa da matrice all’esperienza stessa della Chiesa; a modelli formativi di natura spirituale che toccano gli affetti, generano legami e convertono il cuore; a percorsi educativi che impegnano nella difficile ed entusiasmante arte dell’accompagnamento delle giovani generazioni e delle famiglie stesse; alla qualificazione delle celebrazioni, perché nella liturgia si manifesta lo stile di una Chiesa convocata da Dio per essere sua famiglia. Molte Conferenze Episcopali desiderano superare la difficoltà a vivere relazioni significative nella comunità cristiana e chiedono che il Sinodo offra elementi concreti in questa direzione. Una Conferenza Episcopale afferma che «nel bel mezzo della vita rumorosa e caotica molti giovani chiedono alla Chiesa di essere una casa spirituale». Aiutare i giovani a unificare la loro vita continuamente minacciata dall’incertezza, dalla frammentazione e dalla fragilità è oggi decisivo. Per molti giovani che vivono in famiglie fragili e disagiate, è importante che essi percepiscano la Chiesa come una vera famiglia in grado di “adottarli” come figli propri[7].

Ecco allora una prima serie di domande: stiamo lavorando nelle nostre comunità perché siano sempre più familiari e fraterne? Quali passi siamo chiamati a compiere perché esse siano sempre più una casa accogliente, in cui gli affetti e i legami siano vissuti con semplicità e letizia?

Continua a leggere

Abbonamenti

Un anno per pensare

Editoriale del numero gennaio/febbraio 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

***

di don Rossano Sala

Il 2023 è passato molto velocemente. Per la pastorale giovanile certamente sarà ricordato per la Giornata Mondiale della Gioventù. Lisbona è stato un momento importante per la Chiesa tutta dopo la pandemia, perché ha segnato il passo verso un rilancio dell’esperienza di fede condivisa. La Chiesa può davvero essere una Chiesa di tutti e per tutti, come papa Francesco ha detto più volte durante quei giorni in terra lusitana.
La sfida della Giornata Mondiale della Gioventù è quella di mettere a frutto nel quotidiano quell’esperienza di fede attraverso scelte concrete e possibili di appartenenza e impegno come discepoli missionari del Signore Gesù nella propria Chiesa locale. Tutto nella GMG è predisposto perché si diventi sempre più discepoli e sempre meglio apostoli del Signore. Quell’esperienza va fatta fiorire e fruttificare.
Sappiamo che ciò non è scontato.
Per la Chiesa tutta poi c’è stato un momento importante di convocazione, quello della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione. Abbiamo visto com’è andata: c’è stato il tempo per dialogare e ascoltarsi, con la partecipazione di diversi membri del popolo di Dio che hanno potuto portare il loro apporto al discernimento in atto. Abbiamo un Documento di sintesi votato dall’assemblea interessante, anche se ancora interlocutorio.
A questa prima sessione ne seguirà un’altra nell’ottobre del 2024, che certamente sarà chiamata a focalizzare meglio almeno alcune questioni e offrire su di esse orientamenti più puntuali e precisi. Certamente il tempo intermedio tra la prima e la seconda sessione – che è sostanzialmente quest’anno 2024 – non è un tempo vuoto. Sappiamo per esempio che il Concilio Vaticano II si è svolto in quattro sessioni e ha avuto quindi tre momenti intermedi molto fecondi: tempo di approfondimento teologico delle tematiche in discussione, tempo per il confronto tra le diverse parti in campo, tempo di sedimentazione e di preghiera rispetto ai compiti della Chiesa, tempo per fare proposte e per ascoltarsi reciprocamente.
Penso che il 2024 sia un anno di approfondimento ecclesiale, anche perché non ci sono all’orizzonte particolari eventi che in un certo senso potrebbero “disturbare” la pastorale ordinaria e il discernimento sinodale. È un tempo dedicato ad andare in profondità: ci vogliono attenzione e concentrazione, preghiera e studio, intimità e contemplazione. Si tratta di cogliere quali sono le vie verso cui il Signore ci vuole condurre per rimanere all’altezza della nostra chiamata ad essere luce del mondo e sale della terra.
Vorrei in questo editoriale di inizio anno soffermarmi su due aspetti che meritano attenzione specifica e approfondimento necessario. Li considero i due temi fondamentali per il presente e il futuro della Chiesa: il primo verte sull’identità della Chiesa, il secondo su quella del cristiano.

L’identità della Chiesa: missionaria ed evangelizzatrice

La prima, principale e forse l’unica parola dell’attuale pontificato consiste sostanzialmente nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per molti aspetti quanto è seguito a questo importante documento è un insieme di sviluppi coerenti, specificazioni particolari e realizzazioni più o meno complete di questa ispirazione di fondo, che rimane come scenario del pontificato e diapason permanente per ogni successivo passo e decisione.
Penso in maniera specifica al tema fondamentale della conversione missionaria e della svolta evangelizzatrice della Chiesa, che porta con sé ogni altra cosa, perché è uno stile di Chiesa che ne esprime la sua identità propria:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”[1].

