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L’antico e il nuovo nella vita cristiana

Dal numero di marzo di Note di Pastorale Giovanile, la rubrica “Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana” di Marcello Scarpa.

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Iniziamo in questo numero una rubrica sulla Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana. Un tema impegnativo: come evitare il rischio del “già detto”, di ripetere i soliti discorsi teorici, formalmente accurati, ma spesso disincarnati, svincolati dalla realtà? Eppure, ciò rende la sfida ancora più affascinante: non sono forse gli stessi giovani, pur fra luci e ombre, ad aver espresso al Sinodo il desiderio di essere formati, accompagnati, resi protagonisti della vita ecclesiale?[1]
Nell’intraprendere questo cammino, nella scelta del titolo del primo numero della rubrica ci siamo lasciati ispirare dalle parole iniziali della poesia “L’aquilone” di Giovanni Pascoli:

          C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento.[2]

Parole familiari, che accompagnano i nostri ricordi scolastici, che richiamano l’odore del gesso sulla lavagna, il sapore di merende in aule affollate, di giochi in cortile, all’aria aperta. Parole con le quali vogliamo accompagnare la nostra riflessione: cosa c’è di nuovo, anzi d’antico, nella formazione alla vita cristiana? In quale “altrove” vivono le nuove generazioni? Quale vento agita le querce secolari della Chiesa, e quali sono le viole che spuntano “nella selva del convento dei cappuccini, tra le foglie morte”, come recitano i versi della poesia di Pascoli?

C’è qualcosa di nuovo oggi nella vita cristiana…

Viviamo in un tempo di rapide trasformazioni culturali, sociali, mediatiche, un «cambiamento d’epoca» che richiede un rinnovamento delle prassi ecclesiali e pastorali, per sottrarle al rischio di cristallizzarsi in forme non più comprensibili agli uomini del nostro tempo. I due anni di pandemia, che hanno segnato la vita delle persone a livello mondiale, hanno fatto maturare nella coscienza collettiva alcune consapevolezze che, riecheggiando le parole di papa Francesco,[3] hanno trovato ampio spazio sui mezzi della comunicazione sociale: “siamo tutti sulla stessa barca”, “viviamo in un mondo dove tutto è connesso”, “nessuno si salva da solo”, sono diventate espressioni comuni, purtroppo confermate dagli imprevedibili e tragici avvenimenti della guerra in Ucraina.
All’interno di questo contesto, anche il cammino della Chiesa si è andato rivestendo di novità: papa Francesco ha aperto la stagione della sinodalità,[4] ovvero ha inaugurato il tempo dell’ascolto reciproco, dell’incontro, del dialogo, della collaborazione. Per rimanere nella metafora della poesia del Pascoli, il vento che agita le querce (= le tradizioni radicate nel tempo) della Chiesa è proprio quello della sinodalità, di cui ampiamente si scrive sulle pagine di questa rivista. Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti sul tema; è sufficiente ricordare che l’espressione indica il “camminare insieme” di vescovi, laici, giovani, come un unico popolo di Dio. Purtroppo, dobbiamo riconoscere che per molto tempo nel campo dell’azione evangelizzatrice della Chiesa si è invece camminato per settori o ambiti separati: l’evangelizzazione, il primo annuncio, la catechesi, la pastorale giovanile, hanno viaggiato lungo binari paralleli, dialogando poco fra di loro, il più delle volte ignorandosi reciprocamente.
È invece importante ricordare che lavoriamo tutti, ognuno secondo i propri ruoli e responsabilità, per lo stesso Signore che guida la barca dell’umanità. In un tragitto comune non si tratta di dividersi i compiti e poi agire da soli, ma di mettere insieme le energie valorizzando il contributo di tutti, perché la vita cristiana non è appannaggio di nessuna delle diverse competenze pratiche o dei vari uffici diocesani e parrocchiali, che sono tutti, invece, a servizio del popolo di Dio. Pertanto, è bene che la pastorale giovanile e la catechesi, distinte tra loro ma non del tutto separate,[5] lavorino in sinergia nel contesto della formazione dei giovani. Da un lato la pastorale giovanile non può accontentarsi di fare solo un ottimo servizio educativo, ma deve interrogarsi sull’urgenza dell’evangelizzazione;[6] dall’altro, la catechesi non può limitarsi alla nuda enunciazione dei contenuti di fede, ma deve elaborare percorsi formativi in riferimento alle esperienze di vita dei giovani.[7]

Anzi d’antico…

Siamo nani sulle spalle dei giganti. La celebre frase di Bernardo di Chartres mette in evidenza che qualsiasi opera di rinnovamento non fa mai tabula rasa delle conoscenze ed esperienze maturate nel passato, anzi, ne fa tesoro per svilupparle in maniera più adeguata ai nuovi contesti del presente. Senz’altro con il trascorrere del tempo la formazione cristiana dei giovani, riprendendo l’immagine della poesia di Pascoli, ha lasciato dietro di sé alcune foglie morte. Pensiamo al fallimento del catechismo per i giovani, che aveva come meta finale dell’itinerario in dieci capitoli l’incontro con Gesù: nonostante lo stile narrativo dei discorsi formativi, l’orizzonte di comprensione del testo era quello di trasmettere dei contenuti dal punto di vista antropologico, biblico, kerigmatico, cristologico. Tutto ciò non ha intercettato le dinamiche esperienziali delle nuove generazioni, più sensibili al mettersi in gioco, fin da subito, nella realtà concreta della vita. Infatti, i giovani preferiscono più i “sapori” che i “saperi”, «vogliono toccare con le loro mani, […] si fidano solo della loro esperienza»[8] personale, pertanto questo è il tempo propizio per far “gustare” loro la bellezza della vita cristiana.
Inoltre i giovani, similmente a quanto il poeta G. Pascoli dice di sé, vivono “altrove”. Troppo facilmente siamo portati a dare per scontato che i giovani che frequentano gli ambienti ecclesiali abbiano dimestichezza con il Vangelo e conoscano i nuclei essenziali della fede cristiana. In realtà, come confermano le indagini sociologiche, i giovani evidenziano una povertà della conoscenza dei contenuti di fede «sproporzionata rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione».[9] Si avverte, perciò, l’urgenza di rigenerare la fede e di introdurre alla vita cristiana tanti giovani per i quali i sacramenti dell’iniziazione cristiana sono stati l’addio, e non l’avvio, al cammino di fede.
Ma cosa vuol dire iniziazione cristiana? L’antica prassi del catecumenato, ripristinata dopo il Concilio Vaticano II, si rivolgeva ai convertiti non battezzati e si strutturava come un complesso organico e graduale per iniziare alla fede e alla vita cristiana. Proprio perché si rivolgeva a chi doveva essere introdotto (=iniziato) al cristianesimo, oggi lo stile del catecumenato «può anche ispirare la catechesi di coloro che, pur avendo già ricevuto il dono della grazia battesimale, non ne gustano effettivamente la ricchezza: in questo senso, si parla di ispirazione catecumenale della catechesi o catecumenato post-battesimale o catechesi di iniziazione alla vita cristiana» (DC 61).

 

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