Speranza, fede e carità: le virtù teologali al centro della Proposta pastorale MGS per il triennio 2024/2027

Speranza, fede e carità: le virtù teologali, in questo ordine, sono il cuore della Proposta pastorale per il triennio 2024/2027 del Movimento Giovanile Salesiano. Dopo il triennio che si sta per concludere, il MGS vuole rimanere accanto ai giovani, continuando a crescere insieme come Italia Salesiana. Nel percorso che ha portato alla stesura del presente documento è stato fondamentale condividere il discernimento con Salesiani, Figlie di Maria Ausiliatrice, Salesiani Cooperatori, Associazioni promosse e co-promosse dei centri nazionali, in particolare CGS e TGS.

Il percorso generale del triennio è organizzato in base alle tre virtù teologali: speranza, fede e carità. Tre documenti saranno importanti da tenere sullo sfondo: Spe salvi di Benedetto XVI, Lumen fidei di Francesco, Deus caritas est di Benedetto XVI. Accanto a questo sfondo magisteriale saranno poi ripresi ogni anno un’icona biblica ed eventuali spunti a livello ecclesiale.

Vi sono poi cinque attenzioni specifiche, che risuoneranno in tutto il triennio, e che saranno sviscerate nei tre  quaderni di lavoro, in base alla virtù dell’anno corrispondente. Dunque, riprenderemo ogni anno gli stessi cinque bisogni, ma con registri diversi:

1. Prima evangelizzazione;
2. Attenzione agli ultimi;
3. Accompagnamento personale, di gruppo e di ambiente;
4. Corresponsabilità nel lavoro educativo-pastorale;
5. Unificazione della vita.

Partendo dalla tematica centrale del Giubileo del 2025 “Pellegrini di speranza”, la virtù scelta per accompagnare il primo anno è la speranza. I temi e i contenuti della prima proposta pastorale sono:
– L’invito a prepararsi e a vivere nel migliore dei modi il Giubileo della speranza del 2025, mantenendone lo stesso testo biblico di riferimento, Lc 4, 16-20;
– L’introduzione allo spirito missionario che caratterizza fin dalle sue origini l’esperienza apostolica di don Bosco.
Da qui nasce il titolo della proposta: Attesi dal Suo Amore.

La Proposta Pastorale 2024/25 è composta complessivamente da quattro elementi, tra loro interconnessi:
Quaderno di Lavoro: esso è da intendere non come sussidio pratico di pronto utilizzo, ma come strumento di ispirazione ecclesiale, biblica e carismatica sui temi scelti;
Materiali QRcode: sarà previsto uno spazio che sia una sorta di archivio di materiale che via via verrà messo a disposizione come strumento utile alla progettazione e alla costruzione di percorsi ispettoriali, territoriali e locali. Si
tratterà prevalentemente di rimandi a pagine di approfondimento dal sito della rivista Note di pastorale giovanile:
1. Testi significativi di documenti magisteriali o salesiani;
2. Bibliografia tematica per l’approfondimento;
Numero speciale NPG: questo vuole essere da una parte approfondimento di alcune tematiche dell’anno pastorale, e dall’altra una proposta di concretizzazione del metodo di lavoro per le realtà locali, scandito dai tre momenti già sperimentati del riconoscere, interpretare, scegliere. Così, se il Quaderno di Lavoro offre le ispirazioni, il numero speciale di NPG potrà offrire una metodologia;
Sussidio formativo per le comunità SDB/FMA: questo è lo strumento che riprende la proposta pastorale per il cammino spirituale delle comunità salesiane e di alcuni gruppi della Famiglia Salesiana.

Playlist di vita

Dalla rubrica di NPG Voci dal mondo interiore  – a cura dei giovani MGS-Italia.

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di Ludovica Plantamura (23 anni, animatrice dell’oratorio di Santeramo – Ispettoria Salesiana Meridionale – .  Ha conseguito da poco una laurea in lettere. Le piace leggere, strimpellare la chitarra e fare lunghe passeggiate)

L’oratorio – lo sa bene chi lo frequenta – non è solo un luogo per passare il tempo vuoto (o libero) e stare qualche ora con amici e a chiacchierare, ma è uno stile, un modo di essere e di pensarsi.
Essere animatori in questo ambiente poi radica e consolida questo stile.
È come sentire dentro una melodia, fatta da sensazioni, da emozioni, da valori, da scelte, di un percorso che segna anche una svolta. Essa ha certamente segnato la mia adolescenza e tutt’ora segna, spero con un upgrade, la mia giovinezza.
Questa “melodia” penso possa essere anche espressa e narrata con delle canzoni, canzoni del cuore (quelle che a volte uno canticchia senza sapere perché), che hanno scandito alcune tappe importanti, che hanno fatto risuonare alcune domande, che hanno accompagnato nei giorni tristi e hanno entusiasmato le esperienze più belle. Se la mia vita interiore fosse una playlist, suonerebbe più o meno così (ammetto di aver dovuto fare un’ardua selezione, ma solo per non tediare il lettore).

I bet my life – Imagine Dragons
Nel 2015 comincia tutto. Prima frequentavo l’oratorio, ma niente di serio. Da quell’anno in poi le cose cambiano. Al mio primo camposcuola, così di botto, viene fatta al mio gruppo la proposta del cammino di pre-animazione. Ricordo che dovevamo fare un gesto in cui gli animatori ci diedero delle fishes da poker, non per ludopatia, ma perché eravamo chiamati a scegliere se e quanto avremmo voluto scommettere su quella proposta. Ne conservai una per me, perché non sapevo ancora se fossi disposta a giocarmi il tutto per tutto. Non frequentavo l’oratorio da molto e non ero presente assiduamente come gli altri, non mi era facile stare con tante persone, parlare in pubblico, fare il primo passo, ma sapevo che volevo fare qualcosa per gli altri e quella proposta concretizzò l’idea. Da quel momento sono entrata nel giro e sono ancora qui.

Un bene dell’anima – Jovanotti
Che cos’è un amico? Nessuno lo sa dire, centomila libri non lo sanno spiegare.
Il mio cammino di animazione e di vita non sarebbe stato e non sarebbe lo stesso senza degli amici veri. Sono quelli con cui condividi esperienze forti e del quotidiano, con cui puoi essere vulnerabile, con cui puoi essere davvero chi sei. Sono quelli con cui potersi dire “ma non ardeva forse in noi il nostro cuore?”. Sono gli stessi con cui chiacchieri davanti ad una birra, ridi fino alle lacrime e sosti in silenzio in un momento di adorazione. Sono quelli che ti abbracciano forte senza soffocarti e con cui sai di poter smerciare ferite e sogni. Senza amici veri rischierei di vivere distante dalla realtà, isolata da tutto il resto oppure dispersa in un mondo iperconnesso, ma senza legami.

Fango – Jovanotti
L’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente… vivere senza accorgermi di ciò che mi sta intorno, andare a dormire senza sapere perché ho vissuto o accontentarmi di “tirare avanti”. Ho sempre avuto paura di non vivere pienamente, che non significa fare 1000 +1 esperienze, ma diventare davvero chi sono e donarmi per come sono, lasciarmi amare e amare in maniera libera e autentica. Un salesiano di fiducia una volta mi ha detto che non dobbiamo chiederci perché viviamo, ma per chi. Forse è davvero così, “sentiamo” la vita, ci accorgiamo di viverla a pieno solo quando la doniamo, non quando siamo paralizzati nel fare i conti su cosa potremmo andare a perdere, su quali aspettative potremmo deludere o quali equilibri sconvolgere.

Paura di niente – Jovanotti
Ho sentito il tuo respiro dentro al mio e sono stato felice e non avevo paura di niente.
Come si vede, ho un po’ una fissa per Jovanotti, comunque la paura declinata sotto vari aspetti è una costante della mia vita, dalla paura di sbagliare alla paura del giudizio altrui, dalla paura di ferire alla paura di scegliere. Il rischio di essere tutto sommato una “brava persona” ti mette addosso una specie di armatura, per cui ai propri occhi o agli occhi degli altri consapevolmente o no ci si sente quasi in dovere di rispondere a delle aspettative: la ragazza studiosa, l’animatrice disponibile, la figlia rispettosa… i rischi sono o tirarsela e credersi a posto solo perché ci si affanna per accontentare tutti oppure, al contrario, sminuirsi sempre per non esporsi troppo, per non dare fastidio a nessuno e rimanere nel proprio angolino sicuro. Ad oggi posso dire che in entrambi i casi non si è felici. Dal peso delle aspettative, da un’armatura troppo larga o troppo stretta mi libera una relazione autentica con il Signore, che non è data una volta per sempre, ma che giorno per giorno si costruisce o ricostruisce. Lì intravedo uno sguardo diverso su di me e sugli altri, uno sguardo vero, “respiro e sangue” che silenziano le paure e amplificano il desiderio di essere felice.

