La fede cristiana alla prova dei giovani (Luca Bressan)

Commento di Luca Bressan

Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale della Diocesi di Milano

«Scrivo a voi, giovani» (1Gv 2,12). A voi, che siete forti (2,14), poiché la parola di Dio rimane in voi. A voi che avete vinto il Maligno (2, 13. 14). A voi che avete conosciuto colui che è da principio, nel cui nome vi sono stati perdonati i peccati (2,12).

La determinazione parenetica dello scrittore della prima lettera di Giovanni ci è d’aiuto, in un momento in cui come Chiese locali ci interroghiamo e siamo alla ricerca dell’atteggiamento con cui vivere la prossima Assemblea del Sinodo dei Vescovi, dedicata ai giovani, al loro ascolto, ma soprattutto alla riflessione (con loro, avendo anche loro come protagonisti) sulla capacità di futuro dell’idea di una vita intesa come vocazione, sul futuro stesso della fede e dell’esperienza cristiana.

La prima lettera di Giovanni. Di fronte ad un mutamento culturale che non lascia indifferente l’esperienza cristiana ma – al contrario – la interroga e la scuote sino alle fondamenta, una comunità non più così tanto prossima alle origini sente il bisogno di appellarsi allo strumento paradigmatico della scrittura, della consegna, della traditio. Sente il bisogno (proprio rifacendosi al nome di un apostolo, scrittore a sua volta) di rivivere e rifare l’esperienza che ha portato alla scrittura del Vangelo, della buona notizia, per affrontare con lucidità una trasformazione identitaria che non sarà senza conseguenze.

Scrivere in quel caso viene visto come un’operazione positiva, che apre al futuro: obbliga i vari soggetti alla concentrazione, al distacco ascetico dalle emozioni; spinge al riconoscimento, alla identificazione del destinatario, nello sforzo di comprendere la realtà dal suo punto di vista, per potervi tradurre quanto allo scrivente è ovvio e allo stesso tempo basilare per la strutturazione della propria identità; chiede la saggezza del discernimento, ovvero la capacità di riconoscere quanto è veramente necessario ed essenziale (ciò a cui il cristianesimo è legato in modo indissolubile) per trasmettere l’esperienza che si sta vivendo dentro il nuovo contesto, purificando i propri stili, discernendo quanto di positivo c’è nel confronto dai contenuti potenzialmente mortiferi che l’incontro tra i due mondi sta generando.

Il Sinodo, un’operazione di scrittura

Anche oggi abbiamo bisogno di una simile operazione di scrittura, come il confronto quotidiano con l’universo dei giovani ci fa percepire. È l’esperienza normale ed abituale, per chi frequenta quel mondo: ci si trova confrontati a domande la cui risposta chiama in causa i fondamenti della nostra stessa esperienza di fede, ecclesiale e personale. Come mai l’esperienza cristiana, così come è attestata e vissuta nelle nostre istituzioni e realtà ecclesiali, trova sempre maggiore fatica ad intercettare il mondo giovanile, a presentarsi come una valida risposta alla ricerca di futuro, di bene, di felicità, di verità, che anima questo mondo? Come interpretare questa distanza, come abitarla?

L’operazione della scrittura si presenta in un contesto simile come quello strumento che consente di affrontare con serenità e determinazione la sfida che ci è posta davanti: ci obbliga a vederla, non ad ignorarla, rifugiandoci dentro l’inerzia che ogni istituzione è capace di generare, nella convinzione che la semplice ripetizione di pratiche e di percorsi ben consolidati da sola riuscirà presto o tardi a fare breccia nel muro della non comunicazione.

Il Sinodo a questo livello ci si consegna come un’operazione coraggiosa e al tempo stesso carica di fatica: chiede che si istituiscano luoghi di ascolto reciproco e di confronto; luoghi che permettono di realizzare una conoscenza non superficiale ma frutto dell’incontro, dell’intesa che si approfondisce e si ispessisce nella misura in cui il dialogo procede. Il Sinodo raggiungerà il suo obiettivo se sarà lo stimolo perché tutto il corpo ecclesiale esegua la medesima operazione di incontro e di confronto dell’Assemblea riunita a Roma. Le domande che ci sono state consegnate, i vari questionari prodotti e somministrati, non hanno primariamente uno scopo conoscitivo/informativo, ma devono funzionare come strumenti di relazione, come costruttori di legame. Servono non tanto per quanto ci diranno ma per i legami che sapranno creare. Perché la scrittura avvenga, perché la traditio avvenga, abbiamo bisogno non tanto di conoscere dove i giovani sono (i dati che li descrivono sono eccessivamente abbondanti, al riguardo), ma di incontrarli, di ascoltarli e di lasciarci ascoltare, nella reciproca consegna di ciò che più ci sta a cuore e di quello che è il senso della vita, la verità del mondo che siamo riusciti a scoprire.

