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Anche un alieno può trovare casa

Pubblichiamo il primo articolo di una nuova rubrica di Note di Pastorale Giovanile, a cura dei giovani del MGS: “Ritratti di adolescenti”

Apriamo una nuova e speriamo gradita rubrica, diciamo “giovani al quadrato”. Nel senso di una galleria di giovani (degli ambienti salesiani) incontrati da altri giovani (MGS, insegnanti, animatori…), per mostrare proprio nel concreto vitale i dinamismi dell’incontro, della relazione, della presa in cura… in una parola dell’educazione. In effetti particolarmente significativa per il lettore può essere la testimonianza dei giovani che – giovani essi stessi – stanno in mezzo agli adolescenti e giovani, condividendo le stesse situazioni, ambiti di vita, problemi, speranze… “sogni e incubi”. Una dozzina di ritratti, tanto per cominciare, i cui tratti significativi è facile rintracciare negli adolescenti che ogni giorno incontriamo  e con cui viviamo un cammino di crescita reciproca”. 

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Lucia Zaccaron *

Un alieno al doposcuola
Ho conosciuto Marco al doposcuola. La nostra casa salesiana di Santa Maria la Longa (UD) offre questo servizio ai ragazzini delle medie che hanno bisogno di un aiuto per impostare il loro studio pomeridiano. All’epoca Marco frequentava la seconda. Fin da quando me l’hanno presentato, ho avuto l’impressione di avere a che fare con un alieno. Lui ricorda che lo aiutavo nei compiti di francese, ma io ho un solo flash di quell’anno di doposcuola: Marco che durante la ricreazione schiaccia l’interruttore della luce e mi chiede perché si accende. Era un modo che nessuno aveva ancora mai sperimentato per farmi saltare i nervi o era seriamente interessato? Non lo so ancora, ma lui sembrava coinvolto nel suo armeggiare con l’interruttore e ben poco propenso a chiacchierare e giocare con gli altri ragazzini. Quando gli parlavo o dovevo fargli fare qualcosa, avevo l’impressione che il mio messaggio percorresse anni luce prima di raggiungerlo e che non sempre arrivasse a destinazione. Era così immerso nel suo mondo che la sua assenza l’anno dopo non mi aveva stupito: forse era tornato sul pianeta da cui era venuto. In quell’anno facevo servizio civile, i ragazzi del doposcuola mi erano entrati nel cuore e con le loro difficoltà e risorse nascoste erano riusciti a farmi intravvedere quale sarebbe stata la mia strada, ma Marco era troppo distante per creare un legame con lui e allo stesso tempo troppo diverso da tutti per dimenticarmene. Mi era rimasto solo il rimpianto di non aver fatto abbastanza.

Alla ricerca di un riferimento
Un anno dopo, è stato attraverso un finestrino bagnato che ho rivisto Marco. Una domenica pomeriggio di pioggia e la confusione delle macchine sono l’inizio ordinario di un camposcuola speciale, dedicato ai ragazzi di terza media. Molto più tardi ho scoperto che Marco non voleva proprio partecipare a quel campo: lo aveva iscritto suo padre a tradimento e lui non gli aveva parlato per tutto il viaggio. Dopo l’estate ragazzi con i salesiani, ora lo aspettavano camminate faticose, coetanei che forse lo avrebbero preso in giro, proposte assurde come la Messa quotidiana. L’unica certezza: non doveva fare la Comunione. Questo glielo aveva raccomandato sua mamma perché non era battezzato. Per Marco è stato un campo un po’ difficile: i suoi peggiori pronostici si sono avverati.
In tutto questo io dov’ero? A quanto pare lì, ma non mi sono accorta di niente. Ero troppo immersa nei miei problemi, impigliata in una relazione preziosa che si era rotta e incapace di vedere oltre le mie difficoltà. Stare con Marco era una sicurezza: lo conoscevo già e lui non rifiutava la mia compagnia, ma non posso dire che l’avevo realmente a cuore. Lui invece ha preso sul serio quel tempo passato insieme, così, quando abbiamo fatto a tutti i ragazzi la proposta di scegliere un animatore di riferimento, lui ha chiesto a me. Come potesse trovare in me un riferimento non lo capivo, di sicuro dovevo iniziare ad averlo a cuore davvero.

In cammino
Così Marco ha iniziato le superiori. Si era iscritto a meccanica presso il CFP dei salesiani a Udine, ma è stato bocciato il primo anno. Quando mi ha spiegato le sue difficoltà nelle materie di indirizzo, ho iniziato finalmente a capire qualcosa di lui. Un suo professore gli aveva fatto notare che lui vedeva le cose diversamente dagli altri, che se gli si chiedeva di disegnare una bicicletta la sua rappresentazione aveva un punto di vista diverso da quello di chiunque altro. Da quel momento ho cercato di mettermi nei suoi panni, di guardare dalla sua prospettiva, anche se mi è sempre risultato difficile. Poi lui ha cambiato indirizzo (sì, elettricista! Ci sarà pure un motivo se giocava con gli interruttori della luce!) ma il suo percorso scolastico è sempre stato un po’ faticoso, perché anche i tirocini che dovevano motivarlo in realtà lo frustravano, inserendolo in ambienti poco accoglienti o in cui non riusciva a trovare il senso della fatica che gli era richiesta.
Nel frattempo Marco ha iniziato a confrontarsi con l’animazione perché voleva seguire le orme di un amico che era diventato per lui un modello, ma anche questo cammino è stato tortuoso. Sebbene avesse trovato un ambiente familiare e accogliente, non si sentiva mai abbastanza autorevole con i ragazzi o abbastanza brillante. Questo senso di inadeguatezza lo avrebbe fatto desistere, se non avesse trovato un compagno di classe e di animazione capace di incoraggiarlo.

L’alieno trova casa
Quello che forse però faceva sentire Marco diverso anche nel gruppo di animatori era la scelta dei genitori di non battezzarlo. Così, quando un salesiano gli ha proposto di iniziare la catechesi per ricevere il battesimo, lui ha accettato con entusiasmo. L’ancora era il paradiso: magari non capiva niente della Messa, non conosceva il Vangelo, però credeva nel paradiso. (Ma questo non mi stupiva affatto… I ragazzi credono nel paradiso: quando a scuola spiego la Divina Commedia e chiedo ai miei alunni mezzo atei cosa immaginano che ci sia dopo la morte… tutti immaginano un aldilà: siamo fatti per credere in qualcosa che ci supera!) Ogni mercoledì si fermava dai salesiani dopo la scuola, seguiva il catechismo con un salesiano laico e condivideva il resto del pomeriggio con due amici dell’anima, tra servizio di assistenza e relax.
Nel frattempo io mi ero un po’ allontanata dal Live (il cammino del nostro gruppo animatori) e seguivo i passi di Marco più da lontano ma sempre con stupore. Vederlo crescere e fare delle scelte mi meravigliava. Quando lo aiutavo con i compiti di francese non avrei scommesso un centesimo su di lui, invece stava diventando un ragazzo buono, capace di prendersi cura dei più piccoli, di farsi voler bene da tutti e di coinvolgere amici nell’animazione, desideroso di trovare la sua strada, che si lasciava interrogare da qualcosa di più grande.
Fargli da madrina il giorno del suo battesimo è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Quel Dio che sceglie ciò che agli occhi del mondo è piccolo e debole aveva fatto sentire il suo amore a Marco anche attraverso di noi. La festa è stata semplice, con un gruppo di amici nella casa salesiana che era per Marco parrocchia, scuola e cortile. Quella sera, quando ci ha dato la buonanotte, ci ha confidato che si sentiva a casa e che aveva trovato in noi la sua seconda famiglia.