Resistenza – Fulminacci
Ma tu dove sei? Non so neanche cosa cercare.
Quando si fa esperienza che il Signore esiste davvero, quando si sperimenta che non è un perfetto sconosciuto o uno dei tanti meccanismi dell’universo, non è facilissimo rimanere nell’assenza, quando non si “sente” più niente oppure quando succede qualcosa che non ci si sa spiegare. Spesso ho pregato con le parole di Fulminacci, ho vissuto periodi di aridità, di silenzio e di dubbio in cui faccio fatica a stare. Quando succede provo a rimanere, cercando di non forzare nulla.

Assurdo – Anastasio
Che senso ha il dolore? Perché esiste? Perché Dio non fa niente? Davanti al dolore non ci sono grandi discorsi da fare, è assurdo, impossibile da comprendere. Il dolore è assurdo perché esiste. Nella mia vita ho ricevuto tanto bene, ma anch’io nel mio piccolo ho fatto i conti con il dolore che non sai spiegare, che permane e logora e ho visto soffrire altri senza poter fare nulla. Il dolore è sempre visto come qualcosa da anestetizzare o da assolutizzare. Nella canzone di Anastasio mi colpiva il fatto che alla fuga dal dolore della prima parte corrisponde l’inseguimento dell’amore, quando ci si accorge che si è ancora vivi, che si ha ancora un cuore che pulsa. Forse non capirò mai fino in fondo la logica della croce, ma lì vedo il punto di congiunzione, il culmine del dolore e dell’amore assurdo, che va al di là delle nostre forze, meriti e peccati. Gesù non è scappato dal dolore, è rimasto e l’ha attraversato in pieno e superato, non per masochismo, né per esibizionismo, ma unicamente per amore, per quanto assurdo possa sembrare.

Charlie Brown – Coldplay
In oratorio a Santeramo e non solo ho avuto la possibilità di conoscere diversi ragazzi e ragazze in questi anni, qualcuno per più tempo, qualcun altro per qualche mese o pomeriggio, ma sono incontri che – traducendo i Coldplay – hanno acceso una scintilla, una fiamma nel mio cuore. Credo che siano davvero ciò che conta nel mondo, i fiori che possono spaccare il cemento e la luce che può illuminare il buio. Se ho fatto qualcosa di buono per loro in questi anni è stato anche perché ho visto figure più grandi fare questo: c’è stato qualcuno che ha trovato in me un punto accessibile al bene e ci ha creduto, qualcuno a cui sapevo di potermi rivolgere e di cui mi sono fidata. Il bene ricevuto ha generato bene donato.

Non ancora – Eugenio in via di Gioia
Nell’animazione all’inizio credevo che tutto dipendesse da me, che i miei soli sforzi bastassero a fare del bene, che spettasse a me vedere il risultato, l’effetto immediato di ogni mio gesto, ma non funziona così. Noi seminiamo e basta, e non cogliamo più o meglio, non ancora. In questi anni sto imparando che l’animatore è chiamato a seminare sempre e a prescindere. Anche quando sembra che non ne valga la pena, quando nessun altro scommetterebbe più nulla. Può essere sicuramente faticoso, ma penso sia una delle peculiarità più belle del servizio che possiamo offrire: non negare a nessuno la possibilità di dare frutto, ciascuno secondo il proprio tempo, anche quando non dovessimo esserci noi a vederlo. E poi che più di idee stratosferiche o discorsi ad effetto conta esserci nelle piccole cose, nelle situazioni di ogni giorno.

La fortuna che abbiamo – Bersani
Canzone che mi ricorda l’ultimo camposcuola a Torino e l’invito di don Bosco: “io abbozzo, voi stenderete i colori”. Chi ha la fortuna come l’ho avuta io e tantissimi altri giovani di far parte di questo stesso disegno può metterci il suo, ciascuno con il proprio colore, con la propria vita e non può tenersi questa cosa per sé. Qualche tempo fa – neanche troppo in realtà – non avrei mai accettato di scrivere pubblicamente queste righe, ma questa e tante altre possono essere occasioni per dipingere con un colore più intenso questo disegno che non vedo per intero, ma che si rivela pennellata dopo pennellata e di cui sono felice di far parte.

 

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Never too far away

Dalla rubrica “Voci dal mondo interiore” di Note di Pastorale Giovanile,  a cura del MGS Italia.

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di Giacomo Mazzoli (25 anni, giovane del MGS Lombardia Emilia, secondo di quattro fratelli, cresciuto all’oratorio di Bologna. Ama lo sport, in particolare la pallavolo, suonare il pianoforte e scalare in montagna)

A undici anni, in compagnia di papà e zio, grandi appassionati di montagna, scalai il mio primo ghiacciaio. Successe in un weekend di inizio settembre, in una valle poco frequentata della Valle d’Aosta, su di una cima, l’Entrelor (3430 m), vetta tra le più impervie del Gran Paradiso, senza un rifugio dove prendere lo slancio per la scalata. Sembrava che non solo la montagna, ma tutta la valle ponesse una sfida a chiunque le si avvicinasse: “Sei proprio sicuro?”. Perché, lo sanno tutti i montanari, non si tratta solo di una fatica nelle gambe, per camminare o arrampicarsi, ma di uno sforzo in tutto il corpo, trasportando, nel proprio zaino, una tenda, i viveri per due giorni, oltre a picozza, ramponi e quanto è necessario per la salita. Ad oggi riconosco senza dubbi che fu una delle fatiche più grandi di tutta la mia vita, una di quelle che restano impresse: un vero e proprio “battesimo” della montagna, un’impresa che lascia il segno. Sarà anche per questo che l’immagine che mi viene in mente quando penso alla fede e al suo cammino (composto da un vero rapporto con Dio, fatto di amore, amicizia, ma anche di dubbio e di buio) è proprio quella di una montagna. Esagerando un po’, direi che la fede è una cosa da veri scalatori. Anzi, per continuare la similitudine, la salita verso un monte è tanto più significativa quando si percorrono valli poco conosciute, senza comfort e rifugi, magari molto faticose: sono tutti ingredienti che permettono all’esperienza di cambiarci e di parlare al cuore.
Per me è stato così in montagna, per me è così nell’esperienza di fede.
Di essa ho fatto un’esperienza travolgente, al punto da sentire il cuore toccato e guarito. Nella mia adolescenza, in oratorio e a scuola, sono stato fortunato perché ho potuto vivere amicizie vere, e questo mi ha tirato fuori dal rischio di chiudermi in me, da risolvere da solo le cose, di non condividere pensieri e scoperte importanti. Penso davvero che un cristiano senza amici rischia seriamente di perdersi, perché negli amici Gesù si rivela nei modi più diversi, e l’amicizia condivisa è sempre un amore donato da una fonte più grande. Certo, sono stato anche ferito e “tradito”, specie quando ero più piccolo, e non nascondo che da più grande ho purtroppo anche ferito.
Fin da piccolo ho frequentato numerosi gruppi in parrocchia e ricordo con grande piacere quello dei ministranti. Ci si trovava il sabato pomeriggio a fare grandi partite di calcio, pizzate, spendendo tempo insieme; e poi la serietà della preparazione e la gioia di una messa domenicale dove avvertivo quella presenza dell’amico Gesù già sperimentata nel quotidiano della settimana precedente con gli amici. Ecco, nella mia adolescenza mi sono sentito davvero amato. Anche dagli educatori, che erano amici un po’ più grandi, che mi vedevano per quello che ero e che mi allargavano gli orizzonti.
Ho frequentato per sei anni anche il gruppo scout, ma non è stata per me una grande esperienza. In questo contesto ho fatto la scoperta delle mie debolezze e fragilità, di cui ancora oggi ringrazio perché le esperienze difficili permettono a ciascuno di noi di maturare, di chiedere aiuto e di abbattere le difese di cui ci circondiamo continuamente.
Ho già accennato alla fede come di un punto fermo per me: in essa sento di aver incontrato Uno che mi ha fatto sentire amato non per quello che sarei diventato, ma proprio per quello che sono adesso, il me stesso con pregi e difetti. Ecco, cambiare o essere. Quante volte l’accento nella fede è posto sul cambiamento. Cosa certamente necessaria, anche perché cambio, “divento” ogni giorno. Ma alla base c’è una accettazione incondizionata, grazie alla quale si spengono le domande “Vado bene così?” “È la strada giusta?”. Il fatto che la vita cambi è un frutto (importantissimo) di questa esperienza, non la condizione sine qua non. Un po’ come accade in montagna: se scali il Gran Paradiso e ammiri il panorama vivendo la fatica, superando le crisi e condividendo il tutto con i compagni, ritorni a casa cambiato, diverso, sicuro che la vita ha orizzonti molto più alti di quelli che pensavi.
Questa è stata per me l’esperienza interiore più decisiva, ed è avvenuta grazie a una persona adulta con cui ho riletto la mia vita e scoperto questa sconvolgente ma limpidissima verità: Dio mi ama comunque, e ama te comunque. Questo e nient’altro che questo. E così per tutti i miei giorni, all’oratorio, a scuola, in università ho sentito come una grande spinta interiore a testimoniare ciò, anzitutto vivendo personalmente questa nuova consapevolezza.
Pensate, proprio a Bologna, in una realtà universitaria ostile al messaggio evangelico in tutte le salse, è possibile e ve lo posso garantire. Questa assoluta certezza mi ha anche aiutato parecchio, da studente, negli studi, negli esami da preparare e nei pomeriggi passati a risolvere esercizi ad Ingegneria Energetica: è come una luce interiore che illumina anche i lunghi pomeriggi di studio, volti a preparare gli esami. Sento che anche la passione per lo studio forse viene proprio da qua, da questa consapevolezza che Dio mi ama. Ed è inevitabile tradurre ciò in una mano tesa verso i miei compagni, condividendo con loro anche momenti di studio durissimi. Quello che vorrei esprimere è appunto una fede che prende corpo e vita nel mio ambiente, fatto di lavoro e buone relazioni amicali.
Cosa farò in futuro? Quale forma prenderà questa mia consapevolezza? Non lo so ancora, diciamo che “sono in dialogo con Dio”: è un gioco di pazienza e ascolto tra me e Lui. Ma tutto parte da là, dal sentirsi amati e pensati da sempre. Certo, tra le esperienze affascinanti vissute c’è l’oratorio, un luogo in cui spendersi e dove è possibile comunicare agli altri quest’Amore. Non un luogo dove si è strumentalizzati, ma dove si accoglie, anche chi è “lontano”. Questa esperienza “mi ha salvato”, mi ha fatto incontrare lo spirito di servizio, di amicizia, tutte cose poco comuni nelle relazioni ordinarie e nella società.
Certamente non sono riuscito ad esprimere in toto quanto sento e vivo, ma suggerisco, a chi fosse interessato, di leggere quella specie di “mappa” esistenziale che è il libro “Sentirsi amati” di Henry Nouwen. Oppure di ascoltare la canzone “Never too far away” dei Newsboys.