Le ragioni della scrittura

Il mondo giovanile rappresenta per l’esperienza cristiana (e in particolare per la Chiesa che ha il compito di custodirla e di trasmetterla) il nuovo che avanza, l’ignoto che si presenta con le sue sfide e i suoi spazi da esplorare. Come tante altre realtà ed istituzioni, anche il cristianesimo sintetizza dentro la figura del giovane tutti gli elementi di trasformazione che stanno interessando l’esperienza umana, e che ci toccano in molti luoghi del quotidiano, interessando non soltanto i giovani ma ogni singola persona come ogni gruppo sociale.

Le sfaccettature del nuovo che avanza sono molteplici. Per sinteticità, le possiamo identificare raccogliendo dimensioni culturali e sociali: l’evoluzione della secolarizzazione, che ci rende più cinici perché veramente unidimensionali, avendo perso ogni capacità di concepire nel concreto la trascendenza; le nuove frontiere della cultura urbana e meticcia, conseguenza di una rivoluzione demografica che abbiamo acceso senza saperla governare; l’espandersi del mondo digitale e della realtà aumentata, che modifica la nostra percezione della vita, dei suoi confini, del suo carattere di ineluttabilità (il mondo digitale ci consegna come variabili dipendenti dalla persona dimensioni della vita prima intangibili: il sesso, l’età e la condizione sociale, il nesso mente/corpo); un mondo tecnologico e scientifico toccato da una accelerazione così consistente da aver indotto in molti un approccio sempre più religioso verso di esso; un’immaginazione sempre meno strutturata dei legami (familiari e sociali) e del rapporto tra persone ed istituzioni; una trasformazione del mondo del lavoro così radicale da generare conseguenze antropologiche e non soltanto sociali; la pratica scomparsa della dimensione della morte, del senso del limite e di conseguenza la trasformazione della domanda religiosa.

In tutte queste trasformazioni i giovani ci sono. A differenza di noi adulti, sono cresciuti in questo contesto in forte mutamento; e proprio dentro questo habitat stanno pescando gli strumenti (riti, valori, simboli, pratiche, legami, narrazioni e rappresentazioni) per costruire la loro identità. Una identità che – come ovvia conseguenza – fatica ad assumere come collanti e strumenti per l’unificazione delle tante esperienze in un unico itinerario di vita la forma che il cristianesimo aveva saputo generare proprio a questo scopo: la figura della vita intesa come vocazione, come risposta ad un appello, ad una chiamata che ci struttura come identità dentro una logica di relazione, in un cammino di ascolto e di dialogo.

La sfida del nuovo che avanza riscrive l’esperienza di tutti. In particolare, per quanto ci riguarda, riscrive la forma della Chiesa che abbiamo conosciuto e che ancora abitiamo: le istituzioni e le rappresentazioni dei legami secondo i moduli della traditio e della redditio; l’elaborazione di processi educativi secondo modelli iniziatici ed ascetici (generati dalla figura del desiderio identificato come il motore archetipo della nostra libertà), tutti elementi prodotti dalla fede cristiana nel suo incontro e confronto secolare con le culture, immaginati come strumenti per la formazione e la crescita dei giovani, sono strumenti in grado di comunicare ancora oggi l’intenzione che li ha generati, sono elementi capaci di conoscere una nuova “giovinezza” nel mondo giovanile attuale, in cosi forte trasformazione? La risposta ad una simile domanda chiede alle nostre Chiese grande sincerità, oltre che una buona dose di lucidità: le istituzioni tradizionali espressamente dedicate al mondo giovanile sembrano parlare più i dialetti del passato che i nuovi linguaggi globalizzanti del futuro.

Un Sinodo per vedere le fratture

Come Chiesa abbiamo bisogno di un sinodo inteso come evento che accenda il più possibile processi di scrittura, ovvero di ascolto, riconoscimento reciproco, e contaminazione delle esperienze, condivisione e consegna della fede che ci ha generato e che viviamo.

