Ricucire un’alleanza – Oltre la retorica della «condizione giovanile» (Pierangelo Sequeri)

Commento di Pierangelo Sequeri

Preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II

Sinodo sui giovani, dei giovani o con i giovani? Sono le domande che la Chiesa si va facendo, mentre cerca una formula per dire da un lato che la prossima Assemblea ordinaria del Sinodo è «dei vescovi». e dall’altro che quando si mette a tema una determinata categoria di persone si cerca di renderle protagoniste. Alla Chiesa sta a cuore che i giovani possano condividere con lei un’idea a proposito di loro stessi.
Occorre tuttavia mettere a fuoco i termini. Si parla correntemente, anche nella Chiesa, di «condizione giovanile»: un’espressione che tuttavia non va data per scontata. È solo di recente, infatti, che per «condizione giovanile» s’intende dire che i giovani sono un gruppo diverso e contrapposto rispetto agli adulti, con bisogni e desideri specifici.
Questa divisione è stata inventata dall’economia, poi assunta dalla sociologia, che ha enfatizzato l’idea che i giovani devono conquistare la propria libertà. Ma a mio avviso è una trappola che tiene separata l’umanità per venderle le cose due volte e allo stesso tempo ottenere una certa immobilità nel rapporto tra le generazioni e nel rinnovamento della storia.
I due mondi, tuttavia, sono costretti evidentemente a incontrarsi, secondo modalità non sempre prive di conflitti. I ragazzi cercano di difendere il loro mondo dall’invadenza degli adulti, che comandano perché arrivati prima.
Una difesa a oltranza che provoca frustrazione, perché viene loro a mancare l’appoggio degli adulti, a sua volta necessario.
La difesa della propria autonomia è un tema culturale diffuso, accarezzato ed esaltato dalla pubblicità. Tuttavia, poiché alla fin fine il mondo giovanile dipende da quello adulto, l’enfasi sulla specificità comunica ai ragazzi la sensazione di essere da soli. E quando ci si sente soli ci si difende e si cerca di resistere; dall’altra parte il mondo adulto si allarma.

Gli adulti patetici

Questa divisione tra mondi passa naturalmente attraverso le famiglie. Come reagisce il mondo giovanile? Se ai giovani diciamo che sono un mondo a parte e che devono vivere i propri valori e logiche, ma ciò nella realtà si rivela impossibile, non dobbiamo meravigliarci che la loro difesa oltranzista assomigli a una fuga che non morde sulla realtà, perché essi hanno bisogno dell’altra metà del mondo, quella degli adulti, quelli che hanno «le chiavi» del potere.
Sul versante invece dei genitori, molti cercano di diventare più giovani che possono e obbediscono al refrain pubblicitario che solo «finché sei giovane e gagliardo vali qualcosa». Per timore di non valere imitano i ragazzi, vivono come loro, si vestono come loro… Certo questo ha anche un aspetto positivo: il voler essere amico dei ragazzi significa non essere distante da loro, manifesta la volontà d’entrare in contatto, tuttavia un conto è colmare le distanze, un altro è il giovanilismo degli adulti: il rischio è di sembrare patetici. Anche perché gli stessi ragazzi – pur non ammettendolo volentieri – sentono la necessità di qualcuno che abbia accumulato abbastanza esperienza della vita da fare loro da sponda e sostenerli, dicendo ciò che è bene e ciò che è male.
I padri e le madri esistono per questo, queste sono le cose che i ragazzi hanno bisogno di sentirsi dire non in modo fiscale, formale, autoritario, ma in base all’esperienza: vedere un genitore che cura il bambino malato o la nonna anziana dà un orientamento su ciò che vale nella vita. Se invece noi adulti ci limitiamo a imitare la spensieratezza dei ragazzi, il loro gioco, il voler essere giovani fino a quando abbiamo già i capelli bianchi, qualcosa non torna.
Questo è il primo tema che la Chiesa deve affrontare: la separazione tra i due mondi. Essa è andata molto lontano e ha fatto sì che entrambi abbiano accumulato frustrazione senza aver trovato una forma di rapporto giusto: un’urgenza a mio avviso che attraversa tutta la condizione famigliare.
La Chiesa quindi deve interrogarsi su quale sia il modo giusto per ristabilire un rapporto tra i due mondi. metterli sul loro asse e fare in modo che la condizione giovanile venga percepita come un’iniziazione alla vera condizione umana, quella che conta, quella che fa la storia, cioè quella dell’adulto, che è in grado di prendere la parola nella comunità perché si prende delle responsabilità nella vita.
Occorre dare dignità e appeal al desiderio di diventare adulto, che è un diritto guadagnato col lavoro, con la famiglia, con ciò che si è imparato, con la maturità che ci si è guadagnata. Così si può prendere la parola nella comunità ed essere ascoltati, non solo dai ragazzi ma da tutti.
La domanda è: come si crea questo asse senza mortificare la condizione giovanile, che ha bisogno di fare i suoi esperimenti e di trovare la propria strada e non può semplicemente essere inquadrata in schemi preconfezionati? E come fare in modo che gli adulti si assumano la responsabilità d’essere il punto di traino per fare posto alla nuova generazione, senza chiudere le porte del mondo ai giovani perché ci si sente minacciati dalla loro esuberanza, ma anche senza adottare l’atteggiamento opposto e patetico di volerli scimmiottare, salvo poi tenere saldamente in mano le leve della politica, dell’economia e delle cose che contano?

