I giovani non sono perduti per la fede (Enzo Bianchi)

Commento di Enzo Bianchi

Fondatore della Comunità monastica di Bose

Questo mese di ottobre nella Chiesa cattolica è vissuto quasi interamente (dal 3 al 28) come “sinodo”, un camminare insieme sotto la guida del Papa, convergendo a Roma, interrogandosi e riflettendo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. È un evento che potrebbe essere significativo. E, forse, anche decisivo per la presenza dei giovani nella Chiesa, una porzione di popolo di Dio che si sta assottigliando, soprattutto in occidente. E che rischia di mancare alla Chiesa di domani.

In questi anni di preparazione e di attesa ho sentito più volte la domanda: «Ma è possibile un Sinodo che non sia solo sui giovani ma anche dei giovani?». Infatti, l’assemblea sinodale è composta da circa duecento vescovi, da alcuni esperti e auditores, ma non è certo un’assemblea di giovani.

Alcuni di questi saranno presenti, ma il Sinodo è un’istituzione episcopale, non un’assemblea ecclesiale. I padri sinodali sono, appunto, “padri” e non possono essere i giovani.
Ma ho colto anche un’altra perplessità: quali giovani? I giovani sono presenti in tutto il pianeta, in tutte le Chiese sparse per il mondo, ma cosa li unisce, al di là della loro età, della comune giovinezza? Un giovane di Milano non credo abbia molto in comune con un giovane della Nigeria.

Così come un giovane di New York è altro rispetto a un giovane dell’Eritrea. Queste evidenze potrebbero portarci a giudicare il Sinodo come un’impresa impossibile, perché troppo grande è la differenza e troppo articolata è la complessità della vita nelle diverse aree continentali e regionali.

Va tuttavia riconosciuto che, essendoci stata una consultazione dei giovani in molte Chiese locali, il loro ascolto sarebbe possibile se i lavori del Sinodo avverranno in modo ordinato. Così da giungere a individuare come le Chiese regionali possono rispondere alle attese dei giovani e aprire loro delle vie che li rendano soggetti ecclesiali, protagonisti nella vita cristiana. Avendo già partecipato come esperto a due Sinodi dei vescovi e avendo quindi acquisito una certa esperienza nell’ordo laboris, mi auguro che questa volta nell’ordinare gli interventi si tenga conto dell’Instrumentum laboris e della “regionalità” delle proposte, delle suggestioni e degli interrogativi sottoposti all’attenzione dell’assemblea sinodale.

Da parte mia, quale auditor invitato da papa Francesco al Sinodo, vorrei dare un umile apporto proveniente dall’ascolto dei giovani in varie Chiese locali dell’Europa occidentale neolatina e nella mia comunità. Sovente ho posto ai giovani la domanda: «Che cosa vorreste che la Chiesa dicesse di voi e a voi giovani? Come voi giovani vi sentite e vorreste sentirvi soggetti protagonisti nelle vostre Chiese locali?». Le risposte sono state moltissime e, nel leggerle con attenzione, ho trovato conferma alla mia speranza: le nuove generazioni non sono perdute per la fede cristiana, ma sono molto esigenti nella loro ricerca. E, pur sorprendendoci, non sono tuttavia divenute estranee a Gesù Cristo e al Vangelo.

Da questo ascolto dei giovani vorrei porre alcune urgenze che il Sinodo potrebbe recepire.

Innanzitutto i giovani temono una certa retorica della Chiesa nei loro confronti: chiamarli in modo ossessivo “futuro della Chiesa” o “sentinelle dell’avvenire”, non è sufficiente per intrigarli. Essi vogliono essere riconosciuti Chiesa già oggi, presente della Chiesa, porzione del popolo di Dio.

Vogliono sentirsi soggetti ecclesiali oggi, nella loro condizione giovanile, certo, ma senza sentirsi chiamati solo al domani della Chiesa.