Il processo di trasmissione della fede si è inceppato, mostra tutte le sue crepe e le sue fratture. E ci fa apparire i giovani in negativo, definendoli a partire da quello che spengono di questo processo, più che da quello che riescono a vivere. Vediamo in questi giovani dei cattolici anonimi, incapaci di un incontro e una relazione con un Dio personale (e tanto meno perciò con il Dio rivelatoci da Gesù Cristo); vediamo questi giovani come degli eterni nomadi, pronti a consumare esperienze ma poco inclini a mettersi in gioco in cammini di crescita e maturazione, poco grati e poco capaci di riconoscere il tanto che hanno ricevuto da una tradizione cristiana così presente nella vita di tutti da essersi fatta socializzazione di popolo e del quotidiano.

Come Chiesa ci sentiamo spesso feriti dalla semplicità con la quale i giovani raccontano i tratti della loro frattura con la fede loro trasmessa. Cominciando dalla pratica, che rimette in discussione tutta la vita sacramentale alla quale erano stati accostati nella loro infanzia; passando per i contenuti della fede, visti come astratti, molto poco affascinanti e al passo con i tempi, se confrontati con alcuni influssi delle filosofie orientali, creando in questo modo contaminazioni di tradizione e forme di sincretismo inedite.

Anche circa i valori e le regole da rispettare, la fede dei giovani si struttura in modo critico e molto libero. Non c’è argomento di attualità (primi fra tutti la posizione dentro la Chiesa della condizione omosessuale e dei divorziati-risposati) che non venga toccato e assunto come luogo in cui esercitare la propria libera e autonoma capacità di pensiero. Ma è sul modo di percepire la Chiesa che la frattura dei giovani appare nella sua nettezza. Per loro la Chiesa è una istituzione, percepita come fredda e lontana, che poco o nulla ha a che fare con la comunità dei discepoli che vissero l’esperienza di fede con Gesù Cristo e l’hanno trasmessa a noi. Per i giovani l’incontro con Gesù Cristo è diretto e senza mediazioni: non necessitano di una comunità che faccia da grembo vivente dentro la storia della fede, trasmettendola alle nuove generazioni.

Un Sinodo che renda le fratture creatrici

Abbiamo bisogno di un evento sinodale per evitare che la rottura (con il clima acido che genera) sia l’ultima parola. E non soltanto in senso metaforico: una istituzione che fatica a dialogare con le giovani generazioni fatica di conseguenza a costruire il proprio futuro.

Cattolici anonimi e nomadi, pronti a consumare grandi rotture, i giovani non hanno perso la capacità di lasciarsi attrarre e trasfigurare dalla fede cristiana. Le fratture create non sono l’ultima parola; lasciano spazi alla possibilità di declinare la fede e l’esperienza cristiana in nuove strade, anche dentro la cultura e l’antropologia che le rivoluzioni tecnoscientifiche e il mondo digitale stanno sempre più trasformando.
Che i giovani stiano costruendo nuove sintesi e forme innovative per vivere la fede cristiana, d’altronde, è un dato che l’esperienza quotidiana ci consegna con naturalezza. Generazione GMG, Papaboys, giovani di Taizé, dei dieci comandamenti, sentinelle del mattino … sono tanti i modi che i giovani hanno per mostrare come i nuovi linguaggi e le culture del presente stanno rimpiazzando toni e declinazioni profetiche degli anni ’70 del XX secolo. L’esperienza quotidiana ci mostra che i giovani sono sempre alla ricerca di un senso di una storia con la “S” maiuscola, dentro la quale riconoscersi. La cultura digitale fa dell’ambiguità e del provvisorio le regole fondamentali del suo istituirsi, e molte inchieste testimoniano ampiamente questo dato. Quando l’identità individuale è una semplice possibilità e la logica delle azioni un’opzione, la coerenza dei gesti, la possibilità di un vissuto unificato e quindi unico, fatto di una storia (passato, presente, futuro), diviene un peso difficilmente giustificabile, ma allo stesso tempo una richiesta interiore che urge e non può essere spenta.

Assistiamo all’imporsi di una nuova declinazione maggiormente sacrale della fede cristiana, colorata con un pizzico di sapore tratto dai concetti di realizzazione di sé, autoposizione e riconoscimento della mediazione istituzionale ed organizzativa respirati proprio nel mondo digitale abitato. Di questo mondo digitale questo modo di vivere la fede assume anche alcuni tratti più ambigui che richiedono un serio sforzo di rielaborazione alla luce della esperienza cristiana: il concetto di benessere individuale, quello di una gestione della vita di fede nei termini di una professione (che consente spazi di privato sottratti alla verifica e al controllo di un codice morale), la possibilità teorica (e non solo) di una revoca degli impegni assunti, che toglie valore e pregnanza a qualsiasi logica oggettiva (o del precetto).