From your best moments to your darkest hours
You’re held inside the hands of supernatural power
Don’t you ever forget, you are a child of God

Un saluto a chi mi leggerà, e l’augurio di vivere ciò che la montagna insegna a tutti gli alpinisti: il silenzio, l’incontro con se stessi, il sublime.

Voci dal mondo interiore – Una rubrica a cura dei giovani MGS Italia

Dalla rubrica di Note di Pastorale Giovanile “Voci dal mondo interiore”.

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Imparando da S. Artemide Zatti  Cristina Schullern (21 anni, infermiera; fa parte della consulta giovani dell’Ispettoria salesiana ILE, ed è educatrice degli adolescenti nell’oratorio ad Arese)

Ho a che fare con persone malate che stanno nel reparto di cardiologia dell’ospedale. In questo lavoro porto tutta me stessa, con le mie caratteristiche, le mie sensibilità, i miei pregi e difetti, che danno quella nota di unicità a me come persona e al mio operato. Certo, mi piace pensare (e desidero) che in questo lavoro la persona che sono riesca a portare un piccolo sollievo ai malati. Per fare questo spesso mi chiedo chi sono io nel mio lavoro e come vorrei essere.
Certo, sono infermiera, e fa parte del mio dovere (la mia deontologia, la chiamano, io lo chiamo più senso del dovere) in ospedale, occuparmi di loro, impegnarmi per dare e riconoscere loro il massimo della dignità, del rispetto e del sollievo. Sono lì per ascoltare e soddisfare i loro bisogni, per conoscere le loro storie, i loro timori e per accompagnarli nella loro malattia, nella sofferenza e nel momento della morte. Questo lo sento anche congeniale al mio carattere, quel senso di attenzione e cura, quello sguardo di rispetto e di amore per l’essere umano soprattutto nella sua fragilità e nel suo bisogno. Ma riconosco anzitutto che per vivere questi atteggiamenti al meglio mi ispiro molto alla figura di Sant’Artemide Zatti, un salesiano “coadiutore” (laico) argentino, di origine italiana, che è stato canonizzato qualche anno fa; e mi è sembrato una cosa provvidenziale, perché era proprio nei tempi in cui studiavo per diventare infermiera e avere un modello di “infermiere” cui ispirarmi mi ha fatto capire che è possibile trovare anche in questa via la possibilità di “santità”: di realizzazione personale e di aiuto agli altri. Per cui mi ritrovo molto nella definizione di un testimone, il quale lo descrisse come il “buon Samaritano” che tende la mano, solleva e cura.
Anche sul “come” farlo prendo spunto da lui. In un libro che ho letto su di lui, scritto da d. Pierluigi Cameroni, quello che ne ha seguito la “causa” di santità, si dice che trattava tutti con “criterio di bontà e disponibilità” e i testimoni affermano che non lo si vide mai triste proprio perché le sue caratteristiche erano la gioia e il sorriso.
Mi è sembrata la strada tracciata anche per me, che rispecchia chi sono e chi vorrei tanto essere. Mi piacerebbe portare serenità, gioia, speranza e conforto ai pazienti che incontro. Vorrei strappare loro un sorriso, farli sentire guardati e meno soli attraverso anche solo il mio modo di trattarli, di considerarli. Parlo con loro e li ascolto, anche al di là delle cose legate a cure e medicine, perché desidero conoscerli meglio perché si sentano persone, non malati o pazienti, classificati in base alla patologia per cui sono stati ricoverati, e chiedano-pretendano di essere conosciuti e considerati come persone uniche e irrepetibili, come essi sono. Mi piacerebbe avere il tempo per STARE e basta. Capisco però che nella realtà quotidiana tutto questo è molto difficile da realizzare: siamo sempre di fretta, il tempo per semplicemente “stare” svanisce e molte volte il sorriso si spegne perché la fatica è tanta. Capita anche che il carattere dei singoli pazienti sia difficile da sopportare. Allora mi ricordo di quanto era solito dire il “mio santo”: “A volte ti può capitare uno con una faccia simpatica, altre volte uno antipatico, però davanti a Dio siamo tutti uguali”. Anche questa è una sfida, e me la pongo sovente. Nella vita quotidiana, fuori dal contesto lavorativo, quando una persona non mi va a genio tendo ad evitare ogni contatto con essa e ad andare per la mia strada. Quello che posso nel mio quotidiano ovviamente non posso farlo in ospedale. Allora devo essere in grado di andare “oltre” la simpatia/antipatia, e di guardarla con occhi nuovi che vadano oltre le mie sensazioni, mettendo l’altra persona, con la quale faccio fatica, prima di me.
Se questo è comunque un aspetto del Vangelo che mi ricorda l’atteggiamento di Gesù verso tutti (siamo tutti figli di uno stesso Padre), e dunque riguarda la mia vita cristiana, c’è un altro aspetto in cui sento molto il senso del mistero di Dio: all’interno del mistero della morte. Nell’assistenza che presto mi impegno a fare il possibile per dare sollievo e rispettare la dignità delle persone, nonché fargli pregustare quasi un assaggio di Cielo. Quando poi giunge la morte, in un momento in cui sono sola con la persona, sento che ho la possibilità e la grazia di affidarla a Dio, con un “l’eterno riposo” e a farle un segno di croce sulla fronte: mi sembra quasi che così la “preparo” per l’abbraccio eterno del Padre.
Sento che la sfida quotidiana è quella di trasformare il lavoro in relazione, di lasciar trasparire in esso le qualità del rapporto umano rispettoso e attento; insomma di non spaccare in due la mia vita, come se il quotidiano fosse un’altra cosa dal lavorativo, come se fossi due persone, la Cristina della vita e l’infermiera della professione. In questo trovo assolutamente prezioso e valida la testimonianza personale del “mio” santo e le sue frasi, semplici ma ricche di umana saggezza e di fede. Sicuramente anche per lui non sarà sempre stato facile, quasi dimenticare se stesso per farsi tutto ai suoi malati, ma di certo ha mostrato che è possibile vivere e lavorare così. Questo nei momenti di difficoltà mi rincuora molto, soprattutto in quei giorni in cui mi chiedo: “chi me l’ha fatto fare?”.
So che con le mie sole forze non ce la potrei fare: impazienza, stanchezza, amarezze… e poi lo straziante incontro con la sofferenza di bambini. Ho bisogno di un costante aiuto dal cielo. E così (ma qui vorrei essere davvero discreta) mattina e sera, mentre vado al lavoro in macchina, dico le mie preghiere, e mi sembra quasi di parlare anche a quel volto bonario e simpatico di S. Artemide. Gli chiedo di essere aiutata nel mio lavoro. Gli chiedo che i miei pensieri, le mie mani, i miei occhi, i gesti che compirò siano strumenti per trasmettere pace, speranza e un “pezzettino di cielo” ai malati con cui entrerò in relazione in quella giornata. Devo dire che questo mi aiuta molto, e faccio le cose con minor precipitazione o timore, e a volte mi sembra di avere come una illuminazione su come agire o come gestire una determinata situazione.
Ricordo una volta in particolare in cui mi stavo prendendo cura di una signora che, pur capendo quello che io le comunicavo, tuttavia non riusciva a parlare. Sentivo che aveva bisogno di qualcosa, ma non capivo di cosa nello specifico. Allora ho chiesto aiuto allo Spirito (Lui conosce tutte le lingue!), e poco dopo sono riuscita a capire che voleva essere girata su un fianco e che aveva bisogno di bere dell’acqua. Certo, nulla di eclatante e fuori dal comune, ma questo banale episodio mi ha fatto comprendere, ancora una volta, quanto noi siamo costantemente ascoltati da Dio e quanto lui sia presente e oserei dire “sul pezzo” nel nostro quotidiano.
Ecco, questo è un pezzettino del mio “mondo interiore”, e lo tengo “dentro” di me, al momento non lo condivido con nessuno dei miei colleghi o dei miei pazienti. Fa parte della mia fede e del mio rapporto con Dio, che è personale e intimo. Non so se dovrei anche testimoniarlo, parlarne, condividerlo. Forse questo sarebbe un ulteriore passo in avanti nella mia vita, forse proprio questo vorrebbe dire “essere missionari”. Ma al momento non mi sento ancora del tutto libera (o capace) di testimoniare apertamente la mia fede. Ecco perché custodisco tutto questo nel segreto: solo io e Dio lo sappiamo e questo mi basta, anche perché è quello che conta. Su queste cose “intime” penso che sia possibile aprirsi solo quando si può essere veramente “compresi” dall’altro. Immagino che sarà possibile nel futuro, per intanto ho ancora poca esperienza e comunque devo consolidare questi miei pensieri e sentimenti. Per questo al momento preferisco mantenere un profilo neutro all’esterno, ma dentro sento di assimilare i sentimenti di Gesù e di abilitarmi al suo sguardo, uno sguardo misericordioso e buono con tutti, per far sentire soprattutto ai deboli e ai fragili che il Padre sta con loro, è dalla loro parte… e poi cerco di agire di conseguenza, superando difficoltà e fatiche.