Il nucleo rovente di questa proposta affonda le sue radici nel Vangelo: uno ritrova se stesso proprio nel momento in cui perde se stesso attraverso il dono di se stesso. È proprio uscendo da se stessa che la Chiesa ritrova la sua identità più profonda. Di Gesù dicevano che era «fuori di sé»[2], ma se ci pensiamo bene questa affermazione coincide con la pienezza della sua identità, che è perfettamente decentrata e completamente radicata nel Padre suo. Gesù è se stesso solo nella relazione e nel legame con il suo Abbà, nel suo riceversi continuo. La dimensione estatica è quella che gli offre contenuto, sostanza e consistenza.
Solo uscendo da me stesso divento me stesso, questa è la verità del mio essere! Ecco il senso dell’invito fatto ai giovani in Christus vivit, quando vengono spinti a uscire da loro stessi per andare incontro agli altri: «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita. Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio»[3].
Nel tempo del narcisismo generalizzato – vero virus che contagia giovani e adulti, società civile ed ecclesiale, comunità religiose e istituzioni di ogni tipo – l’invito è, non semplicemente, a tirar fuori il meglio di sé, ma ad uscire da se stessi, abbandonando il proprio “io” egoistico e autoreferenziale. È doveroso pensare oggi all’educazione in questo senso: uscire da se stessi, più che tirar fuori il meglio da se stessi!
Tanti documenti cercano poi di realizzare questo nei diversi ambiti della vita della Chiesa. Faccio solo tre esempi, tra i tanti possibili. Primo, la Costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle Università e le Facoltà ecclesiastiche. Lì si dice con chiarezza che il motore del rinnovamento nasce dalla necessità di «imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”»[4]. Secondo, la Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, che con la medesima chiarezza afferma che

in un momento storico in cui la Chiesa si introduce in una nuova tappa evangelizzatrice, che le chiede di costituirsi in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”, il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. Soprattutto, come auspicava già il Concilio, è necessario che il Sinodo, nella consapevolezza che il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale, si impegni a promuovere con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa[5].

Infine, la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla riforma della curia romana, in cui si dice che «nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia Romana» e che «questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo»[6].
In tre ambiti strategici – quello della cultura, quello della sinodalità e quello dell’organizzazione della Curia Romana – è il principio della missione evangelizzatrice che ispira il rinnovamento, spinge alla conversione, propone i cambiamenti necessari. La teologia stessa, secondo Francesco, ha il compito di ripensarsi in ottica missionaria ed evangelizzatrice, perché «a una Chiesa sinodale, missionaria e “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”»[7].
La prima grande domanda a cui rispondere sembra essere questa: quanto e in che modo ci stiamo impegnando per riscoprire l’identità missionaria della Chiesa e il suo compito prioritario, che è l’evangelizzazione?

L’identità del cristiano: discepolo e missionario

Per rimettere al centro il volto missionario della Chiesa e il suo compito essenziale, che è quello dell’evangelizzazione, bisogna che ci impegniamo con serietà nella riscoperta dell’identità propria del cristiano. In sintesi diciamo, con una formula sintetica: siamo “discepoli-missionari”, siamo “tutti discepoli, tutti missionari”, e tutto ciò a partire dalla piattaforma battesimale. Questo lo leggiamo a chiare lettere in un famoso passaggio dell’Evangelii gaudium:

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati[8].

Nella mia esperienza accademica e pastorale di questi ultimi anni vedo che l’accento sul binomio identitario del cristiano è tutto spostato verso la seconda parte. Ovvero si sottolinea con forza, ma a mio parere in forma spesso unilaterale, la dimensione missionaria dell’identità cristiana e si dimentica facilmente il lato del discepolato[9]. Il risultato è che manchiamo di profondità e non abbiamo una base solida per sostenere adeguatamente il nostro apostolato.
Penso che la trasformazione missionaria della Chiesa sarà un’illusione se non ripartiamo dal discepolato. L’identità del cristiano – come quella di Gesù – è prima di tutto filiale e quindi discepolare. Come Gesù è figlio e discepolo del Padre suo, così il cristiano lo è di Gesù. Egli rimane «il primo e il più grande evangelizzatore»[10] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo quando si tratta di ripartire o di dare slancio al proprio cammino di discepoli missionari.
Non possiamo pensare che la questione contemplativa – e anche quella dell’adorazione, su cui papa Francesco ha richiamato diverse volte l’attenzione proprio durante il cammino sinodale in atto – sia altro rispetto alla questione pastorale: è invece da ritenersi fondamentale che per essere efficaci animatori pastorali sia necessario prima essere degli autentici discepoli: è sempre dietro l’angolo il rischio di pensarsi apostoli del Signore senza prima essere suoi discepoli! Ecco perché è necessario uno spirito contemplativo: capace di rimanere ammirato davanti all’Evangelo, sempre stupito di fronte alle opere di Gesù e continuamente rapito dal suo stile unico. Contemplare insieme, seppur brevemente, il suo rapporto con il Padre, la sua vita nascosta a Nazareth e lo stile della sua missione ci offre elementi di rinnovamento sempre antichi e sempre nuovi.
Gesù è amico e confidente del Padre suo che è nei cieli. Il segreto profondo della vita di Gesù sta nel suo rapporto con il Padre, che egli chiama volentieri Abbà. Il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico dei Vangeli è la relazione tra Gesù e il Padre. Spiega J. Ratzinger, introducendo il primo volume del suo Gesù di Nazareth, che

“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi[11].

La relazione incomparabile di Gesù con il suo Abbà illumina e spiega la novità inaudita del suo insegnamento e il coinvolgimento dei discepoli, che propriamente saranno chiamati ad entrare anch’essi, per grazia, in questa filialità: figli nel Figlio. Non sarebbe possibile, eliminando questo legame o mettendolo in disparte, cogliere l’originalità di Gesù, che si può invece percepire in ogni pagina di Vangelo. Per questo Francesco ci invita con forza ad abbeverarci alla fonte della Parola di Dio, perché

tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio “diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale”.
L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria. Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente “Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso”. Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata[12].