Lo scopo di questo editoriale non era tanto quello di ragionare sulla possibilità ipotetica (astratta) di elaborare un giudizio esterno su questo stato di cose – che è già realtà! -, quanto piuttosto quello di riflettere sulle conseguenze che la trasformazione in atto chiede alla Chiesa, perché possa continuare il suo compito di traditio fidei. La riflessione percorsa ci consente di affermare che questa trasformazione non è senza conseguenze per il concetto stesso di fede cristiana. La sfida quindi non è come confrontarsi con questa trasformazione, ma come abitarla: attraverso quali processi di reinterpretazione, di lettura e di distanziamento, in una parola attraverso quali percorsi di discernimento si riesce a individuare i luoghi e le operazioni che portano oggi un giovane a costruire la propria identità cristiana.

Il futuro della fede dipende proprio da questa attitudine: dalla capacità che la Chiesa ha di sorvegliare e riorientare i processi di decostruzione e di ricostruzione che la cultura in cui abitiamo impone alla nostra fede, alla sua figura istituita. Si tratta in altre parole di svolgere anche nel presente quel compito che i padri conciliari cominciarono ad avviare durante il concilio Vaticano II: rileggere la tradizione ecclesiale alla luce del contesto odierno, per permettere ai tratti salienti e profondi dell’esperienza cristiana di brillare di nuova luce, proprio perché rideclinati e ridetti con linguaggi nuovi dentro la nuova cultura che il cristianesimo voleva abitare da protagonista.

Sentire, raccontare, generare

Chiudo questa riflessione rifacendomi in modo esplicito e voluto alle intuizioni illuminanti di un esegeta che ci ha permesso di capire meglio 570 come si sviluppa il processo cristiano della scrittura e della trasmissione della Parola di Dio. Forte della sua pratica delle Scritture, P. Beauchamp ci ha insegnato che l’esperienza cristiana è frutto di un processo intricato di continua e ripetuta consegna, ricezione e annuncio della nostra memoria fondatrice. Il frutto di questo processo non è un prodotto ulteriore, un nuovo libro, ma un legame rinnovato e rafforzato: un corpo nuovo, che con la sua presenza e la sua vitalità testimonia l’avvenuto processo di scrittura della parola dentro la storia. La lettre, le récit, le corps. Sentire, raccontare, generare.

La Chiesa – e non solo quella italiana – ha bisogno che il prossimo Sinodo dei giovani sia una esperienza simile. Non un Sinodo sui giovani, ma coi giovani: per coinvolgerli in questo processo di scrittura, per riaccendere questo dinamismo di consegna, ricezione e annuncio. Per generare quel corpo rinnovato e sempre giovane che è la Chiesa, popolo di Dio dentro la storia, corpo di Cristo vivificato dall’azione rigenerante dello Spirito.

(«Teologia» 42 (2017) 565-571)

Così la Chiesa si mette in discussione (Michele Falabretti)

Intervista a don Michele Falabretti,
Direttore SNPG

Avvenire – 14 gennaio 2017:

Ascolto, educazione, disponibilità a ridiscutere convinzioni e metodi. Nel Sinodo sui giovani, e nel viaggio che da ieri la Chiesa ha intrapreso con il testo-base e la lettera del Papa, don Michele Falabretti vede questo e molto altro. Da responsabile del Servizio nazionale di Pastorale giovanile è abituato allo sguardo “lungo”. Che prova a spingere sino all’assemblea in Vaticano, autunno 2018.

Che cosa ci dicono i due testi diffusi ieri?
Esprimono l’impegno e la voglia di coinvolgere i giovani in un percorso nel quale non sono destinatari di un lavoro svolto da altri su di loro ma vengono chiamati a diventare protagonisti, soggetti attivi, centro di una grande questione pastorale che è nelle mani di tutta la comunità cristiana, a ogni livello. Anche solo questo fa capire di fronte a quale opportunità ci troviamo. I giovani non sono oggetti di un’analisi scientifica, quasi si trattasse di una specie in via di estinzione: sulle nuove generazioni è chiamata in causa tutta la Chiesa.

Le GMG sono il segno che la Chiesa si è messa sempre più in gioco su questo aspetto. Dov’è la novità del Sinodo?
I giovani vanno ascoltati, la Chiesa ha bisogno della loro voce. Lo spazio per loro è andato ampliandosi con un’accelerazione che fa comprendere come non li si può pensare destinatari di un messaggio che funziona da solo. La vera, grande novità è però nella scelta stessa del tema tra i tanti possibili per l’assemblea.