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Io, capitano. Il film… e il lavoro con gli studenti

Dalla rubrica “Sguardi in sala. Tra cinema e teatro” a cura del CGS.

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di (Fabio Sandroni (Docente, formatore e presidente CGS Regione Marche; co-direttore dell’Ufficio diocesano per la cultura della Arcidiocesi di Ancona – Osimo.)

Quando abbiamo pensato alla proposta di raccontare alcuni itinerari progettuali di animazione culturale a partire dal Cinema in un periodico di pastorale giovanile ed educazione, avevamo ben presente un presupposto irrinunciabile: non esistono film in sé “educativi”, ma qualunque buon film può divenire educativo solo attraverso un lavoro di “ermeneutica laboratoriale”, come possiamo definirla dopo molte esperienze, cioè di graduale scoperta della sua ricchezza di linguaggi, senza forzarne in alcun modo i significati, con strategie operative che arrivino alle competenze teoriche attraverso la prassi del lavoro condiviso. Un film, infatti, è sempre un’operazione di linguaggio ed è proprio questo tipo di approccio laboratoriale a farne un’occasione di crescita sia interpretativa che spirituale, affinando soprattutto nei più giovani la capacità di cogliere quell’ “oltre” sotteso ad ogni vera opera d’arte.
Molto finora si è scritto su IO, CAPITANO di Matteo Garrone, per cui non proporremo l’ennesima recensione di un prodotto italiano premiato a Venezia a settembre 2023 con il Leone d’Argento per la miglior regia, il premio Mastroianni per il migliore attore esordiente al giovane Seydou Sarr e anche con diversi premi collaterali tra cui la Lanterna Magica della giuria CGS, fino ad essere in corsa per l’Oscar al miglior film straniero. Cercheremo invece di ripercorrere il lavoro svolto con questo film dal CGS Dorico con 600 ragazzi delle scuole superiori di Ancona e di proporre un percorso formativo.
Prima della proiezione ai ragazzi in sala è stato dato un triplice mandato:
● confrontare l’incipit del film con la sua conclusione, anche in termini di messa in scena;
● provare a trovare elementi o situazioni narrative ricorrenti;
● tentare di definire il genere narrativo/i generi narrativi scelti dal regista.
Sulla scorta di queste indicazioni il dibattito al termine della proiezione è divenuto opportunità per andare al di là di una più immediata fruizione emotiva e valorizzare la profondità dello sguardo dei ragazzi in sala, grazie ad un lavoro di scoperta guidata, con la figura dell’animatore culturale che ha il compito di aiutare a collegare le diverse sollecitazioni, inizialmente frammentarie, in itinerari di senso.
Al momento di tirare le conclusioni, tuttavia, ogni percorso coerente non va mai considerato come unica interpretazione, ma come possibilità supportata da elementi oggettivi di linguaggio filmico.

GLI ITINERARI DI SENSO RICOSTRUITI DALLE RISONANZE DEI RAGAZZI E DALLA DISCUSSIONE GUIDATA

Il racconto (la cui prima inquadratura su una mappa geografica scolorita è analoga all’ultima, dopo l’assolvenza dal volto del protagonista) inizia con un risveglio, quello del sedicenne Seydou, mentre il sonoro lo circonda di voci di bambini. Lo spazio su cui si apre è quello del paese del Senegal ove Seydou vive con la madre, i fratelli e le sorelle: uno spazio gioioso in cui i piccoli personaggi si stanno mascherando per una festa tradizionale. Il mascheramento è un primo indizio della cifra stilistica scelta da Garrone: quella della fiaba, in cui la realtà traspare senza ingombrare lo spazio narrativo. In questa prima parte, di circa venti minuti, l’Africa è connotata con colori caldi e vivaci e non viene assolutamente rappresentata come luogo da cui fuggire. Infatti il protagonista Seydou e il cugino Moussa scelgono di partire non per necessità, ma per seguire un sogno, e in questo hanno in comune molto di più con qualsiasi giovane del mondo che con i figli di una marginalità con cui spesso i ragazzi africani vengono rappresentati.
Un altro elemento caratterizzante della presentazione dei personaggi è il loro ricorrere a piccole bugie per nascondere le proprie intenzioni agli adulti e anche per raccontare a se stessi una versione “tranquillizzante” del viaggio: esorcizzano le minacce dell’uomo che cerca di dissuaderli rivelandogli che il cammino per raggiungere l’Europa è un cammino di morte, ad esempio, dicendo che “è fuori di testa!”. Il loro infantile credere ad una illusione, il mentire alla madre, i soldi seppelliti per pagarsi il viaggio, che richiamano il precedente film di Garrone (“Pinocchio”, con la vicenda dell’albero degli zecchini), rinforzano il riferimento al genere fiabesco, anche se la narrazione, nella parte iniziale del film, resta ancorata ad una verosimiglianza abbastanza realistica.
Ma dal momento dell’incontro con lo stregone del villaggio, la storia compie una prima virata verso la dimensione magico/onirica, che si svilupperà attraverso molteplici avvenimenti: dalla scena poetica della donna volante nel deserto, al sogno del ritorno a casa dalla prigione con lo spirito Malika per vedere, non visto, la propria madre, fino ad intrecciarsi sul piano narrativo con il provvidenziale incontro del carpentiere Martin, unica vera figura paterna, e all’improbabile, suggestiva edificazione di una fontana nel deserto, con in premio la libertà, un dono degno del Mangiafuoco di Collodi… La cifra della favola rende accettabile anche una serie di altri avvenimenti: dal ritrovamento a Tripoli di Moussa, all’insperato aiuto di Samir il barbiere per curarlo, fino alla possibilità di imbarcarsi senza soldi.
La vicenda si dipana come un racconto di viaggio, che è anche racconto di formazione (e qui si moltiplicano i riferimenti a Dante, Omero, Virgilio…) durante il quale non possono mancare le esperienze di morte, sfruttamento e tortura; Garrone, infatti, coerente con la sua scelta di genere, non affonda il coltello nel crudo realismo, ma non nasconde drammi ed orrori, collocandoli solo apparentemente sullo sfondo della narrazione. È suggestivo l’intrecciarsi di tradizioni favolistiche e mitologiche più “europee” con altre di origine prettamente africana, come lo spirito jinn Malika appartenente alla cultura marocchina, figura in genere benevola, di aiuto in situazioni difficili; o lo stregone/sciamano del villaggio, che prima della partenza invia i due ragazzi a chiedere ai morti l’autorizzazione a partire, per ottenere quasi un pronunciamento oracolare, un viatico che rappresenta il consenso “cosmico” all’impresa dei protagonisti. L’impresa del viaggio, così, non è più solo individuale, ma riceve la protezione spirituale della Terra d’origine, indispensabile per affrontare un percorso difficilissimo secondo le predizioni.
Superando le molteplici e dolorose prove Seydou cresce, proprio come in un rito di iniziazione, e, se all’inizio erano le illusioni di Moussa a spingere alla partenza, ora è la sua determinazione a permettere ad entrambi di proseguire il viaggio e a fare di lui una guida, un “capitano”, prima per sé, poi per il cugino, quindi per i tanti profughi sulla barca verso la Sicilia.
Il film si conclude in prossimità delle coste italiane, proprio dove iniziano i tristi drammi dei soccorsi e dell’accoglienza, tanto che, mentre assistiamo al rimpallo di responsabilità tra guardia costiera italiana e autorità di Malta, sarà Seydou a prendersi sulle spalle il destino dei suoi compagni di viaggio. La macchina da presa si muove con affanno tra i profughi che sovraffollano l’incerto natante guidato dal ragazzo: un parto in grande emergenza, la salvezza di alcuni uomini stipati sotto coperta, il rischio sventato di rovesciare la barca per il panico, tutto può avvenire grazie alla grande forza d’animo del sedicenne. L’invocazione “Allah Akbar!” degli immigrati sulla barca, che per gli occidentali è divenuto sinonimo di fanatismo, con un significativo ribaltamento semantico qui è preghiera e richiamo alla speranza, indice anche questo di un altro ribaltamento rispetto alla narrazione ricorrente: dal “viaggio come fuga e necessità” al “viaggio come diritto a Sognare”, un diritto che appare sempre più frequentemente negato ad una larga parte del nostro mondo, che tende a normalizzare in modo inquietante anche le più ingiuste disuguaglianze.
La salvezza è nell’ultimo orgoglioso grido di Seydou, quasi sommerso dal rumore degli elicotteri: “Io, Capitano” ripete più volte. Un urlo che, rivendicando la propria assunzione di responsabilità, denota la compiuta transizione all’età adulta.
Dalle voci dei bambini del risveglio dell’incipit fino al lungo primo piano del finale, la narrazione ha al centro la crescita di un giovane, che avviene solo quando si accettano le proprie responsabilità, cosa che l’Occidente “adulto”, il Vecchio Mondo, sembra non saper più fare.