Per essere missionari bisogna prima mettersi alla scuola del Signore Gesù: è questo in fondo il senso proprio del discepolato! La missione cristiana non s’improvvisa e senza un’adeguata contemplazione e formazione non siamo altro che dei “dilettanti allo sbaraglio”, missionari senza radicamento in Dio, annunciatori di qualcosa che non abbiamo accolto né assimilato!
L’evangelizzazione – che viene concretizzata storicamente dall’azione pastorale – non è solo in continuità storica rispetto alla rivelazione, ma è generata da quest’ultima. La rivelazione non è solo il suo inizio contingente, ma la sua origine permanente. Ciò significa che non è mai possibile essere missionari separandosi dallo stile, dal metodo e dai contenuti della rivelazione cristologica. Per questo la pastorale, se non affonda le sue radici nella spiritualità e non si sostiene al tronco della formazione, è un albero che non potrà mai portare frutto.
Ecco allora una seconda domanda importante che condivido con i lettori, e da cui invito a partire in questo anno 2024: siamo una comunità che si lascia evangelizzare, prima di divenire evangelizzatrice? Oppure presumiamo di essere missionari senza essere discepoli, ovvero senza un serio cammino di contemplazione, conversione e formazione?

NOTE

[1] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 27.
[2] Cfr. Mc 3,21; Gv 10,20.
[3] Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit del 25 marzo 2019, nn. 163-164.
[4] Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium del 27 dicembre 2017, n. 3.
[5] Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio del 15 settembre 2018, n. 1.
[6] Francesco, Costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 27 dicembre 2022, n. 3.
[7] Francesco, Lettera apostolica in forma di “motu proprio” Ad theologiam promovendam del 1 novembre 2023. «Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo» (ivi).
[8] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 120.
[9] Come esempio recente ci basti vedere, anche solo a livello statistico, come nella Relazione di sintesi della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi al termine della Prima Sessione (4-29 ottobre 2023), compaiano per circa 110 volte i termini che si riferiscono alla missione e invece meno di 15 volte quelli che si riferiscono al discepolato.
[10] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8 dicembre 1975, n. 9; Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 12.
[11] J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano 2007, 10.
[12] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, nn. 174.175.

 

Abbonamenti

Gratitudine e fiducia. Un importante passaggio di testimone

Dal numero di dicembre di Note di Pastorale Giovanile.

***

di don Rossano Sala

È un momento delicato e strategico per la pastorale giovanile che è in Italia. Don Michele Falabretti ha appena terminato il suo mandato alla guida del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile della Conferenza Italiana. Un percorso che è durato undici anni. Don Riccardo Pincerato gli subentra in questo incarico.
Per noi di NPG è anche un cambio di vicedirettore, perché d. Riccardo prende il posto di d. Michele anche nell’organigramma redazionale della nostra rivista. Insieme a d. Elio Cesari, coordinatore della pastorale giovanile salesiana in Italia (nominato a luglio 2023 in sostituzione di d. Roberto Dal Molin), cambiano così entrambi i vicedirettori della nostra rivista. Rimane stabile il sottoscritto come Direttore e soprattutto l’inamovibile d. Giancarlo De Nicolò, da sempre affidabile e preciso redattore.
È un bell’avvicendamento che ci offre un’occasione propizia per ringraziare chi ha camminato insieme con noi in questi anni e per augurare buon inizio a chi si affaccia verso un impegno di tutto rispetto. Insieme ci aiuta ancora una volta a ricordarci che coloro che assumono un servizio lo fanno a beneficio di tutti e per la crescita di tutti. L’autorità, lo sappiamo, non è mai un privilegio che rende superiori agli altri, ma un’occasione di servizio a cui si è chiamati per l’edificazione e il cammino di tutti, nessuno escluso.

Gratitudine

La prima parola che sgorga dal mio e dal cuore di tanti di noi è certamente “gratitudine”. D. Michele ci ha messo corpo e anima in questo incarico. Lo ricordo al suo primo convegno di pastorale giovanile come Direttore del Servizio Nazionale, organizzato a Genova. Eravamo nel febbraio del 2014 e non vi ha potuto partecipare dal vivo, perché collegato dal letto dell’ospedale di Bergamo dove si stava curando da una malattia non semplice da affrontare, da cui ne è poi uscito vincitore e più forte che mai. E poi lo rivedo nell’ultimo incontro di redazione di NPG – era il luglio 2023 – a fare il punto dopo undici anni di servizio attraverso lo snocciolarsi degli argomenti dell’intervista che ora offriamo ai lettori, nel Dossier che segue questo editoriale.
Abbiamo camminato insieme. La sinodalità l’abbiamo praticata senza averla troppo tematizzata: abbiamo vissuto momenti entusiasmanti – le diverse GMG, il cammino del Sinodo per e con i giovani, alcuni convegni illuminanti – e anche stagioni faticose – l’esperienza della pandemia, la fatica della nostra rivista che necessitava di un ripensamento in vista di un rilancio, l’emergenza educativa che sempre ci ha accompagnato come filo rosso in tutti questi anni. Abbiamo affrontato le cose con coraggio e con le risorse che avevamo a disposizione, evidentemente anche con i nostri limiti. Ne abbiamo fatta di strada, e di tutto questo siamo felici.
D. Michele è stato protagonista di una stagione di pastorale giovanile in Italia, così come Niccolò Anselmi della precedente, Paolo Giulietti e Domenico Sigalini rispettivamente di quelle ancora precedenti. Tutti e tre, questi ultimi, divenuti vescovi: un chiaro riconoscimento del loro impegno qualificato sul campo e della loro anima pastorale. Tutti amici, collaboratori e sostenitori di NPG, che tanto ha fatto per la nascita del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile: dai primi dialoghi sulla necessità di un coordinamento nazionale risalenti all’anno centenario della morte di don Bosco, alla nascita del Servizio nei primi anni ‘90, al sostengo mai mancato. Trent’anni di storia bella, entusiasmante, feconda.
Camminare insieme, Servizio Nazionale e NPG, ha sempre significato fecondarsi e arricchirsi reciprocamente: è stato, e siamo certi che continuerà ad esserlo, un bel laboratorio tra pensiero e azione, tra riflessione critica e azione pratica, tra pratiche pastorali e riletture critiche. È un circolo virtuoso, che fa bene a tutti: il pensiero aiuta l’azione ad essere intelligente e lungimirante, e l’azione aiuta il pensiero ad occuparsi della realtà concreta e a non perdersi in teorie astratte, in fantasie o illusioni. È una correzione e una purificazione reciproca, quasi una mutua verifica, che fa bene ad entrambi, perché aiuta tutti a rimanere umili e fuggire ogni presunzione.