To be continued…
Marco ora ha terminato la scuola, si è messo gioco in un’esperienza di servizio civile e di comunità e sta cercando la sua strada. Ha ben chiaro quali sono le coordinate della sua vita: la consapevolezza di come l’esperienza del Live abbia cambiato lui e di riflesso la sua famiglia, l’importanza di trovare del tempo per spendersi gratuitamente per gli altri, il desiderio di proseguire nella formazione, la capacità di trovare bellezza nei gesti più semplici. Per me è ancora un po’ un alieno, per questo lo ascolto volentieri e cerco di vedere le cose anche dalla sua prospettiva, perché sento che mi arricchisce. Non ho idea di cosa diventerà, so solo che finora ha percorso una strada difficile facendo scelte coraggiose e controcorrente, con fermezza e disarmante semplicità. Forse non se n’è ancora accorto, ma con il suo fiuto per ciò che è buono riesce sempre a trovare una casa e a far sentire a casa anche chi gli sta intorno.

Friulana, 34 anni, ha sempre fatto nella vita quello che non voleva: prima l’animatrice, poi l’insegnante di sostegno e ora la prof. di lettere. Dai ragazzi, soprattutto dai più difficili, ha imparato chi è Dio. La sostengono dei buoni amici che fanno da “angeli custodi” e una famiglia che le ha sempre insegnato ad affrontare le tempeste.

 

 

 

 

Consulta Nazionale della Pastorale Giovanile della CEI, il saluto di don Michele Falabretti

Dal 11 al 13 settembre 2023 si è tenuta la Consulta Nazionale della Pastorale Giovanile della CEI al Priorato di S. Pierre, in Val d’Aosta. Per i Salesiani in Italia ha partecipato don Elio Cesari, nuovo coordinatore nazionale della Pastorale Giovanile.

Si trattava dell’ultimo incontro coordinato da don Michele Falabretti, al termine dei suoi undici anni come Direttore del Servizio Nazionale per la PG: don Michele ha voluto offrire con questa occasione un tempo per fare una verifica del lavoro fatto e condividere alcune prospettive di futuro.

Facendo riferimento ad un articolo – intervista che sarà pubblicato sul numero di gennaio  di Note di Pastorale Giovanile, don Falabretti ha suddiviso il lavoro secondo tre tempi:

– Primo tempo: Undici anni

– Secondo tempo: Le sfide di oggi

– Terzo tempo: Verso il futuro

Il clima di condivisione e di gratitudine reciproca ha permesso di vivere questo tempo come un lavoro utile da consegnare al prossimo direttore della PG nazionale.

Molto toccante il ringraziamento finale di don Michele:

Alla CEI, dunque, devo riconoscenza per avermi coinvolto in un’avventura che ho sempre ritenuto immeritata. Un’esperienza che mi ha fatto vedere il mondo. Quello italiano, di cui pensavo di conoscere qualcosa ma che un po’ alla volta mi si è rivelato come molto più grande e più bello di quanto immaginassi. Penso ai luoghi: l’Italia è davvero un paese meraviglioso. Ma penso soprattutto alle persone, alle storie e tradizioni cristiane, alla fede e alla spiritualità che attraversa il Paese più del genio artistico (che spesso ne è solo un’espressione).

Penso alle diocesi, ai loro vescovi, agli incaricati di pastorale giovanile e ai loro collaboratori che spesso mi hanno accolto e ospitato, talvolta alla loro tavola e nelle loro case. Ho ascoltato molto, ho ricevuto accoglienza, rispetto e fiducia: non me ne sono mai andato da un posto con la sensazione di essere stato mal sopportato o di aver perso tempo. La storia di fede delle chiese in Italia, con le sue tradizioni, è davvero incredibile e non c’è come girare per poterla capire e in un certo senso toccare.

Vorrei dire grazie a Note di Pastorale Giovanile, in particolare a don Rossano e a don Giancarlo, ma anche a don Claudio e a don Roberto: il lavoro di questi anni è stato tanto, ma mi ha costretto a fermarmi e a pensare.

Vorrei dire grazie a chi ha lavorato quotidianamente con me in ufficio: senza di loro avrei potuto fare un decimo di ciò che ho fatto. Alla Consulta nazionale che mi ha aiutato a non chiudermi nei miei pensieri e spesso mi ha costretto a rivedere le mie convinzioni; a chi ho disturbato spesso e senza apparire mi ha sostenuto con preziosi consigli e contributi di lavoro. Un grazie speciale ai giovani che mi hanno accompagnato nei momenti in cui il lavoro si faceva frenetico, quelli che abbiamo chiamato gli “animatori di Casa Italia”; mi hanno riempito di affetto e non mi hanno fatto mancare la cosa più importante: lo sguardo dei giovani sulla vita, senza il quale il nostro lavoro non avrebbe senso.

Come Salesiani in Italia, esprimiamo la grande riconoscenza a don Michele per il suo servizio serio e profondo, continuando con il suo successore l’impegno nella collaborazione per il bene di tanti giovani.

Grammatica e sentieri di sinodalità nella PG – Eucaristia

Da NPG di settembre/ottobre.

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di Gianluca Zurra

Esiste un legame fondamentale e tradizionale tra Eucaristia e sinodalità: la prima è la sorgente della seconda, è ciò che configura sinodalmente la Chiesa. Quando il sinodo inizia con la celebrazione eucaristica, non si tratta di un’aggiunta introduttiva posticcia, ma dell’esperienza rituale di Gesù che sta al cuore della sinodalità. Nell’Eucaristia, infatti, la comunità cristiana si raccoglie e si ferma attorno al suo Signore nella forma di un’assemblea radunata, dunque di una fraternità reale e visibile: l’incontro culminante con Gesù, che sceglie di essere riconosciuto allo spezzare del pane, accade nell’impensata prossimità con i fratelli e le sorelle, e mai senza di essa.
Per questo l’agire sinodale della Chiesa non è riducibile ad una organizzazione esteriore, neppure a procedure più o meno efficaci, per quanto importanti, ma è fin dall’inizio un’esperienza spirituale: se nell’Eucaristia diventiamo il Corpo di Cristo nella storia umana, così la sinodalità vissuta come ricerca di una consonanza nello Spirito tra soggetti diversi diviene “ripresentazione” di Cristo oggi: “dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.
Tramite l’Eucaristia e passando in essa la Chiesa si forgia in prospettiva sinodale, poiché il primato di Gesù e dell’annuncio del Regno assumono come condizione e come figura la relazione dialogica tra tutti i soggetti ecclesiali.
Questo stretto legame tra Eucaristia e sinodalità può essere compreso soltanto alla luce del rinnovamento liturgico del Concilio, che ci ha rieducati a riscoprire la celebrazione eucaristica non come azione intimistica, né come devozione privata, ma come gesto comunitario che fa esistere la Chiesa Popolo di Dio nella forma del Corpo di Cristo. È il rito come pasto condiviso che ci chiede di non disgiungere mai il legame con Gesù dalla prossimità con gli altri, facendo così della sinodalità la condizione concreta e spirituale dell’incontro con il Signore e della sua presenza reale tra gli uomini.

