Messaggi del Rettor Maggiore ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano

Da Note di Pastorale Giovanile, la nuova rubrica: Messaggi del Rettor Maggiore ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano.

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Da alcuni anni il Rettor Maggiore dei Salesiani, in occasione della festa di don Bosco, il 31 gennaio, manda una “lettera” ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano (del mondo, ovviamente), come un saluto, un momento di cordialità, uno scambiarsi gli auguri. In genere tale messaggio origina dal tema della Strenna  (l’impegno che ogni anno viene lanciato ai membri della Famiglia Salesiana), oppure da qualche evento di Congregazione e di Chiesa, come la GMG, l’Anno Santo, il Sinodo sui giovani, o qualche speciale anniversario salesiano. Tale messaggio “circola” nei nostri ambienti non solo come “parola” che indirizza, ma anche e soprattutto come segno di famiglia, appunto per la speciale predilezione per i giovani che nel nome di don Bosco tutti i suoi Successori hanno.
E allora raccogliamo qui la documentazione che siamo riusciti a reperire. Al momento non riusciamo ad andare indietro al 2000; chissà che qualche ricercatore o salesiano o giovane di buona memoria possa completare questo lavoro.
Sarà poi nostra cura trovare e mettere on line, prima che il tempo ingoi tutto, il materiale prodotto dei vari Confronti internazionali, Incontro Europei, Assemblee nazionali, Forum e quant’altro che riguarda il Movimento Giovanile Salesiano. Ma anche le pagine che i vari Rettori Maggiori nelle loro Circolari o gli stessi Atti dei Capitoli Generali hanno scritto.
Il MGS è – anche nelle parole dei Rettori Maggiori – la sintesi e il modello operativo della nostra Pastorale Giovanile, nell’intreccio della dimensione del coinvolgimento-partecipazione dei giovani, della spiritualità che proviene dall’azione dello Spirito in don Bosco, della cura formativa e “missionaria” che ne ha la comunità “salesiana” allargata nella sua missione educativa-pastorale.

 

Don Bosco: una giovinezza fatta da tanti no e altrettanti sì

Da Note di Pastorale Giovanile.

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di Francesco Motto

Di don Bosco si è scritto e si continua a scrivere che “tutto cominciò da un sogno” e con tale espressione sovente si lascia intendere che egli non fece altro che seguire un itinerario di vita indicatogli fin da fanciullo e ripreso in qualche modo anche più avanti negli anni.
Non è proprio così. A parte il fatto che storicamente il famoso sogno dei nove anni dovette essere poco più che un lampo – e non certo quell’ampio resoconto da lui tracciato 50 anni dopo quando si era in gran parte realizzato (ne abbiamo trattato su questa stessa rivista), – una simile narrazione entra direttamente in conflitto con degli eventi assodati: nell’età delle scelte, vale a dire nella giovinezza e nella prima maturità, Giovanni Bosco si trovò di fronte a delle alternative, dovette operare delle opzioni, prese delle decisioni, senza alcuna certezza di fare quella giusta, quella semplicemente intuita nel sogno infantile.

Adolescente, giovane, respinge concrete possibilità di vita e di futuro

Figlio di contadini, orfano di padre fin dalla prima infanzia, Giovanni Bosco era naturalmente destinato al lavoro nei campi, cui in effetti si avviò quanto prima sia in famiglia, sia nel breve lasso di tempo da preadolescente passato alla cascina Moglia come garzone di stalla. Il fratellastro Antonio non aveva tutti i torti a sostenere che, come futuro contadino, non aveva bisogno di tanti studi. Ma il gusto naturale della lettura e dello studio, la fortuna di incontrare un buon prete di campagna che ne intuì le doti intellettuali, una mamma che aspirava a qualcosa di meglio della vita dei campi per il suo ultimo figlio permisero a Giovannino Bosco di strappare qualche ora al lavoro nei campi per dedicarsi agli studi, ovviamente a prezzo di grandi sacrifici.
Nell’anno trascorso come studente a Castelnuovo (1830-1831) in casa del sarto Roberto Giovanni gli venne offerta la possibilità di rimanere con lui, apprendere bene il mestiere e così un domani prendere il suo posto e con esso la possibilità di essere di eventuale sostegno alla madre anziana. Ma d’accordo con lei respinse la proposta e preferì continuare gli studi a Chieri, a 16 km dal proprio paese. Non era una scelta facile: allontanarsi da casa, ricorrere all’elemosina per pagarsi gli studi, adattarsi a vivere ospite in casa altrui, offrire servizi vari per pagarsi la pigione… Anche a Chieri gli si aprì la strada di poter gestire un domani un esercizio commerciale. Nuovamente rifiutò per il suo desiderio di continuare gli studi.

La scelta dello “stato” di vita

Giunto al loro termine, il diciannovenne Giovanni dovette ancora una volta decidere “cosa fare da grande”. Si sentiva chiamato alla vita sacerdotale, come intuiva dal sogno che si ripeteva, ma “la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato”, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione”.
Optò allora per la vita consacrata; si sottopose all’esame di vocazione presso il convento dei frati Minori Riformati della Madonna degli Angeli a Torino, fu accettato ed era pronto ad entrare in noviziato al convento della Pace in Chieri quando uno strano sogno sulla difficoltà di vivere in un convento lo mise in crisi. Ne uscì a seguito del parere dello zio (sacerdote) dell’amico Comollo con cui si era confidato: rinunciare ad entrare in convento e invece iniziare gli studi in seminario in attesa di conoscere meglio “quello che Dio vuole da lui”.
Superamento l’esame finale di retorica nelle scuole di Chieri, si sottopose ad un nuovo esame, quello per la vestizione clericale. Lo superò e così andò serenamente in vacanza in famiglia a prepararsi alla nuova fase di vita che si apriva davanti a lui. Nell’ottobre ricevette la vestizione clericale dal proprio prevosto ed il 30 ottobre entrò in seminario a Chieri. Aveva vent’anni, aveva ormai scelto di diventare sacerdote, la strada sembrava tracciata… Non poteva certo immaginare quante altre scelte impegnative avrebbe dovuto fare.

Quale missione sacerdotale? nessuna per ora (1841-1844)

Trascorse oltre 5 anni di studio e di formazione in seminario (novembre 1835-maggio 1841), non senza coltivare qualche dubbio sulla sua vocazione sacerdotale, subito fugato dal suo direttore spirituale, amico e conterraneo, don Giuseppe Cafasso.
Ordinato sacerdote nel giugno 1841, dopo l’estate trascorsa in paese gli vennero subito offerte tre possibilità: una, lontano dal paese, a Genova, come maestro-precettore in casa di un ricco signore con l’ottimo stipendio di mille lire annue; e due vicino a casa: cappellano di Murialdo con doppio stipendio rispetto al solito o vicecurato a Castelnuovo. Lo zelante neosacerdote non sapeva che fare, per cui ancora una volta andò a consigliarsi a Torino da don Cafasso. Questi udite tre le proposte le scartò tutte dicendo: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Venite con me al convitto di Torino”. A 26 anni compiuti don Bosco, pieno di giovanile entusiasmo sacerdotale, doveva dunque sospendere ogni progetto apostolico coltivato lungo gli anni di seminario per dedicarsi ad ulteriori studi teologici.

La proposta decisiva

Lungo il triennio di studio al Convitto (1841-1844) ebbe modo di fare varie esperienze sacerdotali sotto la guida di don Cafasso. Due in particolare: al Convitto venne ad insediarsi presto attorno a lui una sorta di oratorio festivo di qualche decina di ragazzi lavoratori, che poi nei giorni feriali lui visitava sul posto di lavoro; di sabato poi si recava personalmente nelle carceri minorili sempre con piccoli doni da distribuire (dolci, frutta, immaginette). Il tutto sotto lo sguardo attento di don Cafasso, che evidentemente era molto interessato al futuro del giovane compaesano.
I problemi si posero al termine del triennio di studio. L’anziano don Giuseppe Comollo, con il parere favorevole dell’arcivescovo Fransoni, lo chiese come economo-amministratore della propria parrocchia. Come dire di no al proprio vescovo? A toglierlo dagli impicci ci pensò il rettore del Convitto, il teologo Luigi Guala, che gli dettò personalmente la lettera di rinuncia.
Gli si avanzarono allora tre altre proposte: vicecurato di Buttigliera d’Asti, oppure ripetitore di morale al Convitto, oppure direttore stipendiato dell’erigendo piccolo ospedaletto accanto al Rifugio, fondato e mantenuto dalla ricca marchesa Barolo per centinaia di “ragazze a rischio”. Non sapeva che fare: solo sentiva il bisogno di non abbandonare i suoi “poveri giovani” che continuamente lo cercavano. Ora questo gli sarebbe stato possibile solo accettando la terza proposta: infatti la predicazione e le confessioni delle ragazze del Rifugio prima e la direzione dell’Ospedaletto poi gli avrebbero concesso spazi di tempo libero per i suoi giovani. Come suo solito si confidò con don Cafasso che però prese tempo: avrebbe deciso dopo le vacanze estive.
Passarono rapidamente e don Cafasso non gli suggeriva nulla. Don Bosco si fece allora coraggio e gli chiese espressamente il suo parere, che avrebbe ritenuto “volontà di Dio “. Don Cafasso gli consigliò di accettare la direzione dell’Ospedaletto, sotto la responsabilità del direttore spirituale delle varie istituzioni della marchesa, don Giovanni Borel, che per altro aveva fatto alla marchesa proprio il suo nome per il suddetto ruolo.

La decisione sofferta

Don Bosco non si allontanava così da Torino, aveva un stipendio sicuro con cui mantenersi, ma per l’assistenza ai suoi giovani, tanto per incominciare mancava un luogo in cui radunarli. Con il consenso della marchesa iniziò con la sua camera (il corridoio e le scale) al Rifugio, ma fu subito chiaro che colà non c’era posto per contenere i ragazzi che aumentavano ogni domenica. Don Borel chiese allora altro spazio alla marchesa che generosamente lo concesse non essendo ancora in funzione l’ospedaletto. L’arcivescovo acconsentì che un locale venisse trasformato in cappella (8 dicembre 1844).
Ma era evidente che era tutto provvisorio. In effetti vari mesi dopo, in prossimità dell’apertura dell’ospedaletto (10 agosto 1845) dovette cercare altro luogo per radunare i giovani. Dal maggio al dicembre peregrinò prima al vicino cimitero di S. Pietro e poi ai Mulini Dora in città. Scacciato da entrambi i posti, dal gennaio all’aprile 1846 fu la volta di casa Moretta e prato Filippi a Valdocco, finché in aprile approdò alla sede definitiva, casa Pinardi a Valdocco. L’Oratorio itinerante dei mesi precedenti aveva trovato una sede stabile
Ma furono mesi di grande impegno anche fisico per don Bosco: svolgere i suoi compiti di cappellano dell’Ospedaletto ma nello stesso tempo cercare ogni domenica nuove chiese dove portare la massa dei suoi giovani a messa; trovare spazio per far loro catechismo e farli giocare; visitarne alcuni lungo la settimana sul luogo di lavoro; pubblicare qualche libretto devozionale ed anche una Storia ecclesiastica di ben 400 pagine ecc. La salute ne risentì tanto che ad inizio gennaio la marchesa, preoccupata, chiese a don Borel di farlo riposare fuori città. Ma i ragazzi non potevano fare a meno del loro don Bosco: andavano da lui a frotte a confessarsi, costringendolo poi a riportarli in città.