Fiducia

Adesso tocca a d. Riccardo, e anche a d. Elio. Entrambi giovani e forti, con esperienza pastorale sul campo. Tutti e due con tanto desiderio di portare avanti con qualità e passione ciò che gli è stato affidato. Noi, nei loro confronti, partiamo decisamente con tanta fiducia. È l’atteggiamento che la pastorale giovanile ha sempre insegnato e praticato nei confronti di tutti i giovani. Senza fiducia non si va da nessuna parte. Se chi arriva è visto subito con sospetto, è guardato di traverso, mancano le condizioni buone per incominciare un cammino. Noi di NPG, pur avendo alle spalle una storia che oramai si avvicina ai 60 anni – la rivista è nata nel lontano 1966-1967 – non ci siamo mai chiusi in un passato glorioso. Puntiamo sul presente e sul futuro, pur rimanendo radicati nella storia.
Questo passaggio di testimone dice anche che la stagione che ci aspetta sarà inedita, diversa da tutte le altre che abbiamo vissuto. Ci sono sfide nuove che ci vengono incontro. Pensiamo a quella ecclesiale della sinodalità per esempio, che ci chiede di verificare il nostro modo di procedere e di lavorare insieme, e che ha nel cammino sinodale – sia universale che italiano – un momento di discernimento epocale che non sappiamo bene dove ci porterà. Oppure quella dell’abbandono della pratica religiosa da parte dei giovani, e non solo dei giovani – oltre oceano la chiamano Dechurching, termine intraducibile che dice una generalizzata disaffiliazione ecclesiale pratica, e che rende sempre più giovani dei nones, ovvero persone slegate da qualsiasi appartenenza, sia religiosa che civile [1]. O ancora alla cosiddetta “questione degli adulti”, che nella stagione precedente è stata assai denunciata ma poco affrontata: non basta dire infatti che gli adulti sono adulterati e adultescenti per risolvere le cose. La cura educativa rimane una sfida sempre antica e sempre nuova, soprattutto nei confronti dei “nuovi” adolescenti: ci vogliono strategie nuove e strutture diverse, insieme a persone meglio sintonizzate sul loro vissuto. Un’altra sfida non secondaria riguarda la recezione piena del cammino sinodale che abbiamo vissuto come Chiesa universale e che, per via della pandemia e di una certa superficialità, sta rischiando di essere dimenticato: impostare una pastorale giovanile “in chiave vocazionale” rimane un punto su cui lavorare con serietà e dedizione.
Abbiamo fiducia che insieme qualcosa di bello e incisivo si potrà fare. Soprattutto puntiamo sul lavoro di squadra e sulla necessità di fare rete. Il modus operandi vincente oggi, proprio a causa della complessità dei problemi da affrontare, è proprio questo: lavorare per progetti più che per uffici, imparare ad affrontare insieme le sfide, riconoscendo che la comunione, la condivisione e la corresponsabilità sono delle strategie operative vincenti.