L’Eucaristia come pasto

Il pasto è la forma rituale tramite cui la Chiesa, nell’Eucaristia, fa memoria di Gesù Risorto, riconoscendolo come il Vivente e il Veniente verso di noi in ogni tempo. Come ci attestano gli Atti degli Apostoli, ben presto le prime comunità cristiane si radunano il primo giorno dopo il sabato per spezzare il pane in memoria del Signore in ambienti domestici. La scelta dei luoghi non è casuale: manifesta come la Chiesa si sia lasciata disegnare in profondità dai tratti e dallo stile di Gesù, riconoscendo il legame con Lui dentro le esperienze più comuni della vita. La casa, e non più il tempio, diventa lo spazio per l’ascolto degli apostoli, per la preghiera, per il pasto comune e per la fraternità.
In effetti, Gesù ha voluto consegnarsi a noi tramite un pasto condiviso, gesto attorno al quale riassume tutto il senso del suo vivere e del suo morire. Egli si rivela Maestro nella sua ineguagliabile capacità di assumere questa esperienza umana fondamentale in modo unico. Non rinuncia a sedersi a tavola, anzi: molto spesso, nei racconti evangelici, viene sorpreso come ospite a casa di qualcuno. Non ha paura di ricordare al padrone di casa che stare davvero a tavola significa rinunciare ai primi posti, proprio perché ci si ritrova attorno ad un unico tavolo[1]. Con delicatezza, ma anche con forza, restituisce al pasto la sua qualità ospitale: per Gesù non ha senso un prendere cibo che non apra alla condivisione con gli ultimi e all’ospitalità reciproca, di cui diventa emblema la donna del profumo, unica commensale ad accogliere il Maestro sprecando senza remore il nardo in abbondanza[2].
L’ultimo gesto di Gesù, a sua futura memoria, è una cena, durante la quale si ringrazia, si condivide e si chiede, con tutto il dramma conseguente, che la comunione tra i commensali possa resistere anche alla dispersione provocata dalla morte. Questa volta è lui a farsi cibo per tutti, donando il suo corpo come pane che sostenta per sempre. Non solo, ma da Risorto si fa cuoco, cucinando sulla riva pani e pesci sulla brace ardente, a favore dei discepoli smarriti e affamati[3].
D’altronde aveva già manifestato la sua affabilità col cibo raccontando molto tempo prima la parabola del padre misericordioso[4], dipingendo il figlio minore nell’atto di sentire la misericordia del padre attraverso il banchetto preparato per il suo ritorno. Il figlio maggiore, invece, anoressico e inappetente per l’invidia, non riuscirà a sedersi alla tavola della riconciliazione.

 

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Quattro grandi sogni per la pastorale giovanile

Dall’ultima newsletter di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Un approfondimento della proposta pastorale che ci invita a camminare sulla strada dei sogni non può che concludersi con un rilancio della pastorale giovanile. Anch’essa infatti ha i suoi sogni e i suoi incubi, i suoi desideri e le sue incertezze. Nutre speranze e cerca di allontanare paure.
Ripartiamo ancora una volta dal Sinodo sui giovani, anche se sono passati cinque anni da quel momento e tante cose sono accadute nel frattempo: abbiamo avuto la pandemia, che ha bloccato una serena e seria ricezione del Sinodo stesso e da cui stiamo faticosamente uscendo; stiamo vivendo durante questa estate l’esperienza entusiasmante della Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, che immaginiamo come momento di rilancio della pastorale dei giovani nella Chiesa tutta; siamo nel pieno di un percorso sinodale sulla “sinodalità” che ci accompagnerà per i prossimi anni; ci stiamo anche avvicinando velocemente al grande Giubileo del 2025.
Facciamo dunque insieme qualche passo indietro per prendere una buona rincorsa, così da compiere un bel salto nel futuro. Nello sport funziona così: si va indietro con l’intenzione di andare avanti meglio, prendendo lo slancio giusto e partendo dalla corretta distanza.
Mi pare, sinteticamente, che il cammino sinodale con i giovani ci ha proposto quattro grandi sogni. Potremmo definirli i quattro grandi orientamenti emersi dal Sinodo sui giovani, che ha immaginato la pastorale giovanile:
Sinodale: capace di fare rete e di fare squadra con tutti gli attori in campo sia civili che ecclesiali, giovani compresi, convinta che la comunione è la via privilegiata dell’evangelizzazione
Popolare: in grado di coinvolgere e arrivare a tutti i giovani, nessuno escluso, privilegiando in particolare coloro che sono più svantaggiati e problematici
Vocazionale: qualificata dal punto di vista della proposta spirituale e in grado di offrire identità cristiana ai giovani che desiderano vivere un’amicizia autentica con Gesù nella Chiesa
Missionaria: che sia espressione di una Chiesa adulta e matura che ha smesso di essere autoreferenziale e sa uscire da se stessa per andare incontro a tutti

Sinodale: capace di corresponsabilizzare i giovani

Il primo sogno riguarda la nostra “profezia di fraternità”, che assume oggi la sua declinazione sinodale. Durante il percorso sinodale la domanda iniziale da cui siamo partiti era: “Che cosa dobbiamo fare per i giovani?”. Ma questa domanda pian piano si è trasformata. Dalla concentrazione sul fare organizzativo il percorso sinodale ci ha chiesto di verificarci sui nostri stili relazionali e sulla qualità dei nostri cammini comunitari. Siamo stati sollecitati dai giovani stessi a un passaggio dal fare all’essere e dal “per” al “con”: la nuova domanda è divenuta “Chi siamo chiamati ad essere con i giovani?”.
Con frequenza sono chiamate in causa le comunità e le Chiese locali, invitate a dar vita a processi comunitari che includano i giovani. Più che manuali teorici, servono occasioni in cui mettere a frutto l’ingegno e le capacità dei giovani stessi, ossia un approccio dal basso anziché dall’alto, avendo cura di raccogliere e condividere quelle buone pratiche coronate da successo. Anche per le Chiese questo invito a fidarsi dei giovani contiene una sfida – quello di dare loro la parola – e richiede il coraggio di mettere in discussione ciò che si è sempre fatto. Si tratta, ancora una volta, di rischiare insieme, perché

la pastorale giovanile non può che essere sinodale, vale a dire capace di dar forma a un “camminare insieme” che implica una “valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri della Chiesa, attraverso un dinamismo di corresponsabilità. […] Animati da questo spirito, potremo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone, accogliendo con gratitudine anche l’apporto dei fedeli laici, tr0a cui giovani e donne, quello della vita consacrata femminile e maschile, e quello di gruppi, associazioni e movimenti. Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte”[1].