La scelta definitiva

Presa in affitto parte di casa Pinardi nell’aprile 1846, don Bosco poteva in certo modo dirsi soddisfatto, anche se c’erano molti lavori da fare per adattarla alle esigenze dei suoi giovani oratoriani e dunque ulteriori spese da sostenere. Ma una nuova tegola gli stava cadendo in testa. A metà maggio la marchesa scriveva a don Borel che stimava moltissimo la persona di don Bosco, che apprezzava oltre ogni dire il lavoro spirituale che egli faceva, ma proprio per questo, vedendolo stanchissimo, chiedeva che si mettesse immediatamente a riposo se voleva continuare a svolgere il suo servizio di cappellano dell’Ospedaletto. Ma aggiungeva una richiesta pesantissima: don Bosco doveva proibire ai suoi giovani di venire ad attenderlo quando usciva dalla sua camera al Rifugio, stante il pericolo di inopportuni incontri con le “figlie di mala vita” colà da lei accolte.
Non aveva tutti i torti la marchesa, ci teneva alle sue opere di carità materiale e spirituale, ma per il trentunenne sacerdote era un autentico aut aut: o con la marchesa e le sue ragazze con tanto di sicuro stipendio, ovvero scindere a fine luglio il contratto “professionale” e dedicarsi a tempo pieno ai suoi giovani oratoriani, cercando altrove i mezzi di sussistenza. A quanto scrive lui stesso, non dovette pensarci su troppo: scelse i suoi “poveri giovani” cui nessuno si interessava, con la conseguenza che mentre la ricca marchesa avrebbe facilmente trovato un sostituto di don Bosco, questi da agosto si sarebbe trovato senza stipendio.
I due mesi di maggio e di giugno 1846 furono molto impegnativi per don Bosco. La stanchezza accumulatosi lo portò ai primi di luglio allo sfinimento. Una probabile polmonite lo inchiodò al letto per tutto il mese, riducendolo in fin di vita, fra la costernazione dei suoi giovani che con le loro preghiere – avrebbe detto don Bosco – la strapparono dalla morte sicura. Nella guarigione don Bosco lesse la volontà di Dio di dedicare la sua vita ai giovani e così, dopo aver trascorso al paese tre mesi di convalescenza con mamma Margherita, con la stessa mamma ai primi di novembre ritornò a casa Pinardi, dove don Borel in agosto aveva fatto trasportare dalla cameretta del Rifugio i suoi effetti personali.

Ma non era ancora finita!

Si potrebbe pensare che, pagato in giugno l’affitto di casa Pinardi e con la mamma accanto, nell’autunno 1846 il futuro potesse apparire meno oscuro, forse anche roseo. Ma non fu proprio così. I secondi anni quaranta furono gravidi di problemi. Anzitutto rimaneva costante il problema economico, nonostante l’aiuto di don Borel, di don Cafasso, della mamma e forse anche – ma don Bosco non lo scrisse mai – della stessa generosa marchesa. Sorse poi presto la difficoltà di trovare dei collaboratori, sacerdoti e laici, stabili per il suo oratorio “festivo” tutto da inventare e che presto si arricchì di scuole serali, con un piccolo internato per giovani senza tetto. Emerse in tempi brevi il problema di farsi accettare dal clero locale che vedevano don Bosco come colui che sottraeva i giovani dalle loro parrocchie. Scoppiò il problema giovanile con molti dei suoi oratoriani e collaboratori che autonomamente si coinvolsero direttamente nelle battaglie risorgimentali e poi lo lasciarono praticamente solo. Spuntò prepotentemente il problema sociale per cui raggruppamenti giovanili potevano essere pericolosi nel caldo clima risorgimentale che annunziava il ‘quarantotto”.
E a seguire, il problema politico della nascita del Regno d’Italiain opposizione allo Stato Pontificio, che l’anno 1860 aveva provocato una dura perquisizione domiciliare a Valdocco per sospetti intrallazzi con la Santa Sede; negli anni sessanta la difficoltà per don Bosco di farsi approvare la società salesiana e le sue costituzioni; negli anni settanta la lunga e dolorosa incomprensione con mons. Gastaldi; negli anni ottanta il complicato insediamento delle missioni in Patagonia…
Pensare che don Bosco abbia avuto una giovinezza facile per cui aveva davanti una sorta di autostrada da percorrere, quella del sogno, senza dover fare delle continue e non facili scelte lungo gli anni, è porsi fuori dalla storia. Così come tradire la storia è pensare che da giovane sacerdote (ma anche più avanti negli anni come si è appena accennato) di fronte a tante difficoltà non si sia mai posto la domanda se “continuare o lasciare” il suo Oratorio.
Se don Bosco è diventato quello che tutti conosciamo, se poi ha raggiunto la gloria degli altari è perché nella giovinezza e nella prima età adulta, sempre ben consigliato da adulti, ha saputo dire tanti no ed altrettanti sì; e questi sì non ha avuto paura a pagarli a caro prezzo, convinto che fosse la volontà di Dio. Solo pochi mesi prima di morire si rese conto che il sogno infantile si era realizzato e scoppiò in pianto. Ne aveva tutte le ragioni.

PS. Con questo intervento sulla giovinezza di don Bosco si chiude la serie di profili della rubrica SANTI GIOVANI E GIOVINEZZA DI SANTI che abbiamo lanciato nel 2019. Amiamo pensare che siano stati occasione, per i giovani lettori ed educatori, di attente riflessioni su come e quando Dio chiama ad una vita di santità da altare (o almeno della porta accanto come direbbe papa Francesco). Ci torna gradito in questo momento il fatto che fra i patroni per la giornata della GMG di Lisbona 2023 siano stati scelti, fra gli altri, don Bosco “educatore di santi” e i beati Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo, Chiara Badano e Caro Acutis”, tutti personaggi di cui abbiamo narrato vita e santità in questa rubrica.

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Alcune premesse e chiavi di lettura (del dossier “FARE. DISFARE. RIFARE L’ORATORIO?”)

Dal

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Stefano Guidi *

L’introduzione che apre questo dossier intende offrire – in premessa – la chiave di lettura dell’intero lavoro. Qui non intendiamo proporre soluzioni a buon mercato, rapide e sicure. Vorremmo invitare ad iniziare un percorso di rinnovamento della forma dell’oratorio che – includendo anche la dimensione immobiliare – lavora sul nucleo essenziale della sua proposta.
Tale introduzione tocca tre punti. Il primo richiama le ragioni che hanno guidato la realizzazione di questo dossier. Il secondo richiama la necessità di collocare la riflessione sulla struttura dell’oratorio all’interno di una revisione sostanziale del progetto educativo dell’oratorio, che prende le mosse dall’incontro con il destinatario e dallo studio del contesto territoriale. Il terzo punto accenna molto brevemente ai criteri qualificanti del discernimento ecclesiale.

Sul primo punto è sufficiente dire questo: il dossier segna un iniziale passo esplicito di riflessione attorno ad un tema che agita e preoccupa molti. Non è forse un caso che la Rivista abbia deciso di affidare questa riflessione iniziale alle diocesi lombarde. Infatti, proprio l’oratorio lombardo rappresenta un caso interessante. Esso si presenta anche (soprattutto) esteriormente come un ambiente riconoscibile, codificato e strutturato. Strettamente connesso al vissuto sia della parrocchia che della comunità civile, e parte integrante della trama che costituisce il tessuto della comunità locale.
Vogliamo quindi aprire esplicitamente la riflessione sull’oratorio inteso come edificio e come struttura visibile, riconoscibile, identificabile. Questa scelta è mossa a sua volta da una constatazione che sta maturando da diversi anni. E cioè: che – sotto il profilo quantitativo – gli oratori lombardi siano sproporzionati e non sempre adeguati. Qualche parola di spiegazione e di approfondimento.
Sono sproporzionati sia rispetto alla popolazione giovanile della regione, sia rispetto alle modalità e ai tempi di socializzazione che questa generazione esprime, sia rispetto alla partecipazione alla vita della comunità religiosa locale che questa generazione pratica. Si avverte poi una certa sproporzione sia rispetto alle energie educative che la parrocchia riesce effettivamente a mettere a disposizione, non solo per l’attività gestionale, ma – punto assai più delicato – per l’attività progettuale, sia rispetto alle forze presbiterali, religiose e laiche effettivamente disponibili al servizio educativo. Precisiamo che questa riflessione si basa non solo o non tanto su sensazioni raccolte dal territorio e dagli operatori, ma più seriamente su studi e ricerche che la giustificano. Studi e ricerche che in parte sono già state svolte e in parte sono in fase di avvio. Va anche detto che la diffusione capillare impressionante degli oratori in Lombardia non risponde ad una logica di affluenza e di riempimento ma di proposta. L’oratorio è indubbiamente tra le espressioni più riuscite e longeve del cattolicesimo popolare nel territorio lombardo, espressione di una Chiesa che si pensa di tutti e per tutti, e che per questo propone a tutti l’esperienza elementare del Vangelo. Occorre cautela e prudenza rispetto all’istinto prevalente – anche tra gli addetti ai lavori – che talvolta tende a liquidare troppo frettolosamente questa modalità ecclesiale definendola come ormai del tutto superata.
Al senso di sproporzione (detto in una parola con una espressione rapida: sono troppi, e sono alternativamente pieni e vuoti) si aggiunge l’intuizione di una certa inadeguatezza. Sul piano specificamente spaziale, l’oratorio lombardo somma in un’unica sede almeno due tipologie di strutture: l’edificio scolastico e l’impianto sportivo. Di cui il primo – per necessità – esprime esplicitamente l’idea di una formazione catechistica statica, razionale e di stampo scolastico. Da fare in un’aula. Come a scuola. Il canone scolastico-sportivo ha avuto l’ovvio vantaggio di integrare con un certo successo altre dimensioni altrettanto costitutive dell’esperienza oratoriana: penso alle esperienze espressive e artistiche (quanti piccoli e grandi teatri praticamente presenti in ogni parrocchia e oratorio!) e a quella di socializzazione e ricreativa, fino ad integrare quella abitativa (le esperienze di vita comune dei giovani).
Questa forma di oratorio, pensato come dispositivo educativo integrato, con il suo impianto complessivo e articolato, ha risposto adeguatamente per decenni a molteplici esigenze educative, sia famigliari che sociali, e soprattutto ecclesiali. La continuità tra l’oratorio e la Chiesa, ossia tra la dimensione educativa-ricreativa e la dimensione religiosa personale e sociale, sembrava essere garantita anche dalla continuità spaziale. Se non sotto il profilo propriamente personale credente, almeno sotto il profilo della intuizione di senso soggiacente a tale esperienza.