Cammino

Il terzo e ultimo passaggio di questo editoriale lo dedico al cammino che ci aspetta. Chi è chiamato al servizio dell’autorità attraverso un compito di responsabilità, è invitato anche ad aver chiaro l’apporto specifico che dovrà perseguire, e che gli viene dal suo ruolo.
È significativo intanto che il coordinamento della pastorale giovanile a livello nazionale, fin dall’inizio, non è stato pensato come un “ufficio” ma come un “servizio”: Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile. Non è solo una questione terminologica, ma c’è sotto un’idea ben precisa frutto di riflessione e confronto tra i “padri fondatori”: è un servizio verso gli altri uffici della CEI, che hanno necessità di avere un’attenzione squisitamente pastorale nei confronti dei giovani – tanti uffici infatti hanno a che fare con i giovani: pensiamo solo all’Ufficio catechistico, a quello per la pastorale vocazionale, o a quello legato all’educazione, scuola e università, solo per citare i più vicini al mondo giovanile – e insieme un servizio offerto alle Diocesi e alle Regioni ecclesiastiche, che tante volte appaiono fragili proprio nel loro compito di accompagnare i giovani, e quindi vanno a loro volta accompagnate. Un duplice impegno quindi, a partire dal punto di vista specifico della pastorale giovanile.
Il compito di questo servizio, così come l’ho frequentato e immaginato, lo penso come orientato verso quattro ambiti connessi tra loro: uno più riflessivo, uno di governo, uno di coordinamento e uno di formazione.
La riflessione oggi non può mancare, attraverso un cammino di condivisione di idee fatto di confronto e di discernimento comunitario, che portino la pastorale giovanile a ripensarsi nei nuovi contesti in cui è chiamata ad operare. Proprio perché siamo in un cambio d’epoca, il primato – tra l’altro indiscutibile – della realtà non basta. C’è bisogno di approfondimento per trovare le cause e le ragioni di una determinata situazione, e anche di criteri per intraprendere delle azioni ragionevoli ed efficaci. La realtà va illuminata dalle idee, altrimenti resta oscura e imprendibile. La teologia pastorale è nata proprio per questo: per pensare l’agire, per verificare e qualificare l’azione pastorale. Senza di questo si agirà senza pensare, cosa assai grave e pericolosa, che purtroppo troppe volte avviene. Qui NPG, che ha sempre camminato con il Servizio Nazionale, può continuare a farlo in forma strutturale, insieme con il suo qualificato gruppo di redazione. Che il responsabile del Servizio Nazionale ne sia vicedirettore è il segno eloquente di questa stretta e feconda collaborazione.
C’è bisogno anche di governo. Nei posti di responsabilità bisogna saper accompagnare il discernimento e anche saper prendere decisioni. Bisogna ascoltare, condividere, valutare, decidere. In questo senso la consulta nazionale di pastorale giovanile è il luogo del discernimento e della preparazione delle decisioni importanti per il cammino. Senza orientamenti e decisioni siamo dispersi e non sappiamo dove andare. Una decisione offre obiettivi chiari e destinazione certa. Bisogna decidere con sapienza e chiarezza, rendendo conto dei passaggi: oggi si parla giustamente di decision making (il cammino di discernimento previo ad una decisione), di decision taking (il modo in cui i soggetti preposti prendono una decisione) e soprattutto di accountability (ovvero di trasparenza, di saper rendere conto con chiarezza agli interessati dei passaggi che si sono fatti per giungere alla decisione comunicata). Il governo implica la possibilità che vengano date indicazioni vincolanti alle Diocesi e alle realtà locali circa la gestione dei centri di pastorale giovanile diocesani e delle realtà di pastorale giovanile interparrocchiali e parrocchiali.
C’è bisogno anche di coordinamento. È la questione più pratica, che porta via la maggior parte del tempo, ma che è anch’essa determinante per avere ordine e precisione in quello che si fa. Pensiamo all’enorme impegno per il coordinamento di una Giornata Mondiale della Gioventù dal punto di vista operativo per le diocesi italiane. La prossima sarà nel 2027 in Corea del Sud, quindi sarà abbastanza leggera – sia in termini di partecipazione che quindi di organizzazione – rispetto a quelle europee. Ma c’è il capitolo del Giubileo dei Giovani a cavallo tra luglio e agosto del 2025, che è già all’orizzonte e su cui bisognerà muoversi fin da subito, in quanto possiamo dire che è dietro l’angolo. Il coordinamento implica anche il sapiente affiancamento di una presenza animatrice e orientativa nelle scelte particolari che ogni territorio è chiamato ad operare.
Un ultimo aspetto, ma non certo ultimo, è la formazione. Essa pone il suo focus sul vero “capitale” della pastorale giovanile, che sono le persone: operatori pastorali in primis e giovani di riflesso. Pensiamo alla formazione dei nuovi direttori dei servizi diocesani per la pastorale giovanile, e anche alla formazione delle loro équipe. Ci vuole, in questo senso, formazione iniziale e permanente. Molte Diocesi non hanno né la forza né la competenza per avviare dei cammini di formazione qualificati. Per questo assistiamo a molte improvvisazioni e ad alcune persone che non pare sbagliato definire “dilettanti allo sbaraglio”. I convegni nazionali di pastorale giovanile sono eventi privilegiati di formazione. Insieme con momenti puntuali forse varrebbe la pena interrogarsi sulla necessità di offrire qualcosa di più solido e permanente a livello di formazione nazionale.
L’attenzione e la cura di questi quattro aspetti certamente renderà possibile una sempre maggiore qualificazione del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile. E con questo certamente una sua maggiore efficienza ed efficacia, che comunque non è mai mancata in questi anni.
* * *
Dunque, per concludere, un grazie grande e di vero cuore a d. Michele Falabretti (e a d. Roberto Dal Molin) per la loro presenza positiva, impegnata e qualificata di questi anni. E un benvenuto sincero e fiducioso a d. Riccardo Pincerato (e a d. Elio Cesari): con speranza ci mettiamo in cammino con loro per una nuova ed entusiasmante stagione di pastorale giovanile, sempre con l’intenzione di metterci in pieno servizio affinché tutti i giovani possano incontrare il Signore, così da divenire felici nel tempo e per l’eternità.

NOTA 

[1] J. Davis – M. Graham – R. Burge (Foreword by C. Hansen), The Great Dechurching. Who’s Leaving, Why Are They Going, and What Will It Take to Bring Them Back?, Zondervan, Gran Rapids (Michigan) 2023; R. Burge, The Nones. Where They Came From, Who They Are, and Where They Are Going, Fortress Press, Minneapolis 20232.

Abbonamenti

Il sogno della pace. La GMG di Lisbona, profezia di fraternità universale

Dalla newsletter di Note di Pastorale Giovanile di novembre.

***

di don Rossano Sala

Un nuovo inizio

La Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona ha segnato una vera e propria ripartenza dopo la drammatica esperienza della pandemia. Si respirava una certa tensione ecclesiale rispetto alla riuscita di questo incontro mondiale. Gli organizzatori erano realmente preoccupati. Alcuni pensavano che dopo la pandemia sarebbe finito il tempo dei grandi raduni internazionali, altri invece immaginavano una presenza molto ridotta di giovani. La Chiesa invece ha scommesso di nuovo sui giovani e ancora una volta ha avuto ragione! E dopo questo evento l’aria è finalmente cambiata, come ha ben commentato papa Francesco qualche giorno dopo il termine degli eventi:

Questa GMG di Lisbona, venuta dopo la pandemia, è stata sentita da tutti come dono di Dio che ha rimesso in movimento i cuori e i passi dei giovani, tanti giovani da tutte le parti del mondo – tanti! – per andare a incontrarsi e incontrare Gesù.
La pandemia, lo sappiamo bene, ha inciso pesantemente sui comportamenti sociali: l’isolamento è degenerato spesso in chiusura, e i giovani ne hanno risentito in modo particolare. Con questa Giornata Mondiale della Gioventù, Dio ha dato una “spinta” in senso contrario: essa ha segnato un nuovo inizio del grande pellegrinaggio dei giovani attraverso i continenti, nel nome di Gesù Cristo. E non è un caso che sia accaduto a Lisbona, una città affacciata sull’oceano, città-simbolo delle grandi esplorazioni via mare[1].