Ma occorre anche dire che i giovani non vogliono essere adulati, vezzeggiati dai cristiani adulti: vogliono semplicemente essere presi sul serio. Chiedono che sia accolta la loro differenza, accettando anche il fatto di non poter sempre essere capiti. Anelano che si mostri fiducia in loro, sostenendo la loro ricerca senza avere la pretesa di dirigerla. Quanto poi a questa loro ricerca, sarà bene tener conto di alcune realtà ormai assodate nella lettura sociologica e nella cosiddetta pastorale giovanile, realtà che non vanno edulcorate o addirittura deformate perché risultano faticose e dolorose. Anche ciò che è critico, che fa male agli adulti nella Chiesa, va ascoltato, assunto e non rimosso, in modo da poter essere “pensato” alla ricerca di possibili risposte.

Altre volte ho scritto che ormai per le nuove generazioni “Dio” è una parola indifferente. E, in alcuni casi, troppo ambigua. Non solo le immagini di Dio ricevute dalla tradizione sono contestate e appaiono incapaci di interessare i giovani, ma questi pensano di poter vivere bene senza la ricerca di Dio. Sono dunque perse le “antenne della fede”, secondo l’espressione di Armando Matteo? Indubbiamente la ricerca dei giovani è innanzitutto ricerca di sé, ricerca di diventare se stessi, cammino di umanizzazione per vivere una vita sensata e avere un’esistenza “salvata”.

Come rispondere a questa ricerca che forse è l’unica che oggi accomuna i giovani dell’occidente? La tentazione — diffusa, mi rincresce dirlo, anche all’interno della Chiesa — è quella di rispondere con un “teismo etico terapeutico”, cioè con un’affermazione nebulosa di Dio dalla quale discende la possibilità di una vita eticamente buona che porta allo star bene con sé stessi. Questa, purtroppo, è la spiritualità dominante anche nella Chiesa. E gli occhi accecati non riescono a discernere che così avviene lo svuotamento della fede cristiana. Oggi si cerca di parlare di Dio ai giovani e, per essere efficaci, si ricorre all’immagine di un Dio “energia primordiale” che è a nostra disposizione per una vita segnata da benessere interiore e psichico.

Occorre, allora, essere vigilanti e consapevoli che per i giovani la parola “Dio” sia diventata ormai estranea e non sostituibile con un “sacro” o un “divino” forgiato da noi e dalle nostre angosce. Sono convinto che questa estraneità del termine Dio sia, in realtà, una chiamata a essere veramente cristiani, nella pratica di andare a Dio solo attraverso Gesù Cristo: «Nessuno può andare al Padre, Dio, se non attraverso di me!» (cf Gv 14,6). Urge allora “far vedere” Gesù Cristo ai giovani: così sarà apertala strada per andare al Padre, a Dio. Oggi o si fa vedere Gesù con azioni, comportamenti, stile, parole oppure si è condannati a rendere la speranza del Vangelo estranea alle nuove generazioni.

I giovani sono sempre sensibili a Gesù Cristo, sono intrigati dalla sua umanità, sono toccati dall’ascolto attento del Vangelo. Questa è la via da percorrere senza paura: Gesù Cristo è colui che con il Vangelo dà pienezza alla vita umana, è colui che dà la possibilità a un giovane di sentirsi gratificato di esistere come esiste. Gesù Cristo è colui che mette vita nella vita perché è lui il Vangelo, la buona notizia che dà senso alla vita! Gesù Cristo è la “via” per andare a Dio: in questo cammino è dato di riconoscere anche il suo corpo che è la Chiesa.

L’auspicio e la preghiera è che al Sinodo si abbia la parresia di mettere al centro del confronto sui giovani Gesù Cristo, colui che ci ha insegnato a vivere in questo mondo (cf Tt 2,12) come esseri umani degni di tale nome. E ci ha donato con la sua resurrezione la speranza dell’amore che vince la morte.

(“Vita Pastorale” – ottobre 2018)