* Direttore Fondazione diocesana per gli oratori milanesi; Coordinatore Oratori diocesi lombarde.

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Sguardi in sala. Percorsi educativi e ricerca di senso tra Cinema e Teatro

Di seguito la presentazione della nuova rubrica su NPG a cura del CGS – Cinecircoli Giovanili Socioculturali.

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A partire da gennaio 2024, grazie alla collaborazione tra l’associazione Cinecircoli Giovanili Socioculturali APS e la rivista Note di Pastorale Giovanile, è disponibile on-line la rubrica “Sguardi in sala: percorsi educativi e ricerca di senso tra Cinema e Teatro”.

L’iniziativa editoriale ha l’obiettivo di mostrare come alcuni film recenti e opere teatrali possono illuminare, far capire e mettere in scena temi, personaggi e situazioni che ormai fanno parte della cultura e sensibilità di oggi, o modi di rivedere temi passati: giovani e adolescenti, famiglie, figli, identità personale (sociale, sessuale…), relazioni uomo-donna, ambiente, povertà, migrazioni, territorio, pace, intelligenza artificiale, fantasia, immaginazione, amore, morte… Le diverse uscite (cinque a tema cinema e cinque a tema teatro) prenderanno in considerazione film e spettacoli di facile reperibilità online, offrendo anche spunti a chi volesse utilizzarli per qualche attività educativa, o magari invitare gli stessi autori per una presentazione o un dialogo sul tema specifico.

Destinatari della rubrica sono prima di tutto gli educatori e i docenti alle prese con ragazzi e adolescenti, nelle varie circostanze e nei vari ambienti in cui tale metodologia può essere impiegata: a scuola, in incontri formativi, per incontri spirituali…

Ciascun articolo è costituito da una breve sinossi, da un’analisi / recensione con orientamento tematico, dove lo sguardo cinematografico o teatrale fa emergere le domande di senso suggerite dalla pellicola o dallo spettacolo sulle tematiche proposte, e si chiude con alcuni suggerimenti e piste di laboratorio per uno sviluppo pratico ai fini educativi.

Gli articoli saranno curati di volta in volta da persone diverse, giovani e adulti dei circoli CGS più ferrati in materia, con un coordinamento a cura del Consiglio direttivo nazionale.

Prima uscita: Vite indegne di vita – Lo sterminio dei disabili nel racconto teatrale di Marco Paolini, a cura di Myriam Leone e Gianpaolo Bellanca.

 

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Un anno per pensare

Editoriale del numero gennaio/febbraio 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

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di don Rossano Sala

Il 2023 è passato molto velocemente. Per la pastorale giovanile certamente sarà ricordato per la Giornata Mondiale della Gioventù. Lisbona è stato un momento importante per la Chiesa tutta dopo la pandemia, perché ha segnato il passo verso un rilancio dell’esperienza di fede condivisa. La Chiesa può davvero essere una Chiesa di tutti e per tutti, come papa Francesco ha detto più volte durante quei giorni in terra lusitana.
La sfida della Giornata Mondiale della Gioventù è quella di mettere a frutto nel quotidiano quell’esperienza di fede attraverso scelte concrete e possibili di appartenenza e impegno come discepoli missionari del Signore Gesù nella propria Chiesa locale. Tutto nella GMG è predisposto perché si diventi sempre più discepoli e sempre meglio apostoli del Signore. Quell’esperienza va fatta fiorire e fruttificare.
Sappiamo che ciò non è scontato.
Per la Chiesa tutta poi c’è stato un momento importante di convocazione, quello della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione. Abbiamo visto com’è andata: c’è stato il tempo per dialogare e ascoltarsi, con la partecipazione di diversi membri del popolo di Dio che hanno potuto portare il loro apporto al discernimento in atto. Abbiamo un Documento di sintesi votato dall’assemblea interessante, anche se ancora interlocutorio.
A questa prima sessione ne seguirà un’altra nell’ottobre del 2024, che certamente sarà chiamata a focalizzare meglio almeno alcune questioni e offrire su di esse orientamenti più puntuali e precisi. Certamente il tempo intermedio tra la prima e la seconda sessione – che è sostanzialmente quest’anno 2024 – non è un tempo vuoto. Sappiamo per esempio che il Concilio Vaticano II si è svolto in quattro sessioni e ha avuto quindi tre momenti intermedi molto fecondi: tempo di approfondimento teologico delle tematiche in discussione, tempo per il confronto tra le diverse parti in campo, tempo di sedimentazione e di preghiera rispetto ai compiti della Chiesa, tempo per fare proposte e per ascoltarsi reciprocamente.
Penso che il 2024 sia un anno di approfondimento ecclesiale, anche perché non ci sono all’orizzonte particolari eventi che in un certo senso potrebbero “disturbare” la pastorale ordinaria e il discernimento sinodale. È un tempo dedicato ad andare in profondità: ci vogliono attenzione e concentrazione, preghiera e studio, intimità e contemplazione. Si tratta di cogliere quali sono le vie verso cui il Signore ci vuole condurre per rimanere all’altezza della nostra chiamata ad essere luce del mondo e sale della terra.
Vorrei in questo editoriale di inizio anno soffermarmi su due aspetti che meritano attenzione specifica e approfondimento necessario. Li considero i due temi fondamentali per il presente e il futuro della Chiesa: il primo verte sull’identità della Chiesa, il secondo su quella del cristiano.

L’identità della Chiesa: missionaria ed evangelizzatrice

La prima, principale e forse l’unica parola dell’attuale pontificato consiste sostanzialmente nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per molti aspetti quanto è seguito a questo importante documento è un insieme di sviluppi coerenti, specificazioni particolari e realizzazioni più o meno complete di questa ispirazione di fondo, che rimane come scenario del pontificato e diapason permanente per ogni successivo passo e decisione.
Penso in maniera specifica al tema fondamentale della conversione missionaria e della svolta evangelizzatrice della Chiesa, che porta con sé ogni altra cosa, perché è uno stile di Chiesa che ne esprime la sua identità propria:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”[1].

Il nucleo rovente di questa proposta affonda le sue radici nel Vangelo: uno ritrova se stesso proprio nel momento in cui perde se stesso attraverso il dono di se stesso. È proprio uscendo da se stessa che la Chiesa ritrova la sua identità più profonda. Di Gesù dicevano che era «fuori di sé»[2], ma se ci pensiamo bene questa affermazione coincide con la pienezza della sua identità, che è perfettamente decentrata e completamente radicata nel Padre suo. Gesù è se stesso solo nella relazione e nel legame con il suo Abbà, nel suo riceversi continuo. La dimensione estatica è quella che gli offre contenuto, sostanza e consistenza.
Solo uscendo da me stesso divento me stesso, questa è la verità del mio essere! Ecco il senso dell’invito fatto ai giovani in Christus vivit, quando vengono spinti a uscire da loro stessi per andare incontro agli altri: «Che tu possa vivere sempre più quella “estasi” che consiste nell’uscire da te stesso per cercare il bene degli altri, fino a dare la vita. Quando un incontro con Dio si chiama “estasi”, è perché ci tira fuori da noi stessi e ci eleva, catturati dall’amore e dalla bellezza di Dio»[3].
Nel tempo del narcisismo generalizzato – vero virus che contagia giovani e adulti, società civile ed ecclesiale, comunità religiose e istituzioni di ogni tipo – l’invito è, non semplicemente, a tirar fuori il meglio di sé, ma ad uscire da se stessi, abbandonando il proprio “io” egoistico e autoreferenziale. È doveroso pensare oggi all’educazione in questo senso: uscire da se stessi, più che tirar fuori il meglio da se stessi!
Tanti documenti cercano poi di realizzare questo nei diversi ambiti della vita della Chiesa. Faccio solo tre esempi, tra i tanti possibili. Primo, la Costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle Università e le Facoltà ecclesiastiche. Lì si dice con chiarezza che il motore del rinnovamento nasce dalla necessità di «imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”»[4]. Secondo, la Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, che con la medesima chiarezza afferma che

in un momento storico in cui la Chiesa si introduce in una nuova tappa evangelizzatrice, che le chiede di costituirsi in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”, il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. Soprattutto, come auspicava già il Concilio, è necessario che il Sinodo, nella consapevolezza che il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale, si impegni a promuovere con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa[5].

Infine, la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla riforma della curia romana, in cui si dice che «nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia Romana» e che «questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo»[6].
In tre ambiti strategici – quello della cultura, quello della sinodalità e quello dell’organizzazione della Curia Romana – è il principio della missione evangelizzatrice che ispira il rinnovamento, spinge alla conversione, propone i cambiamenti necessari. La teologia stessa, secondo Francesco, ha il compito di ripensarsi in ottica missionaria ed evangelizzatrice, perché «a una Chiesa sinodale, missionaria e “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”»[7].
La prima grande domanda a cui rispondere sembra essere questa: quanto e in che modo ci stiamo impegnando per riscoprire l’identità missionaria della Chiesa e il suo compito prioritario, che è l’evangelizzazione?

L’identità del cristiano: discepolo e missionario

Per rimettere al centro il volto missionario della Chiesa e il suo compito essenziale, che è quello dell’evangelizzazione, bisogna che ci impegniamo con serietà nella riscoperta dell’identità propria del cristiano. In sintesi diciamo, con una formula sintetica: siamo “discepoli-missionari”, siamo “tutti discepoli, tutti missionari”, e tutto ciò a partire dalla piattaforma battesimale. Questo lo leggiamo a chiare lettere in un famoso passaggio dell’Evangelii gaudium:

In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati[8].

Nella mia esperienza accademica e pastorale di questi ultimi anni vedo che l’accento sul binomio identitario del cristiano è tutto spostato verso la seconda parte. Ovvero si sottolinea con forza, ma a mio parere in forma spesso unilaterale, la dimensione missionaria dell’identità cristiana e si dimentica facilmente il lato del discepolato[9]. Il risultato è che manchiamo di profondità e non abbiamo una base solida per sostenere adeguatamente il nostro apostolato.
Penso che la trasformazione missionaria della Chiesa sarà un’illusione se non ripartiamo dal discepolato. L’identità del cristiano – come quella di Gesù – è prima di tutto filiale e quindi discepolare. Come Gesù è figlio e discepolo del Padre suo, così il cristiano lo è di Gesù. Egli rimane «il primo e il più grande evangelizzatore»[10] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo quando si tratta di ripartire o di dare slancio al proprio cammino di discepoli missionari.
Non possiamo pensare che la questione contemplativa – e anche quella dell’adorazione, su cui papa Francesco ha richiamato diverse volte l’attenzione proprio durante il cammino sinodale in atto – sia altro rispetto alla questione pastorale: è invece da ritenersi fondamentale che per essere efficaci animatori pastorali sia necessario prima essere degli autentici discepoli: è sempre dietro l’angolo il rischio di pensarsi apostoli del Signore senza prima essere suoi discepoli! Ecco perché è necessario uno spirito contemplativo: capace di rimanere ammirato davanti all’Evangelo, sempre stupito di fronte alle opere di Gesù e continuamente rapito dal suo stile unico. Contemplare insieme, seppur brevemente, il suo rapporto con il Padre, la sua vita nascosta a Nazareth e lo stile della sua missione ci offre elementi di rinnovamento sempre antichi e sempre nuovi.
Gesù è amico e confidente del Padre suo che è nei cieli. Il segreto profondo della vita di Gesù sta nel suo rapporto con il Padre, che egli chiama volentieri Abbà. Il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico dei Vangeli è la relazione tra Gesù e il Padre. Spiega J. Ratzinger, introducendo il primo volume del suo Gesù di Nazareth, che

“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi[11].