LA SFIDA NECESSARIA

Organizzare la visione di un film in sala cinematografica in orario curricolare, vincendo le resistenze di chi pensa che siano “ore perse” di didattica “vera” (ossia frontale), ragionare sulla designazione dei docenti accompagnatori, scrivere la circolare con tutte le istruzioni e gli orari, con il consenso dei genitori, accertarsi che non ci siano barriere architettoniche, guidare la mattinata… Tutto questo è molto faticoso e basta averlo fatto una volta per capire di che stiamo parlando.
Però alla fine della giornata, dopo aver visto in 600 e in silenzio il film sul telo e con il buio in sala per cui l’autore l’ha pensato, rimangono le prove indelebili della necessità educativa intrinseca in queste “avventure”: la partecipazione dei ragazzi e dei colleghi, le domande profonde, la ricostruzione fatta insieme rivelatrice di significati “altri” rispetto a quelli percepiti in superficie e in visione solitaria.

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Una rivelazione e una benedizione

Dalla rubrica “Storie di volontari” di NPG, a cura di Salesiani per il Sociale.

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Eleonora Biancamano ( 19 anni, vive a Budrio, un paese in provincia di Bologna)

Vi racconto come ho iniziato un’esperienza che mi sta coinvolgendo e… cambiando.
Durante l’anno scolastico 2023/2024 ho deciso di accedere al Servizio Civile Universale presso la mia ex scuola superiore: la Beata Vergine di San Luca a Bologna, una scuola dichiaratamente ispirata a valori cristiani, che sono sempre stati nella mia vita punti di riferimento e di desiderio.
Ho frequentato in questo collegio salesiano le scuole superiori dalla seconda alla quinta, e posso dire che fin ora sono stati gli anni migliori della mia vita.
Ho amato da subito l’ambiente stimolante, le persone che all’interno della sede ti dedicano fin da subito il loro tempo, e mi piaceva passare i pomeriggi a scuola ad aiutare come animatrice o semplicemente stare a contatto con chi lavorava dentro queste mura.
Purtroppo però poi è arrivato il Covid e per un anno a scuola non ho messo piede, come la maggior parte degli studenti italiani; ma comunque ho sentito la vicinanza della scuola e per me questo è stato davvero importante.
A metà della quinta superiore sono venuti in classe mia dei rappresentanti di Servizio Civile a parlare di quest’esperienza e fin da subito sono rimasta colpita: mi sono informata, ho mandato la richiesta, fatto il colloquio e poi mi hanno confermato l’inizio di tale esperienza per settembre: ero felicissima, anzitutto perché sarei rimasta un altro anno in un ambiente conosciuto, anche se con altri compiti, e poi perché intuivo che sarebbe stata una esperienza importante per la mia comprensione di me e la mia crescita. Posso dire che ad oggi sono contentissima della scelta fatta.
Ad essere sincera, oltre ad essere una delle esperienze che volevo assolutamente fare, ho scelto Servizio Civile proprio quest’anno perché ero molto indecisa sul percorso universitario da intraprendere in futuro. Questa indecisione mi ha portato alla scelta di non iniziare l’Università subito finito il liceo, ma aspettare un anno e decidere bene quale il percorso di studi veramente giusto per me.
Avendo già l’anno prima lavorato, nella stagione estiva, come cameriera, preferivo dedicare il mio tempo ad altro, e Servizio Civile mi è apparso come una rivelazione (e benedizione) in quel momento.
A settembre ho quindi iniziato questo percorso nella sede di Bologna insieme ad un altro ragazzo: ho scelto il progetto “Scuola: in carreggiata con te” perché lo ritenevo molto più adatto e vicino alla mia persona: a me è sempre piaciuto studiare, quindi riuscire a lavorare in una scuola a contatto con i ragazzi durante le lezioni o lo studio pomeridiano mi sembrava il miglior modo per riuscire ad aiutare.
Mi sono fin da subito trovata bene, anche perché avendo frequentato qui la scuola superiore, ero sicuramente agevolata nel conoscere gli ambienti e il personale, e quindi non ho avuto problemi ad integrarmi e rimanere sul pezzo.
Mi hanno accolta bene fin da subito, sia i colleghi che i ragazzi, ma essendo comunque molto vicina alla fascia d’età delle superiori, mi hanno affiancata principalmente alla scuola media; anche se comunque non mancano esperienze con i ragazzi del biennio, come le giornate a Rimini di inizio anno scolastico dove sono andata una settimana come animatrice.
Devo dire che c’è della diversità tra le superiori e le medie: alle medie i prof e il personale scolastico tengono molto di più alla disciplina e all’educazione (diciamo, almeno la “buona educazione” e i valori connessi: l’impegno, la socialità, la collaborazione…), come propedeutica per portare poi i ragazzi alle scuole superiori già preparati e almeno con delle buone basi, e poi magari lì fare delle proposte più impegnative. In ogni caso i valori insegnati e praticati dell’integrazione, dell’aiuto, del sostegno e della collaborazione sono mantenuti sempre a un buon livello di stimolo e di pratica.
Ci sono state situazioni che avrei sicuramente potuto gestire meglio: mi è capitata una volta, all’inizio dell’anno, una litigata di due ragazzi e non sapendo bene come gestirla ho preferito parlarne con il prof più vicino. Tante altre invece sono state molto importanti per me perché ho capito che i ragazzi mi vedono come una figura di riferimento e si sentono sicuri a parlare con me.
Di questo percorso ho proprio voglia di parlarne con tutte le persone che sto pian piano conoscendo: alcuni visibili anche nella foto qui sotto, che si riferisce a un momento dei tanti incontri di formazione in presenza (per la cronaca, a Carisolo). Anche con loro si stanno creando legami solidi e con molti mi trovo davvero bene tanto da vederli anche fuori dall’ambiente “di lavoro”.
Per me Servizio Civile si sta dimostrando un percorso non solo di esperienza lavorativa, ma anche di crescita personale: posso dire che mi sta aiutando a capire cosa voglio e cosa non voglio per la mia vita; sono riuscita a scegliere il percorso universitario (psicologia) e sto creando legami bellissimi con persone che prima non conoscevo. Ho rafforzato sicuramente anche la mia fede, il mio rapporto con Dio e il posto che ha nella mia vita, agevolata e aiutata sicuramente anche dalle esperienze e dai momenti di confronto con i ragazzi dell’MGS.
Sono davvero contenta di come sta andando e sono sicura che i Salesiani saranno per sempre la mia seconda casa, anche quando un giorno vivrò in un altro ambiente e perseguendo scelte di vita personali e professionali. Forse sono stata decisamente fortunata… ma auguro a tutti di trovare un posto del genere nella propria vita.