Vi sono dunque delle responsabilità a vari livelli: tutti i giovani, ogni credente, la comunità locale, i movimenti e le congregazioni religiose, ogni singola diocesi. E in tutto questo chi ha responsabilità, e quindi autorità, nella Chiesa e nella società è chiamato in causa. Come è stato ben espresso in vari momenti del cammino sinodale, l’autorità o è generativa o non è: «Nel suo significato etimologico la auctoritas indica la capacità di far crescere; non esprime l’idea di un potere direttivo, ma di una vera forza generativa»[2]. Per questo «esercitare l’autorità diventa assumere la responsabilità di un servizio allo sviluppo e alla liberazione della libertà, non un controllo che tarpa le ali e mantiene incatenate le persone»[3]. La delusione istituzionale è uno dei tratti emersi nel cammino di ascolto di preparazione al Sinodo. Sappiamo persino del fallimento della stessa autorità degli adulti e dei pastori nella triste vicenda degli abusi, più volte richiamata durante l’Assemblea sinodale.
Ora l’autorità della Chiesa, a tutti i suoi livelli, si trova davanti a una chance di tutto rispetto: quella di prendere iniziativa, di invitare tutti a mettersi in gioco, di aprire spazi di confronto e di protagonismo, di creare le condizioni per una Chiesa sinodale e solidale, caratterizzata da un modo di vivere e lavorare insieme che sia davvero profetico per se stessa e per la società in cui vive. Il Sinodo, in fondo, ci ha consegnato proprio questo quando ha parlato di sinodalità. Cioè il fatto che non si possa più fare pastorale senza i giovani!

Dall’idea di “sinodalità” viene per noi una prima importante domanda: i giovani per noi sono un “problema da risolvere” o una “risorsa da coinvolgere”? Dalla risposta onesta a questo interrogativo nascerà un orientamento preciso per rinnovare la pastorale giovanile

Popolare: desiderosa di non lasciare indietro nessuno

Il soggetto fondamentale della fede è il popolo, dentro cui ci siamo noi come singoli, giovani compresi. Questa è la Chiesa secondo il Concilio Vaticano II, che pone il primato del popolo di Dio rispetto ai diversi stati di vita e alle differenti ministerialità. Lo stiamo riscoprendo in questi anni con papa Francesco. Il tutto ci riporta verso la “teologia del popolo di Dio”, che in America Latina è stata sviluppata negli ultimi cinquant’anni. La tesi fondamentale è tanto semplice quanto rivoluzionaria: il popolo, prima che destinatario dell’opera dei pastori, è depositario della grazia che salva. Convinzione che, se presa sul serio, rovescia moltissime delle nostre certezze e posizioni! E che apre il campo ad una pastorale giovanile popolare:

Oltre al consueto lavoro pastorale che realizzano le parrocchie e i movimenti, secondo determinati schemi, è molto importante dare spazio a una “pastorale giovanile popolare”, che ha un altro stile, altri tempi, un altro ritmo, un’altra metodologia. Consiste in una pastorale più ampia e flessibile che stimoli, nei diversi luoghi in cui si muovono concretamente i giovani, quelle guide naturali e quei carismi che lo Spirito Santo ha già seminato tra loro. Si tratta prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e nei diversi ambienti. Dobbiamo limitarci ad accompagnarli e stimolarli, confidando un po’ di più nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come vuole[4].

Una pastorale giovanile popolare è per sua natura “anti-elitaria” – cioè inclusiva di tutti i membri del popolo di Dio che invita ad avere ambienti di accoglienza “a bassa soglia” – ed anche in un certo senso “spontanea” – cioè capace di lasciare l’iniziativa ai giovani, certi che lo Spirito di Dio è presente e agisce in loro. È una pastorale giovanile che sa camminare lentamente e che intende non lasciare indietro nessuno: la profezia sta qui nell’attenzione a non abbandonare i giovani ai margini, a farsi accanto a ciascuno nello stile del buon samaritano.
La capacità di inclusione è la chiave della proposta pastorale avanzata in alcuni passaggi interessanti della Christus vivit e ridimensiona una spinta esagerata per la trasmissione teorica di verità dottrinali che non toccano la vita dei giovani. Le comunità cristiane sono così invitate a offrire spazi di accoglienza senza troppe barriere, e alle scuole cattoliche è chiesto di non trasformarsi in bunker a difesa dagli errori della cultura esterna, impermeabili al cambiamento. Particolarmente stimolanti sono i paragrafi dedicati alla «pastorale giovanile popolare»[5]: partono dal riconoscimento che i luoghi tradizionali della pastorale (oratori, centri giovanili, scuole, associazioni, movimenti) sono in grado di andare incontro alle esigenze di una certa parte del mondo giovanile, ma ne escludono inevitabilmente altre. Quanti professano fedi diverse o si dichiarano non religiosi, e coloro che per tante ragioni sono segnati da dubbi, traumi o errori, faticherebbero a integrarsi nella pastorale ordinaria, ma non per questo hanno meno bisogno di trovare porte aperte e di essere sostenuti a compiere il bene possibile.

Dall’idea di “popolarità” vengono delle domande che si riferiscono al riconoscimento delle diverse situazioni esistenziali dei giovani: quali sono le diverse soglie di accoglienza dei giovani nelle nostre strutture ecclesiali? Abbiamo differenti proposte di accesso alla fede per i giovani? Abbiamo spazi in cui i giovani possano davvero sentirsi protagonisti del loro futuro?

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Non vogliamo essere davvero “l’ultima generazione”!

Da Note di Pastorale Giovanile.

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Cos’è la bellezza? Ciò che è capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione. L’arte ne è una delle massime espressioni! Perché allora i giovani ecoattivisti hanno iniziato ad attaccarla così violentemente?
Ogni rivoluzione è riflesso dei valori di una fase storica e, se nel Sessantotto la speranza del cambiamento era imperante, la disillusione e la paura del futuro è ciò che rimane a noi giovani d’oggi. L’universo vira verso l’autodistruzione e in troppo pochi si sono davvero accorti dell’esiguo tempo che ci rimane prima che la direzione presa sia irreversibile.
Si parla di attivisti di “Ultima generazione”, poiché è proprio il tempo ad essere il fulcro delle proteste. Smacchiare un vetro (non opere d’arte) o un muro dalla vernice è senz’altro più immediato che guarire il nostro pianeta. La vera differenza è che lascia un segno nella memoria di chi lo vede. Ma se c’è davvero così poco tempo, perché il mondo politico è così disinteressato?
Dove esporremo le opere d’arte se non ci sarà nessun mondo in cui mostrarle? Vorremmo davvero delle generazioni più silenziose? Non c’è più tempo per manifestazioni “tradizionali”, è necessario catalizzare l’attenzione mediatica, far parlare di sé, far realizzare a più persone possibili che il tempo non ci porta più verso il progresso, ma sempre più velocemente e inesorabilmente all’autodistruzione.
Come “Ultima generazione” abbiamo il diritto di protestare, di alzare ad un livello superiore lo scontro sul clima, di colpire nel segno ed educare le nuove (e vecchie) generazioni ad un ecologismo che non sia solo di facciata, ma che diventi parte dell’etica di ciascuno di noi.
Il fine giustifica i mezzi? Sì! La verità fa paura, ma è necessario aprire gli occhi e questo sembra essere l’unico modo per far parlare della crisi climatica e ottenere risposte concrete.
E per chi non fosse ancora convinto a rimboccarsi le maniche, “senza bellezza il mondo non si salva, il nostro vivere diventa pesante”, affermava Dostoevskij. È quindi nostro diritto, ma anzitutto nostro dovere difendere l’ambiente e alleggerire con la bellezza della natura la nostra vita.