La relazione incomparabile di Gesù con il suo Abbà illumina e spiega la novità inaudita del suo insegnamento e il coinvolgimento dei discepoli, che propriamente saranno chiamati ad entrare anch’essi, per grazia, in questa filialità: figli nel Figlio. Non sarebbe possibile, eliminando questo legame o mettendolo in disparte, cogliere l’originalità di Gesù, che si può invece percepire in ogni pagina di Vangelo. Per questo Francesco ci invita con forza ad abbeverarci alla fonte della Parola di Dio, perché

tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio “diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale”.
L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria. Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente “Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso”. Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata[12].

Per essere missionari bisogna prima mettersi alla scuola del Signore Gesù: è questo in fondo il senso proprio del discepolato! La missione cristiana non s’improvvisa e senza un’adeguata contemplazione e formazione non siamo altro che dei “dilettanti allo sbaraglio”, missionari senza radicamento in Dio, annunciatori di qualcosa che non abbiamo accolto né assimilato!
L’evangelizzazione – che viene concretizzata storicamente dall’azione pastorale – non è solo in continuità storica rispetto alla rivelazione, ma è generata da quest’ultima. La rivelazione non è solo il suo inizio contingente, ma la sua origine permanente. Ciò significa che non è mai possibile essere missionari separandosi dallo stile, dal metodo e dai contenuti della rivelazione cristologica. Per questo la pastorale, se non affonda le sue radici nella spiritualità e non si sostiene al tronco della formazione, è un albero che non potrà mai portare frutto.
Ecco allora una seconda domanda importante che condivido con i lettori, e da cui invito a partire in questo anno 2024: siamo una comunità che si lascia evangelizzare, prima di divenire evangelizzatrice? Oppure presumiamo di essere missionari senza essere discepoli, ovvero senza un serio cammino di contemplazione, conversione e formazione?

NOTE

[1] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 27.
[2] Cfr. Mc 3,21; Gv 10,20.
[3] Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit del 25 marzo 2019, nn. 163-164.
[4] Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium del 27 dicembre 2017, n. 3.
[5] Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio del 15 settembre 2018, n. 1.
[6] Francesco, Costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 27 dicembre 2022, n. 3.
[7] Francesco, Lettera apostolica in forma di “motu proprio” Ad theologiam promovendam del 1 novembre 2023. «Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo» (ivi).
[8] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 120.
[9] Come esempio recente ci basti vedere, anche solo a livello statistico, come nella Relazione di sintesi della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi al termine della Prima Sessione (4-29 ottobre 2023), compaiano per circa 110 volte i termini che si riferiscono alla missione e invece meno di 15 volte quelli che si riferiscono al discepolato.
[10] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8 dicembre 1975, n. 9; Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 12.
[11] J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano 2007, 10.
[12] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, nn. 174.175.

 

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Note di Pastorale Giovanile: le nuove rubriche 2024

Un primo assaggio delle nuove rubriche per il 2024 di Note di Pastorale Giovanile.

I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale
Luigi Amendolagine

Come ci ha insegnato il Sinodo del 2018, la parola dei giovani è anche oggi, all’interno della Chiesa, l’opportunità di mettersi in ascolto di Dio, per rinnovare le pratiche pastorali ed essere all’altezza dei cambiamenti che lo Spirito chiede alla Sposa di Cristo. Affermare che i giovani sono un “luogo teologico” ci impegna, anche dal punto di vista scientifico, ad ascoltare la voce dei giovani e a riflettere sulle loro parole.
Nella rubrica “I sogni dei giovani per una Chiesa sinodale” nei primi tre articoli presenterò in maniera sintetica quello che i giovani del Sinodo, in particolare della Riunione presinodale, hanno voluto comunicare ai padri sinodali, la loro visione di Chiesa, i loro desideri, le loro aspettative. Negli altri cinque articoli invece proverò, sulla base delle provocazioni offerte dai giovani della Riunione, ad immaginare la necessaria conversione ecclesiale che possa consentire oggi alla Chiesa di essere autenticamente a servizio con e per i giovani.
Ecco il percorso che faremo insieme:

1. Sfide e opportunità dei giovani nel mondo di oggi
2. Fede e vocazione, discernimento e accompagnamento
3. L’azione educativa e pastorale della Chiesa
4. Conversione educativa della nostra azione ecclesiale
5. Conversione evangelizzatrice della nostra azione educativa
6. Conversione sinodale della nostra azione evangelizzatrice
7. Conversione vocazionale della nostra azione sinodale
8. Conversione spirituale della nostra azione vocazionale

Strumenti e metodi per formare ancora
Gigi Cotichella – Agoformazione

Il tema della formazione è quanto mai particolare nel nostro mondo. Tutto in fondo, è formativo. Eppure, sembra sempre più difficile trovare studi, appunti, strumenti sulla formazione proprio per il nostro mondo.
Vogliamo provarci noi, con un taglio esistenziale che metta insieme teoria e prassi, riflessione e azione, in modo che ognuno prenda quello che gli serve in base a ciò di cui ha bisogno.

1. La formazione nella pastorale
2. Formare con il gioco e con i giochi
3. Formare con le immagini
4. Formare con la scrittura
5. Formare con le arti sceniche
6. Formare con la manualità
7. Formare con i film e con le serie
8. Formare adolescenti, formare giovani

Saper essere: le competenze trasversali nei contesti educativi
A cura di Alessandra Augelli

In un incrocio tra cosiddette soft skills e life skills, verranno analizzate le capacità dell’educatore (e del “pastore”) nell’incontro e cura delle persone e delle situazioni usuali e quotidiane della vita.

0. La trama invisibile: le competenze trasversali nella formazione
1. Consapevolezza di sé – fiducia in se stessi
2. Gestione delle emozioni
3. Gestione dello stress
4. Comunicazione efficace e ascolto attivo
5. Empatia
6. Creatività e pensiero divergente – flessibilità
7. Pensiero critico – Spirito di iniziativa – leadership
8. Decision making – autonomia
9. Problem solving – Pianificare e organizzare
10. Riflessività, apertura alla ricerca, apprendimento in itinere
11. Valutare e riconoscere le competenze trasversali in oratorio e nelle comunità pastorali

Per una “buona” politica
A cura del Gruppo “Strade e pensieri per il domani”
(giovani di Como, Milano, Valtellina) *

0. Formarsi alla politica
1. Riscattiamo la politica
2. Leggere la complessità
3. Pensare globale e agire locale
4. Sguardo dal basso
5. Dialogo e non violenza
6. Sviluppo sostenibile
7. Informazione pulita

* Autori del libro È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi (Paoline, 2023)

Ricchezza e problematicità dell’umano nella letteratura contemporanea
Giuseppe Savagnone

Da sempre la letteratura è uno specchio significativo della ricchezza e della problematicità della vita umana.
Ed è sotto questo profilo, piuttosto che dal punto di vista meramente estetico, che noi ci accosteremo ad alcune delle opere letterarie che ci sembrano particolarmente significative per il nostro tempo. Il nostro tentativo sarà, in primo luogo, di comprendere meglio, attraverso di esse, noi stessi, la nostra vita.
Perciò nello sceglierle non ci ha guidato altro criterio che la loro capacità parlare della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo e di illuminarne il significato, nella fiducia che in questo specchio possiamo comprendere un po’ meglio di ciò che siamo e viviamo.
– Cominceremo con un romanzo che ha avuta un enorme successo alla fine del Novecento e che si presenta come un “manifesto” dell’epoca post-moderna di cui siamo protagonisti, L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
– Passeremo poi a un’opera del tutto diversa, Il mondo nuovo, di Aldous Huxley, che, scritto nel 1932, costituisce una straordinaria profezia del volto che la nostra società ha assunto.
– Continueremo con un romanzo che risale alla fine dell’Ottocento, Delitto e castigo, il cui autore, Fëdor Dostoevskij, è unanimemente considerato, oltre che uno dei massimi geni della storia della letteratura mondiale, un anticipatore dei problemi e della sensibilità della nostra epoca attuale.
– Saranno poi le vostre reazioni a guidarci nella scelta dei testi successivi. Per adesso, buona lettura.

 

(prosegue)
Abitare la Parola ‒ incontrare Gesù

Guido Benzi

Desideriamo indagare, attraverso il Vangelo, cosa significa un autentico «incontro con Cristo»; seguiremo dunque Gesù e analizzeremo il suo stile, il suo modo di incontrare diversi tipi di persone, mescolandoci tra di loro per poter così fare anche noi il «nostro» incontro con Lui.

1. Giovanni il Battista incontra Gesù (Gv 1,19-36)
2. Andrea, Pietro, Filippo e Natanaele incontrano Gesù (Gv 1,35-51)
3. Nicodemo incontra Gesù (Gv 3,1-21)
4. La samaritana incontra Gesù (Gv 4,1-30)
5. Il funzionario del re ed il suo bambino incontrano Gesù (Gv 4,46-54)
6. Il paralitico incontra Gesù (Gv 5,1-18)
7. La folla incontra Gesù (Gv 6,1-15)
8. L’adultera incontra Gesù (Gv 8,1-11)


(prosegue)
Pastorale giovanile come apprendistato alla vita cristiana

Marcello Scarpa

Viviamo un tempo di rapide trasformazioni culturali, sociali, mediatiche, un cambiamento d’epoca segnato dalla fine del cristianesimo “sociologico”, dal passaggio da un cristianesimo di “tradizione” a uno di “convinzione”. La famiglia, la scuola e la società non sono più il grembo generatore della fede dei ragazzi; i giovani, anche se hanno frequentato i percorsi d’iniziazione cristiana, non conoscono più i codici linguistici della fede, vivono un analfabetismo religioso sproporzionato rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione.
Consapevoli che qualsiasi proposta pastorale non può mai essere completa ed esaustiva, nella rubrica si proporrà un percorso di re-iniziazione dei giovani alla fede cristiana che si articola in otto punti. Dopo un primo numero d’introduzione al tema, si lascia spazio alle parole di papa Francesco che “annunciano” la possibilità di una vita diversa, perché ispirata dal Vangelo. Nei numeri successivi proporremo alcune esperienze di vita cristiana che ruotano intorno

– alla Scrittura
– al linguaggio liturgico
– a quello della carità
– della custodia del creato
– alle responsabilità della vita adulta
– e della missione

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Giovani, digitale e pastorale giovanile Intervista a Gildasio Mendes Dos Santos

Da Note di Pastorale Giovanile.