Perché il Papa ha voluto mettere al centro del Sinodo proprio i giovani?
Forse perché parlando di giovani si mettono in questione anche gli adulti e la Chiesa. Da sempre i cristiani cercano di consegnare a chi viene dopo di loro quanto hanno di più caro: la fede, il Vangelo, il segreto di una vita cui l’incontro vivo con il Signore dà senso pieno. Ma oggi la maggior parte dei giovani non ha una vera occasione per questa consegna. Il Sinodo ci chiede di considerare gli aspetti complessi di questo passaggio generazionale. Dunque, si parla di giovani ma anche di adulti.

Che cosa può rappresentare questo Sinodo per la Chiesa?
Una bellissima occasione per chiederci cosa stiamo facendo per trasmettere la fede e metterci in ascolto di tutti i giovani, vicini o lontani che siano. Attenzione, però: non pensiamo a qualcuno che ci dirà “cosa fare” ma a un processo che ci mette in discussione su alcuni temi decisivi, come la relazione educativa.

Una novità è nel metodo: il questionario che aveva segnato i due Sinodi sulla famiglia viene riproposto con una formula più diretta. Che lavoro suggeriscono queste domande?
Lo dico con una battuta: se si trattasse solo di rispondere ce la caveremmo in una settimana. Dentro quelle domande, invece, ce n’è una più grande: ai cristiani quanto stanno a cuore i loro figli? Ho l’impressione che ci siamo un po’ stancati della “questione educativa”, ma non possiamo tornare ad accorgersi della sua importanza solo quando accade il fattaccio di cronaca… L’educazione è cura, compagnia, ascolto, condivisione, ha a che fa- re più con la bellezza che con il dramma.

Quindi un Sinodo sui giovani ma anche sulla “questione educativa”?
Il nostro è un tempo nel quale si fatica a essere adulti: ora c’è l’ossessione di restare giovani, perdendo di vista che si tratta di una fase della vita e non di una condizione ideale. Nel ’68 gli adulti volevano imporsi in quanto tali, oggi cercano di sembrare eternamente giovani. La strada è antitetica, il risultato identico: l’incomprensione del mondo giovanile.

Quale percorso immagina da oggi al 2018?
Vedo anzitutto un confronto ecclesiale a ogni livello, sino alla parrocchia più “periferica”, su come la Chiesa annuncia il Vangelo, e su quali sono le condizioni per arrivare a destinazione. C’è poi l’ascolto sincero e attento dei giovani là dove si trovano, non solo nei “nostri ambienti”: vanno costruite occasioni che consentano di interpellarli sulla loro vita, ad esempio nel mondo digitale. Dovremmo chiedergli in cosa sperano, quel che li fa piangere, di cosa hanno paura, cosa cercano. Da qui parte ogni possibile incontro con il senso dell’esistenza. Per troppo tempo abbiamo pensato che per convincerli bastasse enunciare i valori, magari con tutte le lettere maiuscole. Oggi quella che per noi è una verità evidente non si impone da sé ma solo se è persuasiva, e per esserlo va accompagnata da domande e gesti.

Il Sinodo invita a parlare di “vocazione”: in quale senso?
Noi cristiani pensiamo che si diventa grandi anche ascoltando un’altra voce, mentre molti giovani sono convinti di poter essere felici solo ascoltando se stessi. La sfida è far incrociare questa fame di libertà con la consapevolezza che non ci si realizza da soli ma nella relazione. Con gli altri, e con Dio.

a cura di Francesco Ognibene

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Verso il Sinodo 2018: ascoltare i giovani senza rigidità (Iacopo Scaramuzzi)

Iacopo Scaramuzzi

Giornalista

La Stampa-Vatican Insider – 13 gennaio 2017:

«Sogniamo una Chiesa che sappia lasciare spazi al mondo giovanile e ai suoi linguaggi, apprezzandone e valorizzandone la creatività e i talenti». Il documento preparatorio per la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che si svolgerà a ottobre del 2018 sul tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale» è stato pubblicato oggi in Vaticano. Il testo, di taglio ancora molto generale, delinea tra l’altro un tono dialogante per l’azione pastorale nei confronti dei giovani (tra i 16 e i 29 anni), raccomandando di «uscire dai propri schemi preconfezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi» e uscendo, come dice il Papa, da «quelle rigidità che rendono meno credibile l’annuncio della gioia del Vangelo». A conclusione del testo, che confluirà poi nel documento di lavoro del Sinodo (Instrumentum laboris), viene pubblicato un primo questionario che verrà indirizzato ai giovani di tutte le diocesi del mondo al quale – novità del prossimo Sinodo – seguirà una seconda «consultazione di tutti i giovani attraverso un sito Internet, con un questionario sulle loro aspettative e la loro vita».