Un nuovo inizio, dunque, che ha invertito la rotta. Speriamo che lo sia anche per la pastorale giovanile e la Chiesa in Italia. Non è poco aver accompagnato 65.000 giovani italiani a Lisbona. Significa aver messo da parte un certo “tesoretto” da far ora fruttificare nella vita quotidiana, nei nostri ambienti ecclesiali e nella società tutta. Si può ripartire prendendo sul serio il “mandato” che Francesco ha consegnato a tutti i giovani nel giorno della trasfigurazione del Signore, ultimo della GMG di Lisbona:

«Signore, è bello per noi essere qui!» (Mt 17,4). Queste parole, che disse l’apostolo Pietro a Gesù sul monte della Trasfigurazione, vogliamo farle anche nostre dopo questi giorni intensi. È bello quanto stiamo sperimentando con Gesù, ciò che abbiamo vissuto insieme, ed è bello come abbiamo pregato, con tanta gioia del cuore. Allora possiamo chiederci: cosa portiamo con noi ritornando alla vita quotidiana?
La prima: brillare. Gesù si trasfigura. Il Vangelo dice: «Il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2). […] Il nostro Dio illumina. Illumina il nostro sguardo, illumina il nostro cuore, illumina la nostra mente, illumina il nostro desiderio di fare qualcosa nella vita. Sempre con la luce del Signore.
Il secondo verbo è ascoltare. Sul monte, una nube luminosa copre i discepoli. E questa nube, dalla quale parla il Padre, che cosa dice? «Ascoltatelo», «questi è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo» (Mt 17,5). È tutto qui: tutto quello che c’è da fare nella vita sta in questa parola: ascoltatelo. Ascoltare Gesù. Tutto il segreto sta qui. Ascolta che cosa ti dice Gesù.
Brillare è la prima parola, siate luminosi; ascoltare, per non sbagliare strada; e infine la terza parola: non avere paura. Non abbiate paura. Una parola che nella Bibbia si ripete tanto, nei Vangeli: “non abbiate paura”. Queste furono le ultime parole che nel momento della Trasfigurazione Gesù disse ai discepoli: «Non temete» (Mt 17,7)[2].

Brillare, ascoltare e non avere paura. Un piccolo ma prezioso programma non solo per tutti i giovani, ma per la Chiesa nel suo insieme. Diventa un compito chiaro, un manifesto da prendere sul serio, una prospettiva attorno a cui creare coinvolgimento e corresponsabilità tra giovani e adulti.

Un messaggio chiaro

Per chi ha vissuto una delle tante GMG degli ultimi decenni, sa che questo evento è un’esperienza di fratellanza universale più unica che rara. Effettivamente trovare tante nazionalità così diverse che vivono insieme in un clima di festa e di comunione è praticamente quasi impossibile. La GMG è un’esperienza di pace universale, un momento magico in cui si prende atto che la convivenza pacifica dei popoli è una possibilità reale. Effettivamente,

mentre in Ucraina e in altri luoghi del mondo si combatte, e mentre in certe sale nascoste si pianifica la guerra – è brutto questo, si pianifica la guerra! –, la GMG ha mostrato a tutti che è possibile un altro mondo: un mondo di fratelli e sorelle, dove le bandiere di tutti i popoli sventolano insieme, una accanto all’altra, senza odio, senza paura, senza chiusure, senza armi! Il messaggio dei giovani è stato chiaro: lo ascolteranno i “grandi della terra”? Mi domando, ascolteranno questo entusiasmo giovanile che vuole pace? È una parabola per il nostro tempo, e ancora oggi Gesù dice: “Chi ha orecchie, ascolti! Chi ha occhi, guardi!”. Speriamo che tutto il mondo ascolti questa Giornata della Gioventù e guardi questa bellezza dei giovani andando avanti[3].

I giovani desiderano la pace. Lo hanno detto chiaramente con la loro presenza pacifica e gioiosa per tutti i giorni della GMG. Lo ribadiscono continuamente quando si parla con loro e quando è data loro con serietà la parola.
Lisbona, è stato detto varie volte durante i giovani della GMG, è una città che per sua natura è legata alla ricerca della pace e all’unione tra i popoli. Durante l’incontro con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico Francesco è stato oltremodo esplicito e diretto sull’argomento della guerra e della pace. Direi perfino provocatorio e profetico. Conviene risentire alcuni passaggi per intero:

Lisbona può suggerire un cambio di passo. Qui nel 2007 è stato firmato l’omonimo Trattato di riforma dell’Unione Europea. Esso afferma che «l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli» (Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, art. 1,4/2.1); ma va oltre, asserendo che «nelle relazioni con il resto del mondo […] contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani» (art. 1,4/2.5).
Nell’oceano della storia, stiamo navigando in un frangente tempestoso e si avverte la mancanza di rotte coraggiose di pace. Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente? La tua tecnologia, che ha segnato il progresso e globalizzato il mondo, da sola non basta; tanto meno bastano le armi più sofisticate, che non rappresentano investimenti per il futuro, ma impoverimenti del vero capitale umano, quello dell’educazione, della sanità, dello stato sociale.
Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare, è città della speranza. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; e io vorrei ringraziare per il grande lavoro e il generoso impegno profusi dal Portogallo per ospitare un evento così complesso da gestire, ma fecondo di speranza. Come si dice da queste parti: «Accanto ai giovani, uno non invecchia». Giovani provenienti da tutto il mondo, che coltivano i desideri dell’unità, della pace e della fraternità, giovani che sognano ci provocano a realizzare i loro sogni di bene. Non sono nelle strade a gridare rabbia, ma a condividere la speranza del Vangelo, la speranza della vita.
Com’è bello riscoprirci fratelli e sorelle, lavorare per il bene comune lasciando alle spalle contrasti e diversità di vedute! Anche qui ci sono d’esempio i giovani che, con il loro grido di pace e la loro voglia di vita, ci portano ad abbattere i rigidi steccati di appartenenza eretti in nome di opinioni e credo diversi[4].