***

A cura di Bruno Ferrero, direttore del Bollettino Salesiano **

Il multitasking, l’uso simultaneo di diversi media, è aumentato in media dal 16 al 40%. In sintesi, siamo sempre più abituati a usare tutti i device contemporaneamente e tale immersione digitale. Si puoi dire che sta ormai cambiando anche il modo in cui apprendono i ragazzi?

Per rispondere a questa domanda, vorrei sottolineare prima di tutto il termine “immersione digitale”. Come è ben noto con il digitale entriamo nel cosiddetto mondo del cyberspazio e dell’infosfera. Quando entriamo in Internet, questo immenso universo di reti, siti web e migliaia di strade virtuali siamo di fronte a un universo senza limiti, come se avessimo perso il senso della territorialità.
Cosa è l’infosfera? È un universo costituito dalla totalità degli oggetti e delle informazioni nelle loro varie tipologie che interagiscono dinamicamente tra loro. In questo ambiente un vero e proprio acquario è come se fossimo completamente immersi.
Se prima conoscevo il mio paese, la mia città e i miei vicini, ora giro il mondo attraverso il mio telefonino collegato ad internet. Nel mondo digitale, veniamo coinvolti a livello cognitivo ed emotivo in questo vastissimo universo di immagini e suoni che permettono l’interattività, la partecipazione e il coinvolgimento con persone e oggetti. Prendiamo ad esempio lo shopping online. Entrare in uno shopping online è una prova di immersione. E’ praticamente vivere un’esperienza sensoriale, dove tutto è realizzato attraverso un semplice click, conferma.
Quando mi connetto con il mio telefono, c’è un’interazione umana con la macchina che ci permette di entrare nel virtuale, che potremmo chiamare mediazione umana virtuale. Questo comporta l’uso dei nostri sensi, delle nostre percezioni, della nostra immaginazione e delle nostre emozioni. Attraverso la mediazione (io e la macchina), abbiamo accesso a un universo reale che viene codificato (digitalizzato) e vissuto a distanza. L’immersione nel digitale impatta direttamente sulla nostra vita e i nostri rapporti sociali e culturali.

Pertanto, dobbiamo dire che internet sta cambiando il nostro cervello e il nostro ritmo di vita?

Poiché Internet consente velocità, istantaneità e interattività, il nostro cervello entra ovviamente in una nuova dinamica ed inizia a rispondere a questa accelerazione cerebrale, a una maggiore attivazione del sistema nervoso e di conseguenza al coinvolgimento dei cinque sensi. In tal modo entriamo in quello che possiamo chiamare il cervello collettivo (cyberspazio), che è una forma di elaborazione di segni (simboli, linguaggi, suoni) e stimoli.
Tutto questo è inconscio. In realtà siamo all’interno di un universo con una logica numerica e matematica; uno spazio virtuale, una vera e propria psicosfera. In parole semplici, la psicosfera è lo stato affettivo e cognitivo che sperimentiamo quando la nostra mente è alterata; elementi non materiali di informazione che influenzano i nostri pensieri e sentimenti senza che noi siamo consapevoli della loro realtà.

Ancora sul multitasking. Possiamo dire che il continuo multitasking riduce la qualità del lavoro, modifica l’apprendimento, crea individui superficiali?

Dobbiamo a questo punto mettere a fuoco un’altra cosa importante. Nel digitale impariamo a vivere con una nuova logica, in cui riflettere, pensare, meditare, come solitamente facevamo, risulta ora al contrario quasi un automatismo. Perché questo? Perché la logica digitale si basa molto sugli stimoli, sulle reazioni neurologiche e su come il nostro cervello risponde a questa logica.
Possiamo dire al riguardo che tutte le immagini, suoni, parole e l’interattività che sperimentiamo in una rete sociale hanno effetti sul nostro cervello impattando direttamente sulle nostre percezioni, sul nostro immaginario, sui comportamenti e di conseguenza sulle nostre scelte sia a livello cosciente che incosciente.

Allora, si tratta dunque di capire come funziona la logica digitale.

Certo! A mio avviso, comprendere questa logica digitale è importante per capire cosa succede con il nostro comportamento nell’habitat digitale. L’accelerazione del cervello, l’intensità delle emozioni, l’esposizione della nostra vita emotiva all’interno dei social network ci collocano in un universo in cui questo nuovo meccanismo mentale richiede molti stimoli, molte reazioni e velocità. Non stiamo assolutamente dicendo che il mondo e la logica digitale siano cattive abitudini. Siamo parte del mondo digitale e siamo consapevoli dei benefici che questo offre all’umanità e allo sviluppo umano. E’ importante capire come funziona l’interazione umana con il digitale ed è proprio per questo che è importante un’educazione ad un’etica che ci aiuti a vivere in modo sano e creativo.
Quindi partendo dalla logica del digitale, che cos’è il multitasking? Nel multitasking il cervello viene addestrato a eseguire cognitivamente ed emozionalmente molte cose allo stesso tempo. Il cervello deve rispondere all’automazione, agli stimoli velocemente. Così si vive, si impara e si fanno cose diverse in base a come si comporta il cervello. Alcuni studi indicano che l’eccessiva automazione fa perdere alle persone la capacità di creare, di pensare e di riflettere in profondità. Dalla logica digitale nasce una nuova intelligenza come ad esempio la nota intelligenza artificiale.
A questo punto vale la pena ricordare che la logica digitale, che è basata sulla tecnica e sull’automatismo, segue gli stimoli che le neuroscienze hanno sviluppato, dando pochissima importanza alla questione della coscienza. Questa logica cambia pertanto il modo di apprendimento generando superficialità nel pensiero, difficoltà di riflettere in modo sistematico, integrato e coerente.
Per questo il problema non è il multitasking in sé, ma educare le persone a capire come funziona la logica digitale, approfondire i valori e l’importanza della coscienza nelle scelte e nelle decisioni. È attraverso la consapevolezza che si educano la libertà, il rispetto per gli altri, il senso della sacralità del corpo e il valore della sessualità.

È d’accordo con questa affermazione: “Credo che l’effetto più dannoso del mondo digitale sia la dipendenza del genitore dai media digitali, che finisce per diventare dipendenza dei figli”? Quanto conta l’esempio che danno gli adulti (perennemente con il naso nel loro smartphone)?

Rispondo a queste due domande dicendo prima di tutto che siamo tutti cittadini del mondo digitale. Siamo tutti immersi in questa realtà a livello fisico, emotivo e sociale. Viviamo in questo habitat digitale giorno e notte. Parliamo con le persone al telefono, registriamo e inviamo video, facciamo acquisti, gestiamo i nostri conti bancari, i documenti, viaggiamo, gestiamo i nostri progetti di lavoro, le agende aziendali, l’istruzione e l’intrattenimento. In questo senso, viviamo in una vera e propria realtà digitale. E non dobbiamo assolutamente separare il mondo reale da quello virtuale.
Viviamo al giorno d’oggi in due tempi che si intersecano e si completano a vicenda. Genitori e figli vivono e crescono nella realtà digitale, che è un vero mondo nuovo.
Se viviamo in un mondo digitale, dobbiamo fare molta attenzione quando parliamo di dipendenza digitale. Finora non c’è stata un’opinione comune da parte degli specialisti delle nuove tecnologie e delle comunità internazionali di psicologia e psichiatria sulla dipendenza psicologica da Internet. La Chiesa stessa non menziona tale dipendenza in nessuno dei suoi documenti.
Il tema della dipendenza a livello psicofisico è molto complesso e coinvolge molti fattori. Facciamo un esempio: un giovane che finisce l’università, cerca un lavoro e non lo trova. Nella sua dimensione personale si sente inutile e soffre psicologicamente di problemi di autostima, allontanamento dagli amici e difficoltà a costruire la propria vita. Se questo giovane passa tutto il giorno su Internet, isolandosi dai suoi amici, ci chiediamo: qual è la causa principale del suo isolamento e dell’uso eccessivo dei social network? In questo caso, la mancanza di lavoro è sicuramente il fattore che causa lo squilibrio emotivo e sociale.
Evidentemente non stiamo incolpando il digitale e neanche negando la responsabilità personale di ogni persona (capace di fare la propria scelta liberamente). Dobbiamo pertanto analizzare attentamente ogni caso per discutere e valutare le situazioni su come vivere in un ambiente digitale sano.
Poiché l’argomento è così nuovo per i ricercatori, dovremmo sempre guardare questo tema dal punto di vista dell’interdisciplinarità, di come le varie scienze possono collaborare per comprendere le diverse manifestazioni della dipendenza. In questo modo, evitiamo di usare il termine dipendenza solo per il digitale. In alcune situazioni particolari, il tema del digitale può essere utilizzato anche come fattore di causalità o correlazione, ma dobbiamo evitare di generalizzare.

Come affrontare il tema della pornografia?

Vorrei rispondere a questa domanda facendo tre affermazioni che possono aiutarci ad affrontare questa situazione in modo educativo, tenendo conto della psicodinamica umana e di ciò che la Chiesa ci insegna.
Partendo dalla prospettiva del digitale, ritengo che i genitori e gli educatori siano chiamati ad affrontare inizialmente la questione della pornografia dal punto di vista della logica del digitale come la questione dell’accelerazione psicologica e psico-fisiche che viviamo all’interno del mondo digitale. Partendo da questa visione, possiamo porci alcune domande: cosa succede a livello psicologico con un adolescente che si espone al mondo digitale in modo continuo e intenso? Cosa accade a livello fisico ed emozionale con la conseguente accelerazione del suo cervello, con i suoi aspetti cognitivi ed affettivi, sull’ansia, la paura, l’insicurezza e conseguentemente con la sessualità? Cosa fa questo adolescente, con pieno accesso a tutte le logiche del mondo digitale con così tante immagini e video a gestire i suoi sentimenti, emozioni, desideri, ormoni e così via?
Viviamo oggi quello che prende il nome di iper sessualizzazione, una nuova realtà nel mondo digitale. L’iper sessualizzazione si manifesta nella iper esposizione del corpo, della performance, del potere e del successo che inducono gli adolescenti e giovani a sperimentare la sessualità attraverso gli stimoli. Nella logica digitale, come abbiamo detto, gli stimoli governano l’immaginazione e le azioni. È quindi importante che i genitori e gli educatori parlino con gli adolescenti e i giovani su come funziona la logica digitale nel contesto dei social network e di Internet. In primo luogo, per comprendere queste dinamiche e approfondire i valori umani e cristiani della sessualità.
Un secondo argomento è l’aspetto fisico che si riferisce all’ideologia che guida il mondo digitale, internet e i social network e al modello di persona umana che viene proposto in questo universo. Il simbolismo e i segni che vengono utilizzati in modo subliminale dalla pubblicità rendono le persone consumatori affamati. C’è tutta una pubblicità che è presente per gli adolescenti e i giovani. Sono strategie di consumo con prodotti che portano il loro impiego fino al punto di essere praticamente “divinizzati” e dove le persone vivono consumando attraverso continui e intensi messaggi. Tutto ciò arriva con immediatezza nel mondo digitale creando un circolo vizioso attraverso un desiderio di consumo continuo e inarrestabile.
Tendenzialmente questa dinamica di accelerazione dei sentimenti, delle emozioni e dell’immaginazione rende le persone indifferenti al loro mondo di consapevolezza critica e riflessione.