Il documento preparatorio, si legge nell’introduzione del testo di 69 pagine pubblicato dalla Libreria editrice vaticana (Lev), propone una riflessione articolata in tre passi: «Si comincia delineando sommariamente alcune dinamiche sociali e culturali del mondo in cui i giovani crescono e prendono le loro decisioni, per proporne una lettura di fede. Si ripercorrono poi i passaggi fondamentali del processo di discernimento, che è lo strumento principale che la Chiesa sente di offrire ai giovani per scoprire, alla luce della fede, la propria vocazione. Infine si mettono a tema gli snodi fondamentali di una pastorale giovanile vocazionale». Obiettivo del Sinodo, ribadisce il documento, individuare «come accompagnare i giovani a riconoscere e accogliere la chiamata all’amore e alla vita in pienezza, e anche di chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la Buona Notizia».

La prima parte del documento fa una prima disamina dei «giovani nel mondo di oggi», mettendo in luce alcune questioni di attualità, dalla «fluidità e incertezza» della società alla disoccupazione ai ragazzi «neet» (not in education, employment or training) e all’aumentata flessibilità sul lavoro, dalla globalizzazione all’immigrazione e in particolare alle «seconde generazioni» e ai figli di coppie miste, dalla nuova emigrazione da paesi anche benestanti al mondo «iperconnesso» di internet e dei social media, dalle difficoltà di comprensione tra figli e genitori ai sentimenti di «sfiducia, indifferenza o indignazione» dei giovani verso le istituzioni, compresa la «Chiesa nel suo aspetto istituzionale». In generale, «valide opportunità e rischi insidiosi si intrecciano in un groviglio non facilmente districabile». Nel contesto di «fluidità e precarietà che abbiamo delineato, la transizione alla vita adulta e la costruzione dell’identità richiedono sempre più un percorso “riflessivo”», è la conclusione. «Se nella società o nella comunità cristiana vogliamo far succedere qualcosa di nuovo, dobbiamo lasciare spazio perché persone nuove possano agire».
La seconda sezione si concentra sul tema «fede, discernimento, vocazione». Vocazione, ha precisato in conferenza stampa il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario del Sinodo, «non in senso stretto, la vocazione solo dei preti e delle suore, ma in senso ampio». Il documento parte, su questo, dalla centralità del «discernimento vocazionale», ossia il «processo con cui la persona arriva a compiere, in dialogo con il Signore e in ascolto della voce dello Spirito, le scelte fondamentali, a partire da quella sullo stato di vita». L’assunto è che la coscienza, come insegna il Concilio Vaticano II, «è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità», e dunque la coscienza è «uno spazio inviolabile in cui si manifesta l’invito ad accogliere una promessa. Discernere la voce dello Spirito dagli altri richiami e decidere che risposta dare è un compito che spetta a ciascuno: gli altri lo possono accompagnare e confermare, ma mai sostituire».

Alla «azione pastorale» è dedicato, infine, la terza e ultima parte del documento preparatorio del Sinodo: «Accompagnare i giovani – si legge – richiede di uscire dai propri schemi preconfezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi; significa anche prenderli sul serio nella loro fatica a decifrare la realtà in cui vivono e a trasformare un annuncio ricevuto in gesti e parole, nello sforzo quotidiano di costruire la propria storia e nella ricerca più o meno consapevole di un senso per le loro vite». Pastorale vocazionale significa dunque «accogliere l’invito di Papa Francesco a uscire, anzitutto da quelle rigidità che rendono meno credibile l’annuncio della gioia del Vangelo, dagli schemi in cui le persone si sentono incasellate e da un modo di essere Chiesa che a volte risulta anacronistico. Uscire è segno anche di libertà interiore da attività e preoccupazioni abituali, così da permettere ai giovani di essere protagonisti». I soggetti di questa pastorale sono «tutti i giovani, nessuno escluso», e soprattutto inclusi i «giovani poveri, emarginati ed esclusi». Gli adulti coinvolti in questa pastorale devono essere maturi ed evitare ogni forma di «abuso». E i luoghi in cui incontrare i giovani, oltre quelli classici delle parrocchie o dei movimenti cattolici, sottolinea il testo, sono anche il volontariato sociale e il mondo digitale. Un sito internet per il sinodo, sinodogiovani2018.va, ha spiegato in conferenza stampa monsignor Fabio Fabene, sottosegretario del Sinodo, sarà in linea dal primo marzo. Al tempo stesso, «in una società sempre più rumorosa, che offre una sovrabbondanza di stimoli, un obiettivo fondamentale della pastorale giovanile vocazionale è offrire occasioni per assaporare il valore del silenzio e della contemplazione e formare alla rilettura delle proprie esperienze e all’ascolto della coscienza».
Il Documento preparatorio si conclude con un primo questionario di quindici domande rivolte ai giovani ai quali seguono gruppi di tre ulteriori questioni per ogni continente. Le domande relative ai vari continenti sono state elaborate dai membri della Segreteria del Sinodo provenienti proprio dai rispettivi continenti.