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Educare alla preghiera liturgica nella catechesi per i fanciulli e gli adolescenti /1

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Elena Massimi

Solitamente si inizia un incontro di catechesi per i fanciulli, o per i ragazzi, con un momento di preghiera, e si termina l’incontro sempre con una breve preghiera. Ma realmente si riesce a pregare in questi brevi momenti? Si riesce ad entrare in una relazione profonda con il Signore? In realtà mi pare che nella maggior parte dei casi più che pregare i catechisti fanno i “sorveglianti” affinché nessuno disturbi, e i bambini o i ragazzi tentano di gestire la “noia” del momento nel miglior modo possibile.
Quando poi viene proposta una celebrazione di più ampio respiro, solitamente si inventano nuovi segni, che necessitano di lunghissime spiegazioni, i bambini sono coinvolti in coreografie inopportune, gli vengono messe in bocca parole ed espressioni inadeguate, spesso caratterizzate da un linguaggio eccessivamente infantile. Si dimentica come le esperienze celebrative che accompagnano la catechesi dei fanciulli o dei ragazzi debbano essere in armonia con la liturgia e mirare alla partecipazione piena e attiva alla preghiera liturgica, alla celebrazione eucaristica domenicale in primis ed eventualmente, quando saranno giovani, alla Liturgia delle ore. Altrimenti questi fanciulli o ragazzi, da adulti, non si “riconosceranno” nella preghiera cristiana.
Vogliamo di seguito offrire alcune brevi indicazioni su come educare i fanciulli o i ragazzi alla preghiera liturgica, anche attraverso quei brevi momenti di preghiera o quelle celebrazioni che caratterizzano il percorso della catechesi. Le riflessioni proposte di seguito si inspirano ad alcuni principi sottesi al Direttorio per le Messa dei fanciulli (1973).

Premessa

Prima di entrare nel vivo del nostro tema è bene evidenziare la necessità di due consapevolezze:
1. «La liturgia è un mondo di vicende misteriose e sante divenute figura sensibile» (R. Guardini). La liturgia è una azione simbolico rituale, e come tale va “trattata”: si compone, infatti, di molteplici linguaggi (dell’arte), verbali ma soprattutto non verbali: gesti, immagini, canto/musica, vesti, vasi sacri, statue, luci, aula chiesa… Bisogna tener presente che ai linguaggi dell’arte si viene iniziati… (anche imparare a cantare!)
2. «Coloro che hanno il compito di insegnare e di educare, debbono chiedersi se loro stessi siano disposti volontariamente all’atto liturgico. In termini più netti: se sappiano in assoluto che esiste questo atto, quale sia il suo profilo, e che non è un lusso, né una stranezza, ma qualcosa di essenzialmente costitutivo» (R. Guardini).

Gli elementi necessari per una proficua formazione liturgica nella catechesi

1. Avere chiaro il punto di partenza e di arrivo
Il Direttorio per le Messe dei fanciulli custodisce alcune indicazioni importantissime da un punto di vista pedagogico; si legge: «Perché non sia troppo accentuata la differenza tra le Messe per i fanciulli e quelle per gli adulti, non si faccia mai per i fanciulli un adattamento di certi riti e testi, quali “le acclamazioni e le risposte dei fedeli ai saluti del sacerdote”, il Padre nostro, la formula trinitaria della benedizione conclusiva della Messa» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 39). Questo significa che le celebrazioni che vengono proposte durante la catechesi, o anche le preghiere di inizio o conclusione, non devono essere “totalmente” altro rispetto alla liturgia. Dobbiamo sempre avere chiaro l’obiettivo, cioè che il fanciullo, l’adolescente, da adulto, possa partecipare pienamente alla preghiera liturgica.

2. Preparare la preghiera/celebrazione con cura
La preghiera è una «cosa seria»! Richiede quindi tempo e impegno, non si può improvvisare, e nemmeno preparare all’ultimo momento. È bene scegliere per tempo un breve testo della sacra Scrittura, una orazione, un canto… preparare eventualmente un piccolo sussidio cartaceo, ove tutto è ben ordinato, e provare i canti o eventuali spostamenti o gesti… Seppur riferite alla celebrazione eucaristica per i fanciulli, preziose sono le indicazioni del già citato Direttorio: «Accurata e tempestiva deve essere la preparazione di ogni celebrazione eucaristica per i fanciulli, specialmente per quanto riguarda le orazioni, i canti, le letture, le intenzioni della preghiera universale, non senza le dovute intese con gli adulti e con i fanciulli che svolgono in queste Messe dei compiti particolari. […]» (Direttorio per le Messe dei fanciulli, 29).

3. L’importanza del luogo… non si prega ovunque!
Non è la stessa cosa pregare in chiesa, in teatro o nell’aula di catechismo. Cambia il nostro modo di porci nella preghiera. In Chiesa sappiamo a priori che il Signore è presente e che è il luogo nel quale i cristiani si radunano per ascoltare la Parola, per celebrare l’eucarestia e gli altri sacramenti, per pregare e adorare. Nel teatro, invece, per riuscire a sintonizzarci con la preghiera, facciamo più fatica, dato che nel nostro corpo “rimangono impresse” le altre attività che lì abbiamo svolto, e lo stesso può dirsi dell’aula di catechismo. Questo non significa che anche nella breve preghiera all’inizio dell’incontro dobbiamo andare in chiesa, è necessario però preparare un angolo per la preghiera nella stanza ove si svolge l’incontro. Tutto ciò aiuta a collocarci in un clima di preghiera. Naturalmente relativamente al luogo è necessario fare un discernimento; ad esempio se si prega all’inizio dell’incontro di catechesi, si pregherà nell’aula; se si dovesse fare una celebrazione più lunga, ad esempio sul perdono, o sull’attesa del Natale… allora forse è meglio pregare in chiesa, poiché il luogo stesso dispone meglio alla preghiera.

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Ignoranti in materia di vita?

Da Note di Pastorale Giovanile – Rubrica: Dicono di sé… dicono di noi. I giovani narrano e si narrano.