Sta dicendo, dunque, che il digitale stimola le persone a entrare in un circolo di costante consumo di sesso.

Alienarsi dai propri sentimenti e vivere l’insoddisfazione nel consumo di beni in modo esagerato e accelerato influisce direttamente sulla sessualità, portando la persona a trasferire questa stessa dinamica al sesso. Stiamo quindi parlando della risposta della sessualità agli stimoli, dell’accelerazione del cervello, dei desideri, della libido e della ricerca di un ambiente (digitale) che offra questi prodotti e un tipo di stile di vita che permetta ed esalti questo costante consumo di sesso.
In altre parole: c’è il rischio che le persone cerchino il sesso senza considerare l’intero aspetto della sessualità umana, che coinvolge i sentimenti, l’amore, i valori, la coscienza, la responsabilità verso gli altri e la fedeltà alla persona.
A volte questi stimoli sono rafforzati dall’uso di suoni che amplificano i desideri e la libido. Altre volte, l’uso di alcune sostanze chimiche, psicotrope, droghe e alcol, porta i giovani a vivere situazioni estreme di perdita di senso, di radicalità verso sé stessi e gli altri, perdendo totalmente il controllo emotivo. Tutto questo diventa per loro un’attrazione a guardare la pornografia come un modo per liberarsi.
Naturalmente la pornografia esisteva anche prima della digitalizzazione e di Internet. Dobbiamo anche ricordare che il tema della pornografia è anche legato a questioni formative, a disturbi psicologici e a realtà culturali, sono queste tematiche complesse che meriterebbero un approfondimento ulteriore.
Seguendo le indicazioni della Chiesa è fondamentale educare a una sessualità matura partendo dall’amore donato, costruendo un progetto di vita in cui la sessualità sia vissuta nella sua interezza come dono responsabile.
La Chiesa cattolica, attraverso il catechismo e gli insegnamenti sulla morale e sulla sessualità, presenta una sicura antropologia e psicologia di come vivere la sessualità e crescere in modo integro e maturo come persona umana che ama e vive la propria sessualità in modo sano e responsabile. “La sessualità esercita un’influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell’unità del suo corpo e della sua anima. Essa concerne particolarmente l’affettività, la capacità di amare e di procreare, e, in un modo più generale, l’attitudine ad intrecciare rapporti di comunione con altri” (2332).

I figli sono consapevoli che per i genitori (e gli educatori) è più importante trascorrere del tempo con loro, piuttosto che tenersi al passo con i social media o rispondere alle email?

Credo che la responsabilità di vivere nel mondo digitale rientri tra i compiti di genitori e figli. Siamo tutti chiamati a educarci per vivere in modo sano, più umano e fraterno all’interno dell’universo digitale. È quindi una questione di dialogo, di ascolto, di amore. Un adolescente che vive in una famiglia e sente il focolare dell’amore avrà un punto di riferimento affettivo importantissimo per crescere con senso etico nel mondo digitale.
Noi sappiamo che nonostante i giovani siano abili a navigare nel digitale, cercano comunque la nostra amicizia, il nostro ascolto, il nostro affiancamento come compagni di viaggio ed educatori. Noi dobbiamo imparare con i giovani e camminare al loro fianco.

Ha mai avuto esperienze di cyberbullismo o conosce qualcuno che ne abbia avute?

Sì, ho visto alcuni casi di cyber-bullismo, soprattutto tra gli studenti delle scuole medie. Questo argomento è legato a quanto ho detto prima sulle reazioni intense e talvolta irrazionali causate dagli stimoli aumentati dalla tecnologia digitale. Anche in questo caso, la persona è sempre responsabile delle proprie azioni. Spesso il cyberbullismo dipende dall’educazione della persona, da problemi di natura psicologica, ma la tecnologia diventa nelle mani della persona un pericolo che minaccia l’altro.
Ricordiamoci sempre che uno dei problemi seri del mondo digitale è il potere. Il potere di sedurre, manipolare, mentire, provocare odio e violenza contro gli altri. Ecco perché l’educazione etica alla vita nel mondo digitale è una questione della massima urgenza nelle scuole e nelle nostre famiglie.

In che modo, come educatori, potremmo avere più spirito d’iniziativa e dipendere meno da videogame e programmi Tv per tenere occupati i ragazzi?

Considerando che viviamo in un mondo digitale e che la televisione, internet e i social network siano tutti collegati, non credo che limitare l’uso dei media sia educativo. Impedirgli di giocare ai video game e trovare un’altra attività per tenerli occupati può produrre un minimo risultato. Il punto non è limitare o evitare, ma educare ad un uso creativo, sano, responsabile ed etico. Ogni famiglia deve pensare a come creare uno stile di vita sano e in equilibrio con i propri figli all’interno dell’habitat digitale.

È ipotizzabile una pastorale per nativi digitali?

Sappiamo che gli adolescenti e i giovani vivono intensamente il digitale. Il loro mondo è una rete di immagini, di suoni e di interattività. Sono nativi di una realtà dove reale e virtuale sono una cosa sola e dove l’immaginazione parla un linguaggio multidimensionale. Per loro, Internet e le reti sociali sono luoghi di studio, di ricerca, di promozione personale e professionale, di amicizie e di intrattenimento. In questo universo sono presenti anche grandi sfide. Il digitale rispecchia il complesso scenario economico, politico e sociale, dove povertà, violenza, guerra, indifferenza verso gli altri, individualismo, ingiustizie, mancanza di lavoro e crisi climatica costituiscono una minaccia per il presente e per il futuro.
In questo contesto, preferisco parlare di abitanti digitali piuttosto che di nativi digitali. È vero che i nativi digitali crescono con una mentalità e un comportamento tipicamente nuovo, come l’uso del linguaggio digitale, la logica digitale, il fare più cose contemporaneamente, il rispondere emotivamente e socialmente alla velocità e all’istantaneità di Internet.
Ma quando parliamo di pastorale, credo che l’importante sia partire da ciò che ci insegna il Vangelo: la scelta sentita ed esistenziale della persona di Gesù Cristo e dei suoi insegnamenti: ciò che la Chiesa ci propone per essere fratelli e sorelle. In una comunità parrocchiale ad esempio, si possono coinvolgere le persone nella pastorale della Chiesa legandole ad un progetto condiviso sia a livello affettivo che effettivo eleggendoli a membri di una comunità.
Un secondo aspetto importante dell’evangelizzazione digitale è quello di proporre azioni concrete per gli adolescenti e i giovani, affinché possano praticare la vita cristiana sulla base di ciò che la Chiesa insegna nel campo della morale sociale, ad esempio: vivere concretamente la carità con i più poveri, i malati, gli anziani, coinvolgersi in progetti per discutere e trasformare le realtà ingiuste e contrarie alla vita che troviamo ovunque.
Ad esempio, quando un gruppo di giovani si riunisce per pregare, cantare, giocare per poi postare dei progetti sociali che loro realizzano ad esempio a favore dei migranti, dei rifugiati, dei malati, si sta evangelizzando attraverso il digitale. Pertanto comunichiamo a partire dal vissuto e dalla testimonianza. Nel mondo digitale le parole non sono sufficienti, c’è urgenza di azioni concrete.

Come considerare eppure le persone che fanno parte del chiamato divario digitale?

Come cristiani è importante inoltre ricordare che quando parliamo del mondo digitale assistiamo ad una dura realtà: circa 3,8 miliardi di persone nel mondo non hanno ancora internet. Il digitale divide è una triste realtà per tante persone che non hanno accesso all’informazione e alla comunicazione via internet. È una questione di giustizia sociale: il diritto di comunicare è per tutti gli esseri umani.
Mentre il mondo diventa sempre più digitale e virtuale, tutti noi abbiamo la responsabilità di approfondire, con i nostri educatori, le linee guida per stabilire un rapporto sano tra le persone e la tecnologia, con una particolare attenzione alla cura per il creato, alla dignità e ai diritti, all’etica dell’economia e della politica. L’obiettivo è custodire la Casa Comune attraverso la fraternità, come ha proposto Papa Francesco a partire dall’Enciclica “Laudato Si’” [1] e dal “Patto Educativo Globale” [2].

Lei ha scritto: «Come esseri umani, indipendentemente dalla nostra cultura, lingua o età, siamo na¬turalmente inclini a fidarci dei comunicatori che parlano dal cuore, che collegano le loro parole e i loro sentimenti in modo coerente, che sono effettivamente presenti, che non hanno paura di sviluppare relazioni reali e vere (pag 46)». Come si può applicare?

Con Internet, le nostre relazioni sono diventate una vera e propria torre di Babele. Sappiamo che le reti sono luoghi di grano e pula che crescono insieme. Non possiamo avere una visione innocente del mondo digitale. Inoltre, nel mondo digitale abbiamo tutte le sfide della violenza emotiva e sociale, dell’incitamento al discorso all’odio, dell’ideologia del consumismo sfrenato, di ogni tipo di ideologia. Pertanto, per relazionarci nel mondo digitale, abbiamo bisogno di alcuni principi chiari.
Penso che il punto di partenza per avere buone relazioni attraverso internet e i social network sia comunicare con persone che si conoscono, che hanno valori e progetti comuni, che hanno un’etica e si impegnano reciprocamente. Vale a dire, prima l’esperienza concreta, vissuta, provata, con le persone che poi continueranno queste relazioni attraverso il digitale.
In alcuni casi può funzionare anche il contrario. Ovvero, avviare un gruppo con persone che non si conoscono. Però c’è Il rischio per l’anonimato, la sicurezza personale e la privacy. E’ sempre rischioso quando una persona si unisce a un qualsiasi gruppo e inizia a parlare di sé, delle sue cose private, senza sapere come queste informazioni saranno utilizzate.

Lei ha affermato in un articolo che ha scritto recentemente “che l’ arte è il cuore della comunicazione”. Cosa significa dicendo questo?

Si, è vero. Ricordiamo che il nostro padre e fondatore Don Bosco suonava il piano, cantava, utilizzava di modo meraviglioso il teatro per educare.
Un modo per creare una rete di comunicazione tra i giovani, ad esempio, potrebbe essere l’arte. Credo molto nel potere ispiratore e nella capacità dell’arte di unire le persone, di creare legami, di coinvolgerle in progetti autentici e reali.
L’arte è il cuore della comunicazione umana. Quando parliamo di arte, si fa riferimento alla musica, alla danza, alla letteratura, al teatro, alla pittura e a numerose altre manifestazioni artistiche. In un certo senso, tutte le persone, indipendentemente dalla loro condizione economica, sociale, culturale ecc., fanno esperienza della realtà artistica.
Tutte le forme di arte sono un linguaggio visivo dei sentimenti e dei desideri della persona. L’arte permette inoltre a ciascuno di definire o conquistare il suo spazio sociale e politico all’interno della comunità umana. Mediante la diversità dei suoi linguaggi, l’arte fa sì che l’essere umano possa manifestare le sue emozioni, i suoi valori, la sua fede e la sua visione del mondo.
A mio avviso, approcciare i giovani per far loro imparare alcuni tipi di arte e sport è un modo creativo di educare per abitare il digitale.