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Una pastorale che abbia «l’odore dei detenuti» (Domenico Ricca)

Intervista a don Domenico Ricca

Salesiano, cappellano al carcere minorile di Torino

a cura di Marina Lomunno

Come coinvolgere i giovani detenuti che popolano le carceri italiane e gli Istituti di pena minorili nel cammino del Sinodo dei giovani? Lo chiede, a nome dei cappellani degli Istituti penali per i minori, don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani, in una lettera inviata nei giorni scorsi agli incaricati degli Uffici di pastorale giovanile delle diocesi italiane.
Scrive don Grimaldi: «Il Sinodo può essere l’inizio di un progetto di collaborazione tra il Servizio di pastorale giovanile diocesano e la realtà dell’Istituto penale per minori e delle carceri… Un seme che nasce in questa occasione può diventare il segno di un cammino comune che va avanti in tempi ordinari. I giovani che escono dal carcere hanno bisogno di aiuto concreto, sono essi stessi ‘opere segno’ di cui tanto si parla nella Chiesa.
Hanno bisogno di casa, lavoro ma soprattutto di accoglienza nelle nostre comunità».
Abbiamo chiesto a don Domenico Ricca, salesiano, da 38 anni cappellano del carcere minorile torinese «Ferrante Aporti» di commentare queste sollecitazioni, convinti, come più volte richiama papa Francesco, che la pastorale giovanile deve rivolgersi a tutti, non a «categorie» di giovani siano essi neet, lavoratori, educatori parrocchiali, universitari, disoccupati, stranieri, detenuti…

Durante il Giubileo della misericordia il nostro Arcivescovo ha aperto una Porta santa anche nella cappella del «Ferrante Aporti», nell’intento di far sentire i ragazzi ristretti parte di una comunità. Ora voi cappellani proponete di rendere parte attiva i vostri ragazzi nel Sinodo dei giovani. Quale pastorale giovanile è possibile dietro le sbarre e come parlare ai detenuti di un Sinodo dedicato anche a loro?

L’apertura di una Porta santa al «Ferrante Aporti» è stato certamente un evento di alto valore simbolico, oserei dire più per la comunità diocesana che per i ragazzi. Il messaggio dell’Arcivescovo era rivolto ai ragazzi per testimoniare loro che in Gesù trovano sempre la misericordia, ma soprattutto un «avvocato», parola che a loro, in quanto detenuti, parla direttamente, che li ascolta, li accoglie. Sulla porta della cappella del nostro carcere c’è il Buon Pastore, quell’affresco datato II secolo d.C., dipinto su una volta delle catacombe di San Callisto a Roma. La scorsa domenica, dedicata appunto al Buon Pastore, è stata oggetto delle nostre riflessioni durante la Messa con i ragazzi del «Ferrante». Abbiamo anche condiviso l’immagine del pastore di papa Francesco che, nella Messa del Crisma del 28 marzo del 2013, invitava i sacerdoti a «essere pastori con ‘l’odore delle pecore’».
«Questo io vi chiedo», ha detto il Papa, «siate pastori con ‘l’odore delle pecore’, che si senta quello». Per questo, venendo alla domanda «quale pastorale giovanile è possibile dietro le sbarre», oserei rispondere: una pastorale giovanile che abbia «l’odore dei detenuti», dei ragazzi minorenni e giovani adulti in attesa di giudizio o in sconto pena.
Un pubblico variegato, multiforme, complesso, ma sempre adolescenti. Occorre prendere il loro odore, che è lo stesso delle periferie esistenziali, delle comunità per minori e delle accoglienze dei minori stranieri non accompagnati.

Come coinvolgere, secondo la sua esperienza, la Pastorale giovanile nelle carceri (non solo minorili: i giovani stanno anche delle carceri degli adulti), che tipo di percorsi di fede si possono pensare per i ristretti «giovani» tenendo conto anche delle diverse religioni della popolazione carceraria?