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La Commissione Presinodale lavora all’“Instrumentum Laboris” del Sinodo Salesiano dei Giovani 2024

Dall’agenzia ANS.

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(ANS – Roma) – In occasione del 200° anniversario del Sogno dei Nove Anni di Don Bosco, il Settore per la Pastorale Giovanile promuove la celebrazione del Sinodo Salesiano dei Giovani 2024, dall’11 al 16 agosto, presso il Colle Don Bosco, a Castelnuovo Don Bosco.

Attualmente è stata superata la fase preparatoria di ascolto e dialogo in ogni Ispettoria e i contributi sono stati inviati alla commissione pre-sinodale per la redazione dello strumento di lavoro (Instrumentum Laboris). Questa commissione è composta da: don Joebeth Vivo, SDB, don Ama-Edi Didier Meba Somiebalo, SDB, dott.ssa Antonella Sinagoga, il sig. Manoel Messias da Silva, SDB, don Xabier Camino, SDB, don Patrick, SDB, e don Krzysztof Tomeczkowski, SDB. Don Francisco Cervantes e Suor Luz Aurora García Juárez sono responsabili della sintesi delle équipe ispettoriali di pastorale.

Allo stesso modo, è stato completato il processo di raccolta di oltre 200 sogni di giovani di tutto il mondo per un “Coffee Table Book” (libro illustrato). Tra gli altri sogni, i giovani ne hanno espressi alcuni: essere realmente ascoltati e compresi nel loro modo di vedere il mondo e di muoversi in esso; sperimentare un Dio vicino, realmente incarnato e vivo nelle situazioni umane; sentirsi accettati dalla Chiesa e dalle presenze salesiane così come sono, senza dover forzare i loro modi di essere a degli stereotipi; conoscere la propria vocazione, le vie per scoprirla e la propria fede in ciò che è essenziale; essere adulti di riferimento, appassionati, chiari, determinati con la propria vita e guide nel proprio processo; valorizzare il contesto in cui vivono con azioni concrete.

È stato creato un gruppo centrale o Commissione centrale per il Sinodo, composto da 14 giovani di tutto il mondo che stanno già lavorando all’organizzazione del Sinodo con l’équipe centrale del Settore per la Pastorale Giovanile. Essi sono: Santiago Roda Cano, Wendy Mikaela Ponce, María Belén Gisbert, João Pedro Maximiano, Faddyl Fabrice Yadolo, Danwell Phoues, Marta Radic, Pablo Osorio Delgado, Kasia Grabek, Kyle Portelli, Teaghan Dolan, Jennifer Lie, Leander Pereira e Noah Rodrigues. Il coro dei salesiani di Cagliari sarà presente per l’animazione musicale.

L’equipe, inoltre, ha selezionato l’Inno ufficiale del Sinodo: “In the shape of your dream” (autore: Emanuele Geraci, con i “DB Sons”). I musicisti della Congregazione sono stati invitati a comporre una canzone come Inno ufficiale. Oltre al vincitore, le seguenti persone hanno partecipato presentando inni ispirati al tema: Belarmino Sànchez, Fabio Diaz, Fernando Gutierrez, Gilberto Driussi, Jose Miguel Ramirez, Juan Javier Bernal Garcia e Sergio Petrarca. Questi sono i titoli presentati: “El sueño che hace soñar”, “Il tuo sogno”, “Dear John”, “Sueña”, “Celebramos tu sueño”, “un sogno da bambino” e “Tra le mani tue”

Sono in corso di elaborazione le questioni relative ai moduli di registrazione dei partecipanti, al modulo di richiesta dei visti, all’alloggio, al trasporto, ai servizi di traduzione, ai pasti e ai materiali.

Il 25 marzo 2024 è il termine ultimo per l’iscrizione di tutti i partecipanti.

Il problema degli altri è uguale al mio

Dal numero di marzo/aprile di Note di Pastorale Giovanile.

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di Michele Pitino

«Dimmi e dimenticherò, insegnami e forse ricorderò, coinvolgimi e imparerò» (Benjamin Franklin). È iniziato tutto così e forse per questo ha funzionato bene. Non era un tempo che prometteva bene: primavera 2020. Eravamo chiusi in casa per il lockdown, vivevamo nella paura di ciò che accadeva e si soffriva il peso della solitudine. Allo stesso tempo, si avvertiva il bisogno dell’incontro, la spinta ad un impegno di maggiore solidarietà, il sogno (o l’illusione?) di un possibile futuro più buono. “Saremo migliori”, dicevamo.
Tutto è iniziato con un invito. La proposta di incontrarci in videochiamata per qualche chiacchierata su ciò che stava accadendo e per discutere insieme le questioni sociali e politiche che si rivelavano urgenti in quel nuovo contesto. Non tutti si conoscevano già. Io ho solo preso l’iniziativa, ma poi tutto è andato avanti da solo con la forza dell’amicizia, radice e insieme frutto più bello di questo percorso condiviso. Definirlo “corso di formazione socio-politica” è forse troppo per come è iniziato. Più semplicemente, desideravo far incontrare tra loro alcuni giovani che avevo conosciuto negli anni: universitari, ricercatori o da poco avviati ad una prima esperienza di lavoro. Conoscevo la loro passione ed entusiasmo, i diversi campi di impegno e competenza e, soprattutto, la condivisione di valori intorno ai quali poterci ritrovare (la pace e la cura dell’ambiente, la giustizia sociale e la sostenibilità, la difesa della dignità della vita di ogni persona, specialmente se fragile ed esclusa, il sogno europeo…). Il gruppo, pur destinato ad allargarsi, nasceva volutamente ristretto (inizialmente otto) per mantenere un numero adatto al confronto e al dialogo. L’invito aveva la forma dell’impegno: non solo: “Vieni per ascoltare, perché hai qualcosa da imparare”, ma anche: “Vieni, perché hai qualcosa da dire, vogliamo ascoltare la tua passione, la tua competenza, i tuoi studi”. Un percorso di formazione che ha dato vita a una bellissima esperienza educativa.
Da quella primavera abbiamo iniziato ad incontrarci con ritmo settimanale. Due persone alla volta proponevano un tema, a seguire si dialogava e insieme si arrivava a delle buone sintesi. Nessun argomento era tabù, ciascuno proponeva varie tematiche legate alla politica e al bene comune, e così abbiamo parlato di diritto alla salute e di scuola, di educazione e di città più verdi e sostenibili, di urbanistica e di informazione, di divario di genere, di immigrazione e interculturalità… Ci hanno accompagnato, come utili tracce, l’agenda ONU 2030 e la Costituzione Italiana. Gli incontri sono proseguiti online per due mesi, poi finalmente è stato possibile incontrarsi di persona. Tra un incontro e l’altro l’amicizia cresceva e si allargava. Nell’estate 2020 abbiamo anche avviato la tradizione di organizzare campi formativi in montagna aperti a tutti.
Pur con l’allargarsi dei partecipanti e l’evolversi dell’esperienza, una cosa è sempre stata chiara: il focus del gruppo doveva essere la formazione alla “politica”, come parola buona che esprime un servizio al bene comune. Tutti i giovani del gruppo sono impegnati in diversi campi di impegno e volontariato, la prospettiva politica li ha uniti in una visione più ampia. Avvertendone l’assenza, ci siamo esercitarci a maturare quel “pensiero politico” che prova a tenere insieme temi e obiettivi, sogni e visioni, considerando sempre la complessità degli elementi in gioco. Qualcosa di controcorrente rispetto alle semplificazioni riduttive dei populismi che impediscono il dialogo e trasformano tutto in slogan inutili che riempiono di applausi, ma svuotano le teste. Siamo anche consapevoli che il pensiero politico deve tendere all’azione politica che coinvolge tutti senza esclusioni, pur nella pluralità di forme con cui questa si può esprimere. Il contrario – il disimpegno – ci sembra essere il nemico più insidioso. Ci guidano le parole di un grande maestro, don Milani, che scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è la politica” (Lettera a una professoressa). Più volte ci siamo chiesti: “Chi siamo?”. Ci ha aiutato papa Francesco che provocatoriamente si rivolge ai giovani, dicendo: «Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”» (Christus Vivit, 286). Questa conversione non riguarda solo le singole persone, ma anche i gruppi e ancor di più chi si dedica all’impegno politico. Scrive ancora papa Francesco in Laudato si’: “Occorre prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (n. 19).
Da questa rinnovata consapevolezza, è nato il desiderio di mettere per iscritto quanto emerso e così abbiamo iniziato una nuova avventura. Riprendendo le varie tematiche affrontate, ci siamo accorti che, più che i singoli contenuti, erano importanti alcuni “fili rossi” che sempre ritornavano. Si tratta di alcuni stili e obiettivi che crediamo necessari, affinché il pensiero e l’azione politica possano essere liberati da molte attuali storture. Inizialmente scrivevamo per noi stessi, per aiutarci a riordinare i pensieri, e non avremmo immaginato che questo lavoro potesse diventare un libro. Interessante è stato anche il metodo di scrittura che ci ha visti dividerci in gruppetti, poi rimescolati per ulteriori e costanti revisioni. Così facendo il tempo si è allungato, ma il risultato è un’opera collettiva per cui tutti possiamo sentirci autori dell’intero libro, senza suddivisioni tra i diversi capitoli. Il libro, dal titolo È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi (Paoline 2023), crediamo possa essere un valido strumento per continuare a creare occasioni di formazione per noi e per altri gruppi e persone. In particolare, è pensato per supportare il lavoro di educatori e insegnanti. Pur con un contenuto denso e impegnativo, è volutamente scritto con un linguaggio semplice e chiaro, accessibile a tutti. Il volume si arricchisce di diversi elementi, tra cui molte citazioni, una sintesi dell’agenda ONU 2030 e una postfazione del cardinal Oscar Cantoni, vescovo di Como, che ci ha sempre sostenuti e incoraggiati. Oggi desideriamo diffondere il messaggio contenuto nel libro, poiché crediamo che la politica – “sortire insieme” – possa davvero essere una forma di servizio attraverso cui realizzare valori che contribuiscono a far crescere le persone e le comunità. Crediamo che educare sia soprattutto questo: aiutarci, insieme, ad essere migliori.