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di Gloria Sortino

Almeno una volta ci è stato detto “nella vita non si smette mai di imparare” senza capire di quale “materia” si stesse parlando! Fin dalle scuole elementari abbiamo assunto come latte materno un modello di apprendimento “a sezioni” fatto di italiano, matematica, storia e geografia, altre discipline ed è inevitabilmente diventato parte della nostra persona. Possiamo così contare su una conoscenza buona ma limitata, che si riduce all’ora di verifica in classe e destinata a svanire nei secondi successivi. Gli occhi stanchi e disillusi degli alunni, che vede un insegnante quotidianamente, sono l’effetto di un sistema che allontana la disciplina scolastica dalla vita odierna e la consegna direttamente all’iperuranio dei concetti astratti. Spesso dai professori proviene l’invito ad avere uno sguardo d’insieme sulle materie, che sappia andare oltre il semplice insegnamento; peccato che siano gli stessi a stufarsi nel sentire un’esposizione che oltre alla materia, contenga anche sogni e passioni. Questo non vuol dire che viene negata la possibilità di esprimere i propri interessi, semplicemente non rientrano in un programma didattico da seguire obbligatoriamente. Per questo motivo noi giovani non riusciamo facilmente a rispondere al monito della vita “non smettere mai di imparare”, perché ci sembra di aver raggiunto il nostro obiettivo solo con la valutazione in pagella. Eppure, circa duemila anni fa a Roma, Quintiliano aveva già intuito che la socialità data dall’educazione fosse un’occasione per imparare a vivere insieme agli altri e a trovare la motivazione per il raggiungimento di ottimi risultati. Sottolineava anche la figura del docente come promotore dei rapporti interpersonali con gli allievi e punto di riferimento non solo per la conoscenza, ma anche per i problemi della propria esistenza. Infatti, tra i banchi di scuola, non si condividono solo penne e appunti, ma anche lacrime, sorrisi e consigli di vita. Sono i luoghi in cui le storie si intrecciano e crescono giorno per giorno; nella secondaria di II grado tra un verso della Divina Commedia e una formula matematica, cominciano a forgiarsi il carattere e il pensiero critico, tuttavia questo processo dovrebbe essere già iniziato molto prima. Si matura la consapevolezza che, oltre le pagine, si impara anche dal dialogo e dal continuo confronto che accompagnano le nostre giornate, per diventare i protagonisti di una vita che ci aspetta, finite le famose cinque lunghe ore, studiando all’università, inserendosi nel mondo del lavoro.

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La paura di deludere e il coraggio di vivere

Da Note di Pastorale Giovanile, rubrica “Dicono di sé…dicono di noi”

di Giulia Ruscica e Luca Savatteri

Negli ultimi anni si sente parlare troppo spesso di giovani come noi che vanno incontro al suicidio.
La maggior parte delle volte nessuno, o quasi, è a conoscenza della sofferenza che portano dentro di sé e questo è un problema da attribuire alla società in cui viviamo, quella sempre pronta a giudicare. Non si sentono liberi di poter parlare di come stanno neanche con la famiglia e con gli amici più stretti, ed è per questo che si tengono tutto dentro fino a non farcela più.
E noi? Se provassimo ad aprirci agli altri, scopriremmo di non essere gli unici ad avere delle difficoltà o a sentire certe emozioni, ma poiché si tende a non parlarne, pensiamo che le altre persone stiano vivendo una condizione migliore e fingiamo di viverla anche noi, considerando “inferiore” o “inadatto” chi invece mette alla luce le proprie problematiche.
Inoltre, vengono rese pubbliche con grande enfasi le notizie di coloro che riescono ad ottenere ottimi risultati e posizioni, elogiandoli e facendo sentire al resto di noi di aver fallito.
Si ha paura di deludere i genitori, gli insegnanti, gli amici e per ultimi se stessi; si è spaventati di essere emarginati o rimanere troppo indietro, e tutto questo scatena un insieme di emozioni negative che possono portare a preferire la morte piuttosto che la vita.
Ci è capitato di leggere di alcuni universitari che hanno organizzato tutto ciò che sta attorno alla laurea, coinvolgendo parenti e amici, ma una volta arrivati a quel momento si sono tolti la vita, perché in realtà non c’era nessuna laurea ad aspettarli: dovevano ancora finire di fare gli esami di alcune materie! Si tratta di ragazzi che hanno avuto paura di affrontare la vita, i loro studi e la loro famiglia; hanno finto che andasse tutto bene senza parlarne a qualcuno, arrivando a compiere l’atto che ha posto fine alla loro sofferenza. E questo succede sia in ambito scolastico che lavorativo, perché la società chiede e pretende troppo da noi, escludendoci subito quando non si arriva a mantenere il canone richiesto.
Ci sentiamo schiacciati dalla paura di fallire sin dalla scuola superiore, nel momento in cui si deve capire cosa fare nel resto della vita. È positivo se si ha già un’idea di che lavoro svolgere e quindi se e con quali studi proseguire, ma non per tutti è così. Gli adulti credono che il tempo sia sufficiente per attuare una scelta, ma gli ambiti lavorativi sono troppi, così come le facoltà universitarie; gli orientamenti a scuola vengono svolti troppo tardi, quando già i test di ammissione sono iniziati e informarsi da soli su tutto non è facile. Ciò provoca ancora più ansia; non solo dobbiamo preoccuparci di studiare per la maturità, ma anche per i vari test o concorsi, con la paura di non superarli e perdere un anno. Non dovrebbe neanche essere considerato un problema se il test può essere ripetuto l’anno successivo, ma ancora una volta è la società ad imporre una corsa a chi è più bravo e veloce.
Dovremmo cercare di dare meno ascolto ai giudizi altrui, concentrandoci più sui nostri obiettivi e con i nostri tempi, perché non si può buttare l’importante dono della vita solo per non essere stati i più veloci a prendere un titolo di studio o a raggiungere una buona posizione nel lavoro.
Come cantava Battisti su un testo di Mogol: «I giardini di marzo si vestono di nuovi colori (…) ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è». E allora ci si chiede come si può trovare quel coraggio, come si può “trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha”? Forse la risposta sta proprio nel cercarla, nel porsi costantemente queste domande e nell’osservare come le risposte a queste ultime cambino giorno dopo giorno. Circa trent’anni fa l’artista Maurizio Cattelan rappresentava con l’opera “Charlie don’t surf” la mancata libertà dei ragazzi attraverso uno studente con le mani inchiodate al banco da un paio di matite. Oggi, invece, quella libertà che prima si percepiva come mancante, viene quasi sentita come ingombrante, e superflua. Oggi Charlie probabilmente è riuscito a sbarazzarsi di quelle matite che lo tenevano fermo, tuttavia ora che non ha più quel vincolo, come avrà reagito? Io lo immagino finalmente alzarsi, osservare le sue mani, ma con un briciolo di amarezza domandarsi: “E adesso?”.

* Studenti dell’I.S. Majorana-Arcoleo di Caltagirone

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Tra i diritti e i doveri non ci sia in mezzo il mare!

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Chiara Giancona

Quante volte nelle discussioni diciamo la frase “questo è un mio diritto!”, ma quante altre ne conosciamo veramente il senso. I diritti nella nostra visione giovanile vengono visti come qualcosa che è già lì, che qualcun altro ha ottenuto per noi, quindi spesso vengono dati per scontato. Non ci rendiamo conto del vero valore che hanno e di come si starebbe se non ce li avessimo: dai diritti inviolabili fino ad arrivare al diritto allo studio, alla salute, all’aborto, al voto e così via. Come sarebbe la nostra vita senza? Eppure, in passato la scuola non era aperta a tutti, le donne non potevano scegliere se abortire o meno, per non parlare del diritto di voto che non era dato a tutti. I nostri avi hanno combattuto per farci avere questi diritti, per consegnarci un mondo migliore e noi lo diamo per scontato? Assolutamente no! Dobbiamo ogni giorno ricordarne il valore quando andiamo all’università, al lavoro, e rivendicarli nel giusto modo quando ce ne sarà bisogno e non rivendicarli solo quando ci fa comodo per ottenere solamente quello che ci interessa senza capirne il valore. Mentre dei doveri molte volte ce ne dimentichiamo totalmente, senza ricordarci che ad ogni diritto ne corrisponde sempre uno e non c’è un diritto senza un dovere.