Come deve essere una scuola salesiana nel contesto digitale?

La scuola salesiana è un luogo privilegiato e speciale per educare bambini e giovani, in qualsiasi realtà culturale del mondo. Innanzitutto, ci sono i valori del sistema preventivo, il valore dell’amore, dell’amicizia, del dialogo, della riflessione, l’importanza di Dio e della religiosità, con i suoi simboli, i suoi riti e le sue esperienze di preghiera, liturgia, canto e servizio per gli altri. L’educazione salesiana ha un ambiente educativo che permette il movimento, lo sport, la musica, la danza, il contatto amichevole con gli educatori, di esperienze educative e culturali.
La scuola salesiana, partendo da questa base umana cristiana, può e deve sviluppare l’educazione digitale, riflettendo con i giovani su come funziona il mondo e la logica digitale. E in questo universo capire come vivere in modo equilibrato e libero come persona e come cristiano all’interno del cyberspazio, dell’infosfera, prendendosi cura di sé all’interno della psicosfera.

Può darci un esempio su questo?

Certo! Ad esempio, un giovane che capisce come funziona la logica digitale, saprà cercare momenti per imparare uno strumento musicale, fare danza, fare sport, cucinare, fare attività fisiche, cercare momenti di contatto con la natura, passare del tempo con le persone, guardare negli occhi. Perché? Perché sa che il tempo della logica digitale non offre tutto questo. Quindi, questo giovane sta imparando che il tempo naturale deve essere vissuto con il suo ritmo, nella sua gratuità, nella sua bellezza. Questo non significa sdoppiarsi con la logica del tempo digitale, ma sapersi collocare educativamente all’interno dell’infosfera e del cyberspazio.
I giovani che sanno come collocarsi criticamente all’interno dell’universo digitale diventano più creativi. Saranno loro a diventare più liberi di imparare, di riflettere, di pensare in modo più significativo e profondo facendo scelte migliori per la loro vita, per la loro salute fisica ed emotiva sviluppando in questo modo la loro spiritualità per utilizzare il mondo digitale in modo creativo, sano e imprenditoriale.

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Il filo di Arianna della politica: le Istituzioni

Da Note di Pastorale Giovanile di dicembre.

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di Raffaele Mantegazza

Come parlare

Lo Stato, la Scuola, la Magistratura… si scrivono con la lettera maiuscola. Lo impariamo alla scuola primaria. Sì, ma perché? Spesso si risponde “per rispetto”. È vero. Ma anche il mio nome, Marco, Sara, Mohamed si scrive con la maiuscola. Perché anch’io merito rispetto, perché io sono un cittadino o una cittadina e solo se mi riconosco tale posso rispettare le istituzioni, così come le istituzioni garantiscono i miei diritti di cittadino.
Spesso si sorvola sul fatto che dopo aver enunciato i 12 principi fondamentali la nostra Costituzione inizia a presentare il progetto e il sogno di una democrazia compiuta non passando direttamente alle istituzioni, ma partendo dai diritti e doveri dei cittadini. Uscendo dal ventennio fascista nel quale esisteva solo lo Stato e non esistevano i cittadini, la Costituente fa la scelta opposta: lo Stato esiste soltanto laddove esistono i cittadini, e per formare le istituzioni, che sono ovviamente presentate in modo molto preciso nella parte successiva del testo, occorre prima di tutto formare i cittadini. Solo così le istituzioni potranno essere qualcosa nel quale le persone si possono riflettere e riconoscere, proprio nel senso del ri-conoscere, del conoscere di nuovo chiamandole per nome come sono abituati a sentirsi chiamare.
Ovviamente la prima istituzione con la quale un bambino o una bambina vengono a contatto è la scuola: occorre sempre ribadire che si tratta di un’istituzione e non di un servizio a domanda individuale La scuola è collettività, comunità, e da questo punto di vista occorre essere molto chiari anche con le famiglie. La scuola non è una macchinetta del caffè che distribuisce bevande a “mio figlio”, ma essa immette mio figlio in una collettività e in una comunità che gli permetterà di crescere come cittadino, superando anche i suoi egoismi, e esaltando la sua individualità non a scapito di quella degli altri ma in continuo colloquio con loro.
Ma le istituzioni, se devono essere riconosciute a livello emotivo dai cittadini e soprattutto dai giovani, non possono presentare solamente un volto arcigno e punitivo; occorre che esse si presentino anche con uno sguardo amichevole, tenero, protettivo, perché lo Stato non è un avversario da abbattere o un nemico da sconfiggere e men che meno qualcuno da ingannare con qualche mezzuccio, ma un abbraccio protettivo che difende i deboli dalle angherie dei prepotenti. Questo però significa anche educare a uno sguardo critico nei confronti delle istituzioni: se un atto di violenza o di prevaricazione è sempre negativo, lo è ancora di più se proviene da un funzionario dello Stato, perché oltre ad essere illegittimo rende le istituzioni ancora più distanti dai cittadini.

Come pensare

Opera analizzata: brano tratto dalla Panpaedia di Comenio e canzone “Era la terra mia” di Ron.

La scuola deve essere: un pubblico sanatorio, una pubblica palestra, un pubblico parlatorio, un pubblico centro di illuminazione, un pubblico laboratorio, una pubblica fabbrica di virtù, una immagine dello Stato, una piccola amministrazione piena di esercizi per la condotta della casa una piccola repubblica, una piccola chiesa, un piccolo paradiso pieno di delizie e di passeggiate amene, di spettacoli e di colloqui sia improvvisati per divertire sia intorno agli argomenti proposti per indurre alla riflessione. E poi dibattiti per chiarire questioni, e redazione di lettere, e infine rappresentazioni di drammi per procurarsi un’onesta libertà di parola.

Quanto di questo brano risalente al XVII secolo è ancora attuale? Quanto crediamo veramente che la scuola possa assomigliare al sogno di Comenio? E quanto invece oggi la scuola presenta un aspetto quasi opposto, rischiando di far fuggire i ragazzi dalle istituzioni e di farle loro considerare come nemiche?

Proviamo a confrontare la frase di Comenio con il testo di questa canzone, scritto da un bambino di otto anni e musicato da Ron.

Era la terra mia

7 in comportamento
Un 5 in aritmetica
4 in lettura, eccetera
Mi salvo in geografia

È la pagella mia

Ma perché non me la prendo?
Conosco già la musica:
Le botte e poi la predica
Stasera a casa mia
Una burrasca e via
Invece di discutere
Ritornerei a Napoli
Ritornerei a Napoli
A stare con i miei nonni
Salto sul treno e via
Lungo la ferrovia
Sembrava così facile
Quando studiavo a Napoli
Capire la lezione
C’era più confusione
Ma c’era più allegria
Nella famiglia mia
Era la terra mia

Cosa fare

L’art. 54 della Costituzione recita “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.” Ma cosa significano quelle parole, disciplina e onore? Proviamo a far riflettere i ragazzi sui seguenti casi.

– Un ufficiale di Guardia di Finanza che fa battute maschiliste in pubblico.
– Un insegnante che viene a scuola con le infradito.
– Un magistrato che parcheggia l’auto in divieto di sosta.
– Un parlamentare che si fa fotografare nudo su una spiaggia su una rivista di gossip.
– Un Dirigente scolastico che dà del tu indiscriminatamente a tutti i genitori durante la riunione di presentazione delle nuove classi prime.

Come provare

Purtroppo nella scuola italiana solo con la secondaria di II grado i ragazzi hanno la possibilità di eleggere i loro rappresentanti. Ma la dimensione istituzionale può passare anche attraverso iniziative per insegnare ai bambini a riappropriarsi della città e agli adulti a considerare i bambini come cittadini.
– La multa dei piccoli: vere multe prestampate che i bambini possono lasciare sotto il tergicristallo delle auto parcheggiate in modo da impedire la viabilità, il gioco, l’accesso ai disabili o ai passeggini, ecc.
– Il negozio amico dei bambini: iniziativa consistente nel chiedere ai negozianti una serie di impegni concreti (un bicchiere d’acqua gratis a un bambino che ha sete, la possibilità di telefonare gratis per un bambino che si è perso o che ha bisogno di contattare un adulto, il fatto di dare la precedenza nel servire i clienti alle donne con bambini piccoli, alle donne incinte ecc., il fatto di esporre articoli che possano interessare i bambini su scaffali all’altezza dei loro occhi). Chi sottoscrive il patto ha una vetrofania come “negozio amico dei bambini”.
– La patente del pedone: un corso di scuola guida per bambini sui comportamenti da pedone con esame finale e patente; la stessa cosa può essere fatta con i ciclisti.

Cosa domandarsi

Come vivono i ragazzi la scuola? Come una istituzione, come una possibilità di aggregazione, come un centro erogatori di servizi? O in altro modo? Proviamo a chiedercelo insieme a loro evidenziando soprattutto gli elementi dell’istituzione (orari, regole, gestione degli spazi, abbigliamento) che dovrebbero essere pensati per far star meglio tutti coloro che vivono quotidianamente la scuola ma che spesso invece vengono vissuti solo come imposizioni.

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Presentazione della rubrica “Ricchezza e problematicità dell’umano nella letteratura contemporanea”

Da Note di Pastorale Giovanile di dicembre.