La condizione umana è una

Dovremo lavorare per ristabilire un rapporto dialettico e positivo tra le generazioni, e soprattutto per ristabilire l’unità della condizione umana, che non è di tipo orizzontale, con due mondi che devono in qualche modo combattersi e difendersi l’uno dall’altro, ma è lineare, come la prospettiva della storia.
I giovani hanno il diritto a essere iniziati alla vita in modo non oppressivo o dispotico e d’arrivare alla maturità del modo di abitare la vita, che comporta per i giovani il diritto di contare e per gli adulti il diritto di rappresentare per essi una sponda capace di comprendere ciò che di nuovo ogni generazione porta con sé e di non mortificarlo, ma anche di offrirgli le condizioni e le risorse perché arrivi a valere.
Di qui una seconda riflessione. Nella ricomposizione dei due mondi tocca agli adulti – Sinodo dei vescovi – fare la prima mossa: sono loro che devono essere convinti di volere offrire la possibilità che ogni nuova generazioni porti al mondo la propria carica di novità e sostenerla in questo, pur con le sue difficoltà, ferite, frustrazioni: l’età giovanile ha diritto a essere un po’ sognatrice e a fare le proprie esperienze anche dolorose.
Ma nel fare questo occorre capire che cosa s’intende per «vocazione»: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale» è, infatti, il tema di questo Sinodo. La vocazione è in generale l’apertura alla vita e la personalizzazione che di essa ciascuno deve fare, secondo un nome e un cognome precisi. Non si tratta solo di scegliere una professione o una condizione di vita, ma un’intonazione personale nell’esistenza, che io traduco con il concetto di «destinazione».
È un’idea che deve essere sottratta al fatalismo, che un tempo era religioso e oggi è di tipo evoluzionistico, e che ci dice che siamo insetti ingegnosi fatti di organismi, di materia, di polvere di stelle, abili predatori e consumatori che hanno come obiettivo il godimento del mondo e la sopravvivenza a spese altrui. Questa rappresentazione dell’umano che filtra dalle ideologie che si appoggiano alla scienza – ma non ne avrebbero il diritto – è molto mortificante: bisogna dirlo ai ragazzi. Non siamo un grumo di cellule! Siamo umani!
E condizione umana significa essere in grado d’indagare sulla propria destinazione, sul perché ci sentiamo attratti e verso dove siamo destinati a indirizzare le nostre risorse migliori.
Solo una volta individuata in tutta libertà la nostra destinazione capiremo quali sono le nostre risorse e il loro scopo; scopriremo in definitiva chi è la persona che abbiamo ricevuto il compito molto misterioso di rendere felice. Se scopriremo questo saremo felici anche noi: è un grande segreto della vita, di cui il Vangelo porta la chiave.
Se invece ci domanderemo innanzitutto «come posso essere felice?», e poi dopo vediamo che cosa fare con gli altri, non raggiungeremo nessuno dei due obiettivi: rimarremo senza destinazione nella vita e non saremo felici, perché guardando solo in sé stessi non si troverà una felicità definitiva.

Chi devo rendere felice?

La cultura dell’individualismo e del godimento a tutti i costi ha inquinato la ricerca della destinazione e ha posto la domanda in questi termini: «Qual è il modo migliore per godere la vita?». È la strada peggiore, perché è falso pensare che accumulare risorse mi renda felice.
Infatti alle nostre latitudini i ragazzi stanno diventando infelici e l’Europa è un’incubatrice di generazioni infelici e malinconiche, alle quali non basta niente e che devono vincere la noia. Questo male di vivere deriva dalla trappola creata dalla domanda su che cosa posso trovare dentro di me per nutrirmi di godimento ed essere felice. I giovani stessi possono insegnarci come disinnescarla, se si lasciano afferrare dall’idea che c’è un segreto del proprio compimento, che consiste nell’interrogarsi creativamente su chi sono destinato a rendere felice e su che cosa posso inventarmi per abbellire il mondo.
Allora si potranno scoprire molte cose su sé stessi, che altrimenti non si scopriranno mai e capire la verità della parola evangelica che dice che se si dona la vita la si guadagna cento volte.
A prima vista in un mondo come il nostro questa potrebbe apparire una sfida impossibile. La Chiesa è invece convinta che i giovani siano in grado di assumerla se incoraggiati. Ne trarranno vantaggio anche gli adulti, che smetteranno di essere patetici imitatori degli adolescenti e faranno loro sponda, sostenendoli nella ricerca della loro destinazione.
Quando la Chiesa parla di vocazioni parla di questo, ma per non rischiare di rimanere imprigionata in una tradizione troppo limitata di questo termine si rivolge ai giovani e chiede loro: «Che cosa vi serve, che cosa pensate, quali sono le difficoltà che provate quando cercate di porvi questa vera domanda?». Questa è la domanda che dobbiamo porci insieme, e sono sicuro che anche la Chiesa ci guadagnerà se riusciremo a stringere questa alleanza.

(Il testo è una rielaborazione della riflessione che l’autore ha pubblicato sul canale Youtube della diocesi di Milano https://www.youtube.com/watch?v=w5seoIU4kHM. REGNO – ATTUALITÀ 2/2018, pp. 8-9)