Iniziando dal più semplice a quello più importante: mantenere pulite le nostre città, rispettare luoghi pubblici e le regole del convivere civilmente, non guidare in stato di ebrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti per noi stessi e per la vita degli altri, dei coetanei, dei genitori. Al contrario invece ci sono altri giovani che tengono ai propri diritti, li rispettano, non li considerano scontati e gli danno voce, al contempo rispettano i doveri in una maniera intransigente come dei cittadini modello e gli altri dovrebbero prendere esempio.

E gli adulti come ci vedono in questo ambito? Veniamo considerati come una generazione persa: non diamo valore a nulla, non abbiamo rispetto per gli altri e per noi stessi. Forse qualcuno è così, ma non lo siamo tutti! Teniamo in considerazione quanti si dedicano alla battaglia per l’ambiente meglio degli adulti, quanti intraprendono un percorso politico credendo veramente negli ideali a differenza di adulti che cambiano partiti come magliette; giovani che studiano e cercano di cambiare il mondo in maniera positiva, per risolvere i problemi lasciati dagli adulti, dalla crisi climatica alla crisi economica per esempio. Per non parlare di quante volte gli adulti si dimenticano dei giovani mettendoli in secondo piano, pensando solo ai propri bisogni e non a quelli delle generazioni future. Apprezziamo, invece, quegli adulti che contano su di noi, che ci vedono come il futuro, che cercano di farci crescere e aiutare, che capiscono realmente il nostro valore: tanti insegnanti, i nostri genitori, gli educatori. Il Presidente della Repubblica Mattarella nel discorso di fine anno ha detto: “Guardiamo al domani con gli occhi dei giovani. Raccogliamo le loro speranze. Facciamo si che il futuro delle giovani generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra sfuggendo la pretesa di scegliere per loro, di condizionarne il percorso”.

Nota della Redazione.
Il senso di questa rubrica è dare voce ai giovani, lasciar loro raccontare le loro fatiche, le loro scoperte, i loro dubbi e le loro certezze. Anche su temi molto sensibili, come si dice, e delicati, come l’aborto citato nell’articolo. A noi, adulti, anche come rivista ecclesiale, il compito di ascoltarli, di ragionare insieme, di raccontare anche “altre” ragioni. Con lealtà.

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Anche il gioco può favorire l’incontro con Dio

Dal sito di Note di Pastorale Giovanile.

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Intervista a d. Alessandro Zavattini

Stefano Rossini

Preti youtuber, altri che scrivono di fantasy, altri ancora che usano l’immagine, il teatro o i canali social… Don Alessandro Zavattini, 49 anni, da sempre impegnato nella pastorale giovanile, sulla narrazione educativa, biblica, il bibliodramma ha fatto la sua tesi di laurea ed è in Diocesi uno dei fautori del grande sviluppo di questo nuovo linguaggio, certamente utile alla catechesi, ma anche all’evangelizzazione degli adulti.

Alessandro, uno dei problemi che la Chiesa vive oggi è quello del linguaggio, di come riuscire a farsi ascoltare, ma soprattutto capire. Quanto questo problema tocca il tuo essere prete oggi?

Il problema del linguaggio non è solo quello di farsi ascoltare o capire, ma anche quello di come bene ascoltare e di come capire. Un autentico messaggio, infatti, è un incontro tra due mondi, due culture, il mio e il tuo. Quello che mi ha aperto gli occhi, alla scuola dei Salesiani, è che, come adulti e ancor più come Chiesa, siamo abituati ad informare e non a comunicare. La differenza sta qui: se voglio informare sono preoccupato che quello che ho in testa passi nella testa di chi mi ascolta, come convincere, persuadere l’altro. Gli devo “inoculare” il messaggio come un vaccino. Se invece voglio comunicare so che il messaggio è la sovrapposizione del mio pensiero con quanto tu percepisci di me e di ciò che “dico”. Non solo con le parole, ma con l’atteggiamento, il tono, l’espressione, il corpo… Comunicare è costruire un significato comune con te, dar vita ad un “noi”.
Ma come Chiesa Cattolica Italiana, nemmeno nei 10 anni dedicati al “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” ci siamo soffermati un attimo su cosa volesse dire veramente “comunicare”. Questo atteggiamento comunicativo mi è servito tanto, sin da subito, nella vita non solo pastorale, a voler mettermi in ascolto ed in cammino con le persone prima di parlare o agire. Ed anche ho scoperto sempre più affine allo stile di Gesù, comunicatore perfetto. Venuto non tanto per comunicare “le verità su Dio”, ma Dio stesso e la sua vita. È “l’auto-comunicazione di Dio” come fa intendere il Concilio. Il suo metodo (meth-hodos, attraverso il sentiero) è quello sulla strada di Emmaus, icona biblica scelta come sintesi del Sinodo dei Giovani: accostarsi sulla strada della fuga, chiedere e farsi raccontare, rileggere la vita alla luce della Parola, aprire gli occhi con la condivisione… Ed anche il suo stile di maestro con le parabole. Descrive il Regno di Dio parlando di semi con i contadini, di pesca coi pescatori, di talenti coi pubblicani. Mostra l’agire di Dio nel tuo mondo, nella tua cultura e poi te lo fa toccare pescando con te, mangiando alla tua tavola, passando tra i tuoi banchi di mercanzie. Per questo ho deciso, ormai da 20 anni, di tenere un piede dentro la scuola con gli adolescenti, dove passano la maggioranza del loro tempo. Qui trovo anche praticamente tutti quelli che camminano alla lontana non solo dalle nostre celebrazioni ma anche dai nostri incontri. Non tanto e non solo per insegnare, quanto per imparare da loro, che sono l’avanguardia dei cambiamenti, della cultura. Sono la parte più ambita dai modelli di consumo, dalle tendenze di mercato. Son li per ascoltarli non per “vendergli” il Vangelo, quanto per scoprire con loro cosa vuol dire la buona notizia di Dio oggi. E per comunicare che Gesù risorto è il liberatore dei linguaggi e dei talenti.
Tanti episodi me lo hanno fatto capire. Ne cito uno tra i tanti. Tornando dal pellegrinaggio in bicicletta con gli adolescenti da Savignano ad Assisi, in pulmino ascoltavamo la musica di Andrea che sparava un trap strapieno di volgarità, violenza e visioni scurrili delle donne. Gli chiesi se gli piacevano i testi e mi fece ascoltare altri testi più profondi degli stessi autori. Gli proposi di alternarci ad ascoltare una canzone del suo mondo con una del mio background rock anni ‘80. Mi fece ascoltare testi provocanti di rapper ed io gli feci apprezzare le melodie e le riflessioni dei Dire Straits. Ci arricchemmo a vicenda e tra i commenti disse di aver scoperto nuova musica. Diceva don Bosco: “interessati di ciò che piace ai giovani e loro si interesseranno di te”. Sapeva comunicare, come Gesù ad Emmaus.