Un grande monito per il mondo degli adulti e dei politici dell’Europa e dell’Occidente a prendere sul serio ciò che dicono a parole e che poi raramente si concretizza nei fatti. Speriamo che non sia inascoltato, ma inneschi un percorso serio e consapevole che ci faccia cambiare rotta.

Dall’agonia al parto

Incontrando i giovani universitari presso l’Università cattolica del Portogallo Francesco ha chiesto di non pensare a questo tempo come a qualcosa di bloccato e incontrovertibile, come fosse legato ad un ineludibile destino di violenza, guerra e morte. Ha chiesto addirittura di interpretare i tempi difficili che stiamo vivendo in modo diverso. Non come percorso a senso unico, ma come sofferenza che potrà dare nuova vita al mondo. Pensiero ardito, il suo:

Amici, permettetemi di dirvi: cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo. Siate dunque protagonisti di una “nuova coreografia” che metta al centro la persona umana, siate coreografi della danza della vita[5].

Viene ripreso in filigrana il pensiero di Gesù nel vangelo di Giovanni, quando afferma che la vita nuova passa attraverso la sofferenza, come nel parto:

La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia[6].

Gesù parla della croce, della sua sofferenza offerta per la vita del mondo, come di un parto che dona vita piena al mondo nuovo che si sta affacciando. Proprio nel momento massimo dello sconforto offre ai discepoli una diversa interpretazione della sua morte. È un ribaltamento a cui non sono ancora pronti, ma a cui dovranno aderire, riconoscendo come la più grande catastrofe della storia diventerà radice di una pace e di una gioia che non avranno confini, perché «egli è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne»[7].
Con questo spirito costruttivo Francesco sfida i giovani: «Abbiate perciò il coraggio di sostituire le paure coi sogni. Sostituite le paure coi sogni: non siate amministratori di paure, ma imprenditori di sogni!»[8]. Certo, perché dove i discepoli erano certi che tutto era andato perduto, Gesù dirà che tutto è stato compiuto: la sua morte sarà fonte di vita piena e abbondante per tutti, nessuno escluso.
Se ci pensiamo bene, il primo “imprenditore di sogni” è proprio Francesco, che ancora una volta ci stupisce per la giovinezza del suo pensiero e della sua proposta. Proprio nel momento conclusivo della GMG ci consegna con commozione il suo grande sogno per questo mondo tanto amato da Dio e tanto lacerato dagli uomini:

In particolare, accompagniamo con l’affetto e la preghiera coloro che non sono potuti venire a causa di conflitti e di guerre. Nel mondo sono tante le guerre, sono molti i conflitti. Pensando a questo continente, provo grande dolore per la cara Ucraina, che continua a soffrire molto. Amici, permettete anche a me, ormai vecchio, di condividere con voi giovani un sogno che porto dentro: è il sogno della pace, il sogno di giovani che pregano per la pace, vivono in pace e costruiscono un avvenire di pace. Attraverso l’Angelus mettiamo nelle mani di Maria, Regina della pace, il futuro dell’umanità.
E, tornando a casa, continuate a pregare per la pace. Voi siete un segno di pace per il mondo, una testimonianza di come le diverse nazionalità, le lingue, le storie possono unire anziché dividere. Siete speranza di un mondo diverso. Grazie di questo. Avanti![9]

Si sogna la pace, si prega per la pace. Proprio in Portogallo, dove la Madonna è apparsa a tre piccoli pastorelli rivelando misteri di guerra e di pace nel mondo moderno e contemporaneo. Mai come oggi il messaggio e le profezie di Fatima è così attuale.
Proprio lì, in questo piccolo e periferico borgo ai confini dell’Europa, nel silenzio adorante e nella preghiera perseverante, il successore di Pietro ha chiesto con insistenza il dono della pace: «Ho pregato, ho pregato. Ho pregato la Madonna e ho pregato per la pace. Non ho fatto pubblicità. Ma ho pregato. E dobbiamo continuamente ripetere questa preghiera per la pace. Lei nella prima guerra mondiale aveva chiesto questo. E io questa volta l’ho chiesto alla Madonna. E ho pregato. Non ho fatto pubblicità»[10].

I diversi testi legati al tema della pace citati sopra e ripresi dalla recente Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona ci sembrano un’ottima introduzione all’articolato e ricco Dossier che segue, dove in molti modi vengono declinati i linguaggi e le pratiche della pace, che così appaiono possibili e realizzabili. Esso vuole essere una grande spinta a diventare in ogni occasione degli operatori di pace nel proprio contesto di azione civile ed ecclesiale, così da essere riconosciuti come amici e familiari di Dio: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»[11]. Che il sogno della pace diventi sempre più una realtà concreta e sperimentabile per tutti i giovani, nessuno escluso. E per tutta la Chiesa e la società. Il mondo ne ha davvero bisogno, soprattutto in questo tempo.
Un grande ringraziamento per la tessitura del presente Dossier va a Renato Cursi, da anni membro attivo e propositivo della redazione di NPG, che con competenza ed eleganza sempre accompagna la nostra rivista in molti modi apprezzati dai lettori. La sua esperienza salesiana internazionale, oltre che la sua competenza specifica nell’ambito delle istituzioni di pace, ne fanno una vera ricchezza per noi tutti. Il suo lavoro quotidiano all’interno del mondo sociale in ottica salesiana rimane una garanzia di concretezza e sensibilità per i giovani, soprattutto per i più poveri e abbandonati.