* Responsabile pastorale vocazionale e universitaria della diocesi di Como.
Coautore del libro È ancora possibile una buona politica? (Paoline, 2023)

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Comunità corresponsabili

Pubblichiamo il nuovo editoriale a firma di don Rossano Sala del numero di marzo/aprile di Note di Pastorale Giovanile.

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Dopo aver impostato l’anno 2024 con il primo editoriale puntato sull’identità missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa e sulla conseguente identità discepolare e missionaria del cristiano[1], proviamo, rimanendo in continuità con quanto già detto, a fare un passo in avanti.
Concentriamo ora la nostra attenzione ora sulla forma relazionale della Chiesa che siamo chiamati a perseguire e sullo stile operativo che il cammino attuale ci chiede di assumere.
Sempre con l’intenzione di accompagnare il processo di preparazione alla seconda sessione del Sinodo universale sulla sinodalità, parto dalla Chiesa come comunità fraterna: qui siamo spinti a riscoprire un volto familiare e fraterno di Chiesa. Declino poi il tema dell’operatività concreta nella logica di una corresponsabilità missionaria.

Verso una riforma familiare e fraterna della Chiesa

Se guardiamo alla qualità relazionale media delle nostre comunità cristiane e alla loro capacità di accoglienza sentiamo che talvolta la fraternità stenta a decollare. “Tessere legami e costruire comunità”[2] non è esattamente il nostro forte, almeno di questi tempi! Quello della fatica della fraternità è un sintomo ecclesiale da non sottovalutare e su cui interrogarsi con coraggio e determinazione.
La tesi che rilancio qui ancora una volta – Repetita iuvant, dicevano i nostri antichi padri latini – è in sé molto semplice, quasi scontata: ogni tema sinodale è un sintomo ecclesiale. Fare un Sinodo universale sulla sinodalità – allo stesso modo di un Sinodo sulla regione panamazzonica, sui giovani, sulla famiglia, sulla nuova evangelizzazione o sulla parola di Dio, per citare solo i temi sinodali trattati negli ultimi 15 anni – è una vera e propria urgenza ecclesiale: non possiamo negare che viviamo una forte fatica relazionale interna ed esterna; che arranchiamo su alcuni fondamentali del dialogo e dell’ascolto; che assistiamo a una conflittualità e a una mancanza di rispetto che a volte ci fanno vergognare; che fatichiamo a vivere e lavorare insieme; che la fraternità stenta a emergere nonostante il desiderio sincero di molti. Abbiamo certo qualche bella “oasi di fraternità”, ma all’interno di uno spazio popolato da tanto individualismo.
Al di là di varie dichiarazioni di principio (la sinodalità come “teoria ecclesiale” innovativa), la prassi sinodale fatica a emergere (cioè mancano autentiche e durature esperienze di sinodalità sul campo). Il passaggio auspicato dal primato delle strutture a quello delle relazioni non si sta ancora realizzando, e in questo modo la Chiesa non riesce a lasciarsi dietro il suo volto freddo e burocratico, e nemmeno quello litigioso e oscuro. Tutti invece sentono il bisogno di vivere in una Chiesa più familiare e amichevole, intessuta di confidenza e buona relazioni, facendo vedere nei fatti che una comunità è prima di tutto una casa serena, ospitale e vivibile per tutti, nessuno escluso.
Eppure su questo il Vangelo è limpido e trasparente. Esso testimonia il primato di un “noi” che diventa forma specifica della testimonianza ecclesiale. È l’agape evangelica che si fa corpo nella relazione fraterna dei credenti, che nel Nuovo Testamento porta il nome di koinonia.
La koinonia è comunione plenaria con i fratelli che hanno accolto la salvezza, che sono entrati nel ritmo del discepolato e che sono chiamati alla medesima vocazione apostolica. L’amore reciproco pare essere la condizione di possibilità di ogni testimonianza che voglia proporsi in modo plausibile, perché un discepolato fraterno rimanda alla sua radice cristologica e rende sincero l’annuncio dell’agape di Dio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»[3]. Come dire: senza questa comunione tra di noi non vi è credibilità della nostra azione pastorale.
Il segno di riconoscimento dell’agape che viene da Dio non è un amore per Gesù e nemmeno un semplice amore per quelli di fuori, ma l’amore reciproco, perché propriamente è questo il “comandamento nuovo”, lasciato da Gesù nel momento centrale della sua vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»[4]. L’amore fraterno appare il primo frutto dell’appropriazione della salvezza, quindi è la fonte e la radice della missione di annuncio dell’Evangelo di Dio: gli altri gesti della fede “testimoniale” avranno senso e saranno efficaci solo se avranno questo come fondamento. Lo splendore della vita cristiana si fa visibile e attraente proprio a partire dalla koinonia in atto così come è mirabilmente descritta nella vita della prima comunità cristiana[5].
Arriviamo a noi. I giovani, durante il cammino sinodale, in molti modi ci hanno sfidato sulla revisione della forma della Chiesa, chiedendoci di renderla sempre più fraterna e familiare. Questo ha prodotto, da una parte, la spinta verso la “sinodalità missionaria”, che ha messo le basi per l’attuale cammino sinodale; dall’altra ci sfida a livello locale a riconoscere che «l’esperienza comunitaria rimane essenziale per i giovani: se da una parte essi hanno “allergia alle istituzioni”, è altrettanto vero che sono alla ricerca di relazioni significative in “comunità autentiche” e di contatti personali con “testimoni luminosi e coerenti”»[6].
Nell’ascolto del popolo di Dio in vista del Sinodo sui giovani le cose erano per me assai chiare e spingevano in tale direzione. Basti, in questa sede, rileggere un numero sintetico dell’Instrumentum laboris sulla questione, che pone l’attenzione al legame tra la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa e la sua stessa riforma:

Un’esperienza familiare di Chiesa
Uno degli esiti più fecondi emersi dalla rinnovata attenzione pastorale alla famiglia vissuta in questi ultimi anni è stata la riscoperta dell’indole familiare della Chiesa. L’affermazione che Chiesa e parrocchia sono «famiglia di famiglie» (cfr. Amoris laetitia, nn. 87.202) è forte e orientativa rispetto alla sua forma. Ci si riferisce a stili relazionali, dove la famiglia fa da matrice all’esperienza stessa della Chiesa; a modelli formativi di natura spirituale che toccano gli affetti, generano legami e convertono il cuore; a percorsi educativi che impegnano nella difficile ed entusiasmante arte dell’accompagnamento delle giovani generazioni e delle famiglie stesse; alla qualificazione delle celebrazioni, perché nella liturgia si manifesta lo stile di una Chiesa convocata da Dio per essere sua famiglia. Molte Conferenze Episcopali desiderano superare la difficoltà a vivere relazioni significative nella comunità cristiana e chiedono che il Sinodo offra elementi concreti in questa direzione. Una Conferenza Episcopale afferma che «nel bel mezzo della vita rumorosa e caotica molti giovani chiedono alla Chiesa di essere una casa spirituale». Aiutare i giovani a unificare la loro vita continuamente minacciata dall’incertezza, dalla frammentazione e dalla fragilità è oggi decisivo. Per molti giovani che vivono in famiglie fragili e disagiate, è importante che essi percepiscano la Chiesa come una vera famiglia in grado di “adottarli” come figli propri[7].

Ecco allora una prima serie di domande: stiamo lavorando nelle nostre comunità perché siano sempre più familiari e fraterne? Quali passi siamo chiamati a compiere perché esse siano sempre più una casa accogliente, in cui gli affetti e i legami siano vissuti con semplicità e letizia?