Come ti sei interrogato? Quali strade innovative hai provato a percorrere?

Tenendo i piedi nel mondo degli adolescenti e del Vangelo, mi sono sorte tante domande proprio sullo stile di evangelizzazione. Anzitutto il mio interesse è sempre stato da una parte la relazione con Colui che mi ha salvato la vita, Gesù, la Sua Parola e il Suo Corpo, vivi. Dall’altra le nuove generazioni che perdiamo sempre più dalle fila delle nostre comunità. Sono entrambe una questione di sopravvivenza: senza il Risorto perdiamo la fonte di vita, senza i giovani ci estinguiamo. Nostro compito è farli incontrare. Questo ci rende fecondi e felici come Chiesa. Oggi i ragazzi (ma anche gli adulti e di conseguenza i bambini) non percepiscono affascinante ciò che per noi è più essenziale e “buono”: la Bibbia, la Messa, la fede, la Chiesa.. Dio stesso. Anzi tanti li descrivono sempre più repellenti. Faccio un gioco nelle classi e coi gruppi parrocchiali. Dispongo nella stanza due poli estremi, credo e non credo. Poi chiedo di disporsi tra i poli in base alla loro percezione attuale, ora. Con i dovuti distinguo, fino a qualche anno fa la maggioranza si poneva al centro con pochi ai due estremi. Più di recente, la maggioranza si pone dal centro verso il non-credo, con più di uno che dice: “se fosse possibile andrei oltre quel polo estremo”. E sono i ragazzi che hanno scelto l’ora di religione e i gruppi cattolici. Hanno immagini negative di chiesa e di Dio. Però ci stanno al confronto, sono favorevoli ad un dialogo autentico con gli adulti su questo. E sono pure interessati alla Bibbia se presentata nel modo giusto. Tra gli universitari ho incontrato diversi giovani che si dicevano agnostici ma leggevano il Vangelo. Addirittura una ragazza che non faceva religione al liceo classico, dopo aver ascoltato Cacciari attualizzare la lettera ai tessalonicesi, ha consegnato la sua tesina d’esame sul “katekon”, termine chiave della teologia neotestamentaria. Allora dove sta il problema?
Indagando sugli stili pastorali della nostra Italia, si comprende bene che l’ignoranza “biblica” di intere generazioni non deriva dalla scarsa informazione. Catechismo e ora di religione la fanno ancora una larga maggioranza. Piuttosto l’ostacolo risiede nell’ignoranza ecclesiale dei linguaggi e degli approcci che sono patrimonio dei “nativi digitali”. Non è questione di informare di più e meglio, di “catechizzare” giovani e adulti. I nostri approcci sono libreschi, intellettuali, criticano l’emotività, si pongono come rieducativi, scolastici, sistematici. Mentre le ultime generazioni Y (o millennials, nati tra l’80 e il’95) e Z (o iGen, nati tra il ‘95 e il 2010), molto più della X Gen (‘65-’80), sono allergici allo stile “educational”, percepito come “manipolatorio” della libertà. Preferiscono i film, i video, le serie tv, i social ai libri, le immagini alle parole, le emozioni ai pensieri, l’interazione più dell’ascolto passivo. Più che con la testa o il cuore, ragionano con la pancia e credono con il corpo (Cfr. i testi di Gilberto Borghi). Amano i videogiochi, le storie, i fantasy, i supereroi, i cosplay (vestirsi come i fumetti). Il Papa dopo il sinodo dei Giovani dice: “Essi ci mostrano la necessità di assumere nuovi stili e nuove strategie. Ad esempio, mentre gli adulti cercano di avere tutto programmato, con riunioni periodiche e orari fissi, oggi la maggior parte dei giovani si sente poco attratta da questi schemi pastorali. La pastorale giovanile ha bisogno di acquisire un’altra flessibilità e invitare i giovani ad avvenimenti che ogni tanto offrano loro un luogo dove non solo ricevano una formazione, ma che permetta loro anche di condividere la vita, festeggiare, cantare, ascoltare testimonianze concrete e sperimentare l’incontro comunitario con il Dio vivente.”
Così li giudichiamo virtuali, superficiali, irrazionali, disimpegnati, giocherelloni. Ma se guardiamo la Bibbia dalla loro parte, coi loro occhi scopriamo che è gran parte racconto, dramma, ironia, piena di visioni, parabole che stimolano la fantasia, guerrieri, eroi e antieroi. Che l’ebraico è una lingua che parla al corpo, tanto che “la Parola si fece carne”. Che Gesù parla col corpo e lo consegna come il vero testamento, è un autentico giocatore di ruolo, racconta parabole come role play, inverte i ruoli (suo il ritornello “i primi saranno gli ultimi…”), scambia la sua identità altri, con i piccoli, i poveri, i disprezzati, in vita e fin con la sua morte in croce. Insomma, studiando i giovani e Gesù, o meglio, la Parola attraverso gli adolescenti, ho scoperto l’importanza del raccontare più che insegnare, dell’homo ludens più dell’homo faber. Il gioco non è qualcosa di infantile, superficiale, poco serio o addirittura pericoloso (come le ludopatie, dipendenze da gioco). Anche la sapienza di Dio nella Bibbia gioca (Pr 8,30). Sono stato fino a Gerusalemme per cercare il significato originale di “parabola”, mashal, per scoprire che significa spesso racconto e gioco.
Servono, allora, approcci di apprendimento narrativo e ludico, modalità che non solo il marketing, ma anche la formazione professionale e scolastica ha da tempo riscoperto. Servono non tanto catechesi o scuole della Parola aggiornate, ma laboratori della fede, aperti in entrata ed in uscita anche ai chi fatica a credere o anche non crede, ma accoglie di mettersi in gioco con la Bibbia. Sono andato, attraverso una ricerca di dottorato, alla ricerca dei metodi che rispondessero a questi criteri. E ne ho trovati diversi molto interessanti. Non mi sono fermato a studiarli, ma, grazie anche a contatti di amici, ho cercato gli ideatori, ho partecipato ai laboratori e poi mi sono dedicato ad apprenderli. In particolare ho conosciuto il compianto Riccardo Tonelli e la narrazione educativa, il collega ed amico Marco Tibaldi e la narrazione biblica, il gesuita Beppe Bertagna e lo psicodramma biblico, Giovanni Brichetti e tutta l’Associazione Italiana Bibliodramma. Investendo su queste dinamiche attive con la Bibbia ho scoperto anche l’importanza di comunicare anche nel kerygma. Bertagna, in particolare, ci ha aperto gli occhi su come la Buona Notizia rischia di essere percepita come cattiva se rimane solo una entusiastica testimonianza: “Hai incontrato Dio e ti ha cambiato? buon per te! ed io, che ho un’altra storia rispetto alla tua? non è per me?”. Se il kerygma non rilegge e non tocca la vita di chi incontro, potrebbe addirittura amareggiare. Ancor di più serve facilitare col gioco l’incontro dei giovani, spesso disillusi e feriti, con Dio, gli increduli con il Padre che crede nei suoi figli, i “fuori dal recinto” con il pastore che esce a cercarli.

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