NOTE

[1] Francesco, Udienza generale del 9 agosto 2023.
[2] Francesco, Omelia del 6 agosto 2023.
[3] Francesco, Udienza generale del 9 agosto 2023.
[4] Francesco, Discorso alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico del 2 agosto 2023.
[5] Francesco, Incontro con i giovani universitari, 3 agosto 2023.
[6] Gv 16,21-22.
[7] Ef 2,14.
[8] Francesco, Incontro con i giovani universitari, 3 agosto 2023.
[9] Francesco, Angelus del 6 agosto 2023.
[10] Francesco, Conferenza stampa del santo padre durante il volo di ritorno del 6 agosto 2023.
[11] Mt 5,9.

Abbonamenti

Note di Pastorale Giovanile, riunione di redazione e saluto a don Michele Falabretti e don Roberto Dal Molin

Il 26 giugno, nella sede del Centro Nazionale delle Opere Salesiane, si è ritrovata la redazione di Note di Pastorale Giovanile per l’ultimo incontro dell’anno. L’occasione è stata anche quella per salutare don Roberto Dal Molin, prossimo superiore dell’Ispettoria Lombardo-Emiliana e don Michele Falabretti che dopo undici anni termina il suo incarico come direttore del Servizio nazionale di Pastorale Giovanile. Don Rossano Sala, direttore di NPG, ha salutato a nome di tutti don Roberto e don Michele, ringraziandoli per il loro prezioso lavoro.

Don Michele Falabretti ha poi ripercorso gli ultimi dieci anni di pastorale giovanile in Italia. La storia del servizio nazionale di pastorale giovanile, nato nel 1993, quando don Michele è stato ordinato prete, si intreccia con la sua: per un terzo, ne è stato responsabile. E in questi anni, alcune cose sono accadute dentro la Chiesa.

Con la nascita del servizio nazionale di PG, dentro gli orientamenti della Chiesa sulla carità si è segnato un piccolo cambiamento: vista come una cosa di per sé quasi inutile in quel momento, in realtà stava raccogliendo un’istanza del Concilio che in termini pastorali era una svolta molto forte. Il principio dell’educazione che è un principio di semina chiede di lavorare sulla relazione.
I trent’anni del servizio nazionale di PG vanno riletti così: una storia fecondissima, dove non si può non ricordare Don Bosco, la storia del ‘900 con l’azione cattolica che ha strutturato un grande movimento, c’è la nascita dei movimenti e la frammentazione che coltiva altre sensibilità.

Don Michele poi ricorda i suoi predecessori, legati a una stagione diversa della storia della Chiesa e della pastorale: monsignor Sigalini, colui che fa un’operazione di “aratura”; don Paolo Giulietti che ha dato il via alla grande stagione di eventi; don Nicolò Anselmi che arriva subito dopo Verona, tappa che segna un altro passaggio, quando si inizia a parlare di pastorale integrata.

Dopo dieci al servizio della Pastorale Giovanile, don Michele ne traccia le caratteristiche.

Il radicamento capillare sul territorio, dove sono presenti Diocesi e parrocchie anche molto piccole che porta ciascuna realtà a strutturarsi: nel nostro Paese, rispetto ad altri, c’è una sensibilità educativa più pronunciata.

La titolarità della pastorale è dove si vive la comunità, dove si celebra l’Eucaristia. Quando si demanda alla Diocesi si vive poco, si incontrano poco i ragazzi. Anche sul tema della Parola: deve essere “sbriciolata” ogni giorno, altrimenti vivere solo il grande evento è fare un fuoco d’artificio ma portare a casa niente.

Gli eventi lasciano sicuramente relazioni, incontri, momenti in cui si fa esperienza di “corpo”, il tema è poi riuscire a fare verifica, a raccontarsi, a scrivere per far crescere dentro i ragazzi la consapevolezza. Il bisogno del corpo: i giovani vivono relazioni smaterializzate, noi facciamo i manichei davanti ad alcuni eventi. Gli eventi lasciano relazioni, il tema del portare a casa le esperienze e fare verifica, raccontarsi qualcosa e scriverlo.

In questi dieci anni la Chiesa ha messo al centro l’educazione e c’è stato anche un Sinodo dei giovani nel mezzo.  L’educazione messa a tema per 10 anni dalla Chiesa con un sinodo dei giovani nel mezzo, ma con la fatica di dialogare.

Cosa ci chiede oggi la pastorale giovanile: dobbiamo essere credibili per essere testimoni, deve tornare fuori il tema della qualità testimoniale della Chiesa. Una strada è quella dei rapporti intergenerazionali che devono essere sani. Il rapporto intergenerazionale deve essere rivisto perché i giovani ti riportano il respiro per il futuro.

Ci chiede di riappropriarci di un impegno laicale sano: la sensibilità politica è in crisi, ma il tema oggi è quello che i laici possono e devono fare nella società.

Il territorio è cambiato radicalmente con le grandi riforme sociali: chi si è seduto a parlare con le istituzioni era chi aveva attività educative in piedi. Il mondo non funziona con lo schema del “cestino delle offerte”, bensì con le competenze e con l’educazione alla comprensione del mondo.

Infine, l’oratorio. È un luogo unico in Italia. Ha questa grande magia, è un laboratorio dove ci si mette alla prova, dove si fa qualcosa, con un gioco di passaggio dove a un certo punto ti lascio delle responsabilità per fare servizio. Questo meccanismo fa crescere, ma va coltivato.

Questo racconto arriva poi al focus sul futuro. Cosa serve? Servono persone e competenze, le attività devono servire alle persone e non viceversa. Dobbiamo saper fare e saper fare bene. Don Michele ha poi concluso ricordando come, in questi anni, Note di Pastorale Giovanile sia stato un luogo dove “pensare”: “Chi ha costretto a pensare, non solo a fare”.

La discussione assembleare ha poi allargato il ragionamento di partenza, e ciascuno ha potuto mettere l’accento su uno degli aspetti emersi dal discorso di don Michele.

Nel pomeriggio, divisi in gruppi di lavoro, si è proceduto a mettere insieme idee e proposte per gli articoli, i dossier e gli studi da pubblicare sulla rivista nel 2024.