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Il Filo di Arianna della politica: Maggioranza/minoranza

da Note di Pastorale Giovanile.

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di Raffaele Mantegazza

Il principio di maggioranza è fondamentale per il funzionamento di una democrazia. All’interno di qualunque sistema democratico e di qualunque sua istituzione è solo la maggioranza a poter decidere della legittimità di una decisione. Occorre però essere molto chiari su questa questione, perché come già il padre della riflessione filosofica sulla democrazia, Alexis de Tocqueville, aveva sottolineato, il rischio di una cosiddetta dittatura della maggioranza è presente anche in un ambito democratico
Cominciamo col dire che una decisione presa a maggioranza è legittima, il che non significa che sia automaticamente giusta in senso morale. Coloro che si trovano in minoranza devono poter continuare non solo a mantenere la loro idea ma anche a poterla diffondere, anche se non possono mettere in dubbio la legittimità della decisione presa. Proprio per questo motivo in alcune situazioni è stato previsto l’istituto dell’obiezione di coscienza, che non mette in discussione la legittimità di una legge, ma permette al singolo in casi particolari di disobbedire.
Dunque occorre che ogni cittadino e cittadina si ponga le seguenti domande: Quando siamo in maggioranza riusciamo ad accettare il parere e le critiche della minoranza? Quando siamo in minoranza riusciamo ad accettare il fatto che la maggioranza ha deciso qualcosa che noi non condividiamo?
Molto spesso nell’azione politica quotidiana, nelle sedi decisionali come ad esempio i consigli comunali, si verifica una dinamica decisamente poco democratica, secondo la quale qualunque suggerimento o consiglio o critica provenga dall’opposizione deve essere squalificata a priori proprio perché viene considerata automaticamente contraria all’idea della maggioranza. Un paese maturo, una democrazia compiuta dovrebbe al contrario prevedere la possibilità di fare proprie le idee della minoranza, ovviamente se sono coerenti col proprio progetto politico e col programma di governo, mostrando come in realtà proprio l’ascolto di chi sta all’opposizione è un elevato elemento di democrazia
Quando però si sta insegnando la democrazia ai ragazzi e ai giovani occorre anche una riflessione ulteriore. È del tutto ovvio che una classe deve decidere democraticamente il proprio rappresentante o una squadra di calcio il proprio capitano e che gli insegnanti o educatori devono tenerne conto; però, a differenza che nella democrazia compiuta e adulta, si può provare a fare una riflessione insieme ai ragazzi sulle modalità decisionali, sui motivi che li hanno portati a scegliere proprio quella persona, sulla eventuale presenza di condizionamenti che li hanno portati ad esprimere un determinato voto. Insomma imparare la democrazia non significa praticarla in maniera diretta e compiuta, ma imparare a riflettere su di essa

Cosa fare

Si provi a discutere il seguente caso.
Siete insegnanti in una scuola superiore. Avete partecipato a un lungo e burrascoso consiglio di classe della II A nel quale si è stabilito a maggioranza che i ragazzi non potranno più recarsi in bagno nelle prime 3 ore di lezione perché si sono resi colpevoli di danneggiamenti alle suppellettili dei bagni. Il collega Rossi è stato il più nettamente contrario alla decisione e dopo due ore di discussione il provvedimento è passato a maggioranza. Il giorno successivo arrivate a scuola alle 8.45 e vedete due alunni della classe uscire dal bagno, chiedete loro che lezione abbiano e loro rispondono “il prof. Rossi”.
– Che cosa prova il protagonista in questa situazione?
– Qual è il messaggio che passa ai ragazzi?
– Quali comportamenti alternativi poteva scegliere il prof. B?

Come pensare

Giorgio Gaber
La collana

Su, venite tutti qua che facciamo un gioco Giochiamo al gioco della collana Per essere bello devono giocare tutti, eh? Adesso ve lo spiego: uno di noi alla volta terrà al collo questa collana e dirà agli altri quello che devono fare e gli altri la ubbidiranno Poi quando gli altri ne avranno voglia diranno a quello che comanda il gioco di togliersi la collana e di darlo a un altro e così via, eh?
Allora vediamo un po’ chi comincia Comincio io per primo che conosco il gioco?
Allora, avanti tutti insieme dite: “Pa-ra-pa” (“Pa-ra-pa”)
Bravi. Adesso dite: “Pi-ri-pi” (“Pi-ri-pi”)
Benissimo. E adesso dite: “Po-ro-po”
(“Po-ro-po” No basta no no No senti non ci divertiamo. Tu ci stai facendo fare delle cose completamente imbecilli!)
Accetto volentieri le critiche. Quindi se lo desiderate cambio discorso Dunque: “Pe-re-pe” “Pu-ru-pu”
(Buh ma basta no basta No senti, avevi detto che quando gli altri volevano potevano farti togliere la collana e questo è il momento!)
Certo. Se lo volete dovete allora decidere a chi andrà la collana Fatelo con calma e pensateci bene. E in questa fase di preparazione guardate attentamente la lucina, ecco questa lucina, la vedete? Pensate, concentratevi, pensate liberamente, non lasciatevi condizionare così, bravi, ecco, così!
Avete deciso?
(Abbiamo deciso, votiamo per te!)
Grazie signori! Sono contento della stima e della fiducia che ancora una volta ci avete concesso. Il nostro governo opera con il consenso del popolo per il bene del popolo
Orsù, tutti insieme verso un mondo migliore: “Pa-ra-pa” (“Pa-ra-pa”) “Pe-re-pe” (“Pe-re-pe”) “Pa-ra-pa”, “pe-re-pe” (“Pa-ra-pa”, “pe-re-pe”)

La lettura e/o l’ascolto di questo testo di Gaber può portare a interessanti riflessioni sulla libertà di voto. È vero ovviamente che in democrazia il voto è libero, ma quali sono i condizionamenti che la stampa e i mass-media, la propaganda, il sistema comunicativo possono operare sul soggetto elettore, senza spesso che questi ne sia del tutto consapevole?

Come provare

Attività: “Election Day”

L’esperienza di eleggere un proprio rappresentante nelle dinamiche di una scuola o di una classe è un valido pretesto per un assaggio di democrazia rappresentativa. Peccato che i decreti delegati permettano ai ragazzi di eleggere propri rappresentanti solamente a partire dalla scuola superiore, escludendone la scuola media inferiore. Ma è possibile far eleggere ai ragazzi un capoclasse o meglio ancora farli riflettere sulle dinamiche di gruppo attraverso la seguente attività.
Si forniscono ad ogni ragazzo quattro bigliettini chiarendo che le risposte sono del tutto anonime. Si procede poi a formulare la prima domanda, la cui risposta deve essere scritta sul primo bigliettino:
in caso di una gita scolastica con quale compagno divideresti la stanza d’albergo per una notte?
Ritirati e non letti i bigliettini si procede con le altre domande:
– un professore ha dato alla classe una punizione ingiusta; a quale compagno assegneresti il compito di andargli a parlare per convincerlo a ritirare la punizione?
– la classe ha fatto una colletta per un acquisto comune; a quale compagno affideresti per tre giorni la cassa di 1000 euro?
– a quale compagno chiederesti aiuto per un compito in classe di (…)
Solo a questo punto si proceda a leggere i bigliettini stipulando la classifica delle preferenze. Ovviamente questo gioco ha come obiettivo il reperimento di quattro differenti figure di leader, e precisamente:
– il leader amicale, ovvero il ragazzo che è maggiormente in grado di tessere relazioni umane nel gruppo;
– il leader “politico”, ovvero il ragazzo rispetto al quale la squadra si sente rappresentata in situazioni difficili;
– il leader “affidabile” ovvero il ragazzo di cui ci si fida per onestà e soprattutto per serietà;
– il leader per competenze.

È da considerare significativa da parte di un singolo ragazzo una raccolta di preferenze pari a ¼ del gruppo. Ovviamente è possibile che non tutti i quattro ruoli siano ricoperti in modo preponderante da qualcuno (può darsi una dispersione di voti), come è possibile che una sola persona possa avere la predominanza su più aree (è assai difficile però che un ragazzo conquisti la maggioranza dei voti su tre aree). Questo gioco è molto utile anche per la scelta del capoclasse: in questo caso ricordando che il capoclasse deve esser espresso dalla classe e non dal docente, può esser utile chiedere in anticipo ai ragazzi quale area ritengano più significativa per la scelta del capoclasse, e dunque fare una specie di “scaletta”.

Cosa domandarsi

Anche a partire dall’esempio sopra riportato un gruppo di educatori potrebbe chiedersi:
– quante decisioni vengono veramente prese a maggioranza?
– quanto tempo dedichiamo alla discussione prendendo in considerazione i suggerimenti di tutti?
– come si comporta un educatore quando non condivide una decisione presa dalla maggioranza, ma in qualche modo è chiamato a renderla operativa con i ragazzi?

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