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di Giuseppe Savagnone

Da sempre la letteratura è uno specchio significativo della ricchezza e della problematicità della vita umana.
Naturalmente non è solo questo. In essa si esprime una dimensione estetica che la collega all’esperienza sempre nuova della bellezza e della creatività artistica. Ciò che accomuna le diverse forme letterarie – dal teatro, alla poesia, al romanzo – è la forza creatrice della parola che evoca dal nulla stati d’animo, personaggi, eventi, facendo acquistare loro una esistenza diversa, ma non meno reale, di quella che hanno gli esseri della natura.
Se la bellezza è «lo splendore dell’essere», come pensavano i medievali, la parola ha fin dalle origini dell’universo uno stretto rapporto con la sua luminosità. Nel racconto della Genesi la prima parola di Dio risuona nelle tenebre: «Sia la luce!», dice il Creatore. «E la luce fu» (Gn 1,3). «Solo nella creazione della luce Dio comincia a parlare» (H. G. Gadamer). E la sua Parola illumina il mondo e lo riempie di bellezza
Ma, grazie alla luce, si manifesta ciò che è nascosto. La parola umana, riflesso creato del Verbo divino, ha una relazione, perciò, oltre che con la bellezza, anche con la verità, in modo particolare con quella del soggetto che, immagine di Dio, in essa “dice” sempre, col mondo, innanzitutto se stesso.
Nella letteratura, evidentemente, ciò avviene in modo molto diverso che nella filosofia o nelle scienze umane. In un romanzo, in un testo teatrale, in una poesia, non si dovrà mai cercare una mera elaborazione concettuale. L’opera d’arte dev’essere valutata innanzi tutto sotto il profilo della bellezza. Ma, proprio attraverso la sua bellezza, essa è in grado di mettere in luce le profondità dell’anima umana, le domande che la inquietano, le vette di grandezza e gli abissi di miseria che la caratterizzano.
Ed è sotto questo profilo, piuttosto che dal punto di vista meramente estetico, che noi ci accosteremo ad alcune delle opere letterarie che ci sembrano particolarmente significative per il nostro tempo. Il nostro tentativo sarà, in primo luogo, di comprendere meglio, attraverso di esse, noi stessi, la nostra vita.
Perciò nello sceglierle non ci ha guidato altro criterio che la loro capacità parlare della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo e di illuminarne il significato, nella fiducia che in questo specchio possiamo comprendere un po’ meglio ciò che siamo e viviamo.
Cominceremo con un romanzo che ha avuta un enorme successo alla fine del Novecento e che si presenta come un “manifesto” dell’epoca post-moderna di cui siamo protagonisti, L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.
Passeremo poi a un’opera del tutto diversa, Il mondo nuovo, di Aldous Huxley, che, scritto nel 1932, costituisce una straordinaria profezia del volto che la nostra società ha assunto.
Continueremo con un romanzo che risale alla fine dell’Ottocento, Delitto e castigo, il cui autore, Fëdor Dostoevskij, è unanimemente considerato, oltre che uno dei massimi geni della storia della letteratura mondiale, un anticipatore dei problemi e della sensibilità della nostra epoca attuale.
Saranno poi le vostre reazioni a guidarci nella scelta dei testi successivi. Per adesso, buona lettura.

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La nostalgia di Dio nell’arte moderna e contemporanea /4

Da Note di Pastorale Giovanile, la rubrica: Nostalgia della bellezza, di Maria Rattà.

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Bellezza, desiderio, estasi. Il trinomio della nostalgia in rapporto al bello.
Ma come si può definire il bello, e di cosa, esso, ci dà nostalgia?
Fin dalla sua radice, la parola bellezza rimanda a un concetto di ordine, armonia, proporzione. Come non pensare, allora, a ciò che avviene nelle prime pagine della Scrittura, quando Dio, creando l’universo in ogni sua componente, rimane incantato a contemplare la propria opera, definendola come «buona», e addirittura «molto buona» (Gn 1,31) in riferimento all’essere umano?
La storia della bellezza è infatti una storia antica che ci riporta alle nostre origini, e che viene espressa, nel linguaggio biblico, con la parola tob, termine che non implica, in realtà, solo e semplicemente il buono, ma anche la stessa bellezza: «L’antica versione greca della Bibbia detta “dei Settanta” usava almeno tre diversi aggettivi: oltre all’ovvio agathós, “buono”, e a kalós, “bello”, aggiungeva anche chrestós, “utile”, introducendo l’aspetto pratico» [1].
Storia di lunga data, dunque, quella della bellezza, e se così è – e se è necessario partire fin dal momento in cui Dio (visto non a caso nel Medioevo come architetto del cosmo [2]) crea ogni cosa –, allora questa è anche una storia che riguarda il capolavoro, il culmine della creazione, l’opera “molto buona/bella/utile” che esce dalla mente del Creatore: l’essere umano. «Il messaggio biblico su Dio mostra qui la sua novità proprio al nostro contemporaneo che non crede più nella bellezza unica dell’uomo. Trova Dio nella natura, ma non nel viso di un uomo o di una donna. L’uomo ha difficoltà, soprattutto, a credere alla propria bontà e bellezza. Ed, invece, egli è un capolavoro» [3].
Una contraddizione in termini, dunque, se, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 341), «la bellezza della creazione» – anche quella dell’essere umano – «riflette la bellezza infinita del Creatore». Ecco, allora, il legame con la nostalgia: ciò che è bello in senso biblico (buono, armonico, utile, con una vocazione specifica, ordinato cioè a un principio di verità e riflesso della verità stessa che è Dio) ci porta al desiderio di Colui che esso rispecchia, alla nostalgia del divino. Per dirla con un termine forse più comprensibile, perché parla dell’esperienza dei sensi concreti, la bellezza, in sintesi, ci conduce all’estasi, poiché ci fa uscire da noi stessi per andare verso un altro, anzi, verso l’Altro. «L’animo umano» – sottolineava Maria Scalisi sulle pagine di questa rivista – «ha caratteristiche “trascendentali”: Unità, Verità, Bontà e Bellezza sono già insite nell’uomo, sono la dote che Dio ha dato ad ogni singola persona. Quando nell’uomo emerge anche uno solo di questi caratteri, allora l’uomo si eleva verso Dio, perché lo spirito si auto-riconosce e trova in se stesso quelle caratteristiche proprie dell’Essere» [4]. D’altronde, come scriveva Clive S. Lewis, «noi non ci accontentiamo di vedere la bellezza, anche se il Cielo sa che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos’altro, che ci è difficile esprimere a parole – vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarne parte» [5].
Così, anche nelle complicate vicende della storia, nelle intricate e confusionarie attitudini e azioni umane, alla fine rimane una certezza da riscoprire, quella che il poeta Ugo Fasolo descrive in questi versi: «Date bellezza agli uomini che gridano / il pane e l’odio, cercate bellezza / per gli uomini affamati e d’occhi rossi / conturbati in disperazione, / irosi chiedono il pane poiché non lo sanno / di morire per fame di bellezza. / […] È il nostro canto d’uomini / e l’abbiamo rinnegato con Dio; / perciò moriamo in ansia di bellezza» [6]. Parole a cui sembrano fare eco quelle rivolte da Paolo VI agli artisti: «Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» [7].
Da qui, dunque, il collegamento alla grazia e alla salvezza: perché se la bellezza è antidoto alla disperazione, essa ci conduce proprio al suo opposto, alla grazia che salva. E la salvezza è, per forza di cose, “relazione”, prima di tutto con il volto bello di Dio, che si manifesta nel volto del “buon/bel” pastore [8]: non ci può essere una bellezza salvifica autoreferenziale; la vera bellezza è sempre quella dell’altro con cui mi incontro/scontro (Platone parlava di una “scossa” salutare, concetto che Benedetto XVI non ha mancato di riprendere [9]). Dove non c’è relazione c’è infatti narcisismo e, nei rapporti umani, la rottura di ogni collegamento con l’altro. Il rapporto uomo-donna, che meglio esprime a livello umano la bellezza come nostalgia in tutte le sue dimensioni di desiderio, estasi, salvezza, da immagine di paradiso si traduce allora in inferno, come sembra descrivere nella sua tela Eco e Narciso (1913-16 c.) Rupert Bunny: tutto sembra rimandare a uno scenario naturale lussureggiante, ma quel rosso che imperversa – rimando alla passione che consuma in modo diametralmente opposto i due protagonisti – diventa anche un fuoco di sangue che li brucia entrambi nell’impossibilità di dare sfogo al loro amore. Oppure, come nella fiaba di Biancaneve (pur se questa descrive una relazione matrigna-figliastra), la bellezza dell’altro si trasforma in un pericolo, perché rischia di far perdere un podio di autocelebrazione: insorgono allora l’invidia, la rabbia, l’aggressività.
Alla bellezza, perciò, bisogna anche educare: ecco la necessità di una via pulchritudinis, che spetta tracciare tanto alla Chiesa quanto all’arte.
Alla prima il compito di farlo attraverso la catechesi e la liturgia, quest’ultima da coltivare nella sua dimensione di bellezza come squarcio sul Cielo; alla seconda quello di educare al desiderio in un momento in cui il concetto di bello diventa sempre più relativo, scisso dalla verità e, dunque, dall’intimo rimando al sacro che esso detiene per natura.
La bellezza, potremmo allora dire, ha una sua dimensione liturgica, da questo punto di vista, perché contemplando lo splendore della natura, dell’uomo, della donna e di ogni cosa creata, possiamo avere un anticipo dello splendore di Dio, una “preview” del Paradiso.
«Noi non siamo solo luce» – ha recentemente affermato papa Francesco incontrando gli artisti in Vaticano – «e voi ce lo ricordate; ma c’è bisogno di gettare la luce della speranza nelle tenebre dell’umano, dell’individualismo e dell’indifferenza. Aiutateci a intravedere la luce, la bellezza che salva. L’arte tocca i sensi per animare lo spirito e fa questo attraverso la bellezza, che è il riflesso delle cose quando sono buone, giuste, vere» [10].
Un invito certamente stringente per chi dell’arte fa un mestiere e una scelta di vita, ma un monito anche per ciascuno di noi, in quanto tutti chiamati a essere portatori e fruitori di una bellezza quotidiana, ordinaria: quella che giorno dopo giorno aiuta a seminare e ritrovare, nel mondo feriale, le tracce di quella stessa Bellezza che salva. Perché, e chiudiamo con le parole di Kahlil Gibran, «bellezza non è bisogno: è estasi. / Bellezza è eternità che contempla se stessa in uno specchio. / Ma siete voi eternità, voi specchio» [11].

NOTE 

[1] Gianfranco Ravasi, TÔB: buono, bello, utile, Sito internet di “Famiglia Cristiana”, https://www.famigliacristiana.it/blogpost/tob-buono-bello-utile.aspx
[2] Si tratta di un concetto già presente nella filosofia greca, e che il Medioevo rielabora.
[3] Andrea Lonardo, Credo in Dio Padre creatore onnipotente. Parlare di Genesi 1-3 nella catechesi, Sito internet Gli Scrittihttps://www.gliscritti.it/blog/entry/1750
[4] Maria Scalisi, La bellezza dell’uomo, in “Note di Pastorale Giovanile”, 2010-09-62, disponibile alla pagina https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5062:la-bellezza-delluomo&Itemid=101
[5] Clive Staples Lewis, Le Lettere di Berlicche e Il Brindisi di Berlicche, Jaca Book, 1990, p. 225.
[6] Ugo Fasolo, da L’Isola assediata, 1957.
[7] Paolo VI, Messaggio agli artisti a chiusura del Concilio Vaticano II, 8 dicembre 1965.
[8] Nell’originale greco di Gv 10,11;14, infatti, il termine impiegato è kalòs, bello, «dove l’aggettivo “bello” sta per “che va bene”, “giusto”. La traduzione esatta sta ad indicare che Gesù non si presenta solo come il Pastore mite e affettuoso, ma come il Pastore giusto, bravo: egli è il modello di pastore». Il buon pastore, Sito internet Note di Pastorale Giovanile, https://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10763:il-buon-pastore&Itemid=1070
[9] Cfr. Benedetto XVI, Discorso nell’incontro con gli Artisti, 21 novembre 2009.
[10] Francesco, Discorso agli Artisti partecipanti all’incontro promosso in occasione del 50° anniversario dell’inaugurazione della Collezione d’Arte Moderna dei Musei Vaticani, 23 giugno 2023.
[11] Kahlil Gibran, Il profeta, Paoline, 2011, pp. 155-159.

 

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