Nella lettera che lancia l’iniziativa del Sinodo dietro le sbarre, l’Ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, a nome di noi cappellani richiama come il Sinodo possa essere l’inizio di un progetto di collaborazione tra il Servizio di pastorale giovanile diocesano e la realtà degli Istituti penali per minori.
Una collaborazione che non si estingua con l’evento Sinodo, ma che duri nel tempo.
Certo, nel tempo i ragazzi cambiano: i nostri cancelli sovente per i più sono dei tornelli. Ma la comunità cristiana, la Pastorale giovanile, non può essere un tornello di ingresso e di uscita veloce.
Se vuole avere senso e significato deve garantire continuità, anche piccola, come quei ragazzi che animano da più anni la nostra Messa festiva al «Ferrante», magari sottraendo qualcosa al loro oratorio. Ma non è un sottrarre, è un aggiungere.

L’immagine scelta per il Sinodo è quella del discepolo amato: come trasmettere dietro le sbarre questa certezza, e che cioè Gesù ama tutti i giovani indistintamente e che è in qualche modo dietro le sbarre, è il loro «difensore»?

Questione difficile e poco verificabile, per la diversità dei linguaggi, per la multiformità delle simbologie che la storia di ogni ragazzo porta con sé a partire dal loro Paese, cultura e religione. Non facile anche per i giovani italiani, dove la riscoperta del religioso che è in loro si anima di immagini dei percorsi di catechesi della fanciullezza, di presenze in oratorio a volte, forse, di disturbo, di quello stare sulla porta perché curiosi di un mondo che sprizza gioia, allegria, con la paura di esserne esclusi. Ma anche incapaci di far scelte che durino nel tempo. Sulla porta perché positivamente «presi» da figure di preti, di parroci, forse poco clericali, ma tanto «persone». Preti e non disdegnano l’odore della strada, della periferia. I giovani hanno bisogno non di un’idea, ma di un sentimento, di un’emozione che fa fatica a tradursi in operatività, in voglia di cambiare. E dove non ce la fa ad arrivare Gesù, ci arriva la figura della Vergine.
L’Ave Maria, quell’Ave Maria di don Bosco…

Don Ricca, lei è salesiano e più volte ha spiegato che ha impostato la sua presenza in carcere come quella in un oratorio: come parlerebbe don Bosco del Sinodo dei giovani in carcere?

Don Bosco tornerebbe in prigione, tornerebbe alla Generala… si inventerebbe l’uso dei social. Creerebbe gruppi su Whatsapp e Instagram! Lui che ha inventato le «Letture cattoliche» per rendere accessibile a tutti, specie al ceto popolare, le ricchezze della cultura religiosa e della cultura in generale, cosa non inventerebbe oggi perché ai suoi ragazzi, «i discoli e i pericolanti », non venisse negato il diritto alla bellezza! È la lezione di don Milani: le forme sono del tempo, ma quello che ci ha lasciato è la voglia di rischiare, di chiedere di più, di non sedersi: direbbe papa Francesco «di non condurre una vita mondana». Don Bosco manderebbe in carcere i suoi preti e chierici più ardimentosi, giovani, li sosterrebbe anche nelle loro intemperanze.
Ma soprattutto sarebbe padre, amico e fratello dei ragazzi reclusi e ripeterebbe anche oggi il suo monito della «Lettera dei castighi»: «Amateli i ragazzi. Si otterrà di più con uno sguardo di carità, con una parola di incoraggiamento che con molti rimproveri » perché «tutti i giovani hanno i loro giorni pericolosi, e voi anche li avete. Guai se non ci studieremo di aiutarli a passarli in fretta e senza rimprovero ».

I giovani che sono in carcere sono l’anello debole di una catena, ma tanti «fuori» sono in preda al disagio e alla ricerca di senso. Come può il messaggio del Sinodo arrivare anche ai giovani che non sanno neppure cos’è un Sinodo e sono lontani dalle nostre parrocchie?

La domanda mi rasserena perché dà voce a tutte le mie perplessità, mi fa sentire meno extraterrestre… Perplessità che poi rimuovo perché temo siano le solite lamentale di chi sta con i giovani, ma non è più giovane, di chi li osserva, li ascolta, li fa parlare. Ma i dubbi permangono, neanche il «classico» antidoto dell’ottimismo salesiano riesce a fugarli. Forse noi siamo troppo abituati a pensieri compiuti, logici, razionali, completi. Ma non è più il parlare dei giovani, il linguaggio dei social, delle abbreviazioni, dei molti errori di ortografia e di sintassi che quando li leggiamo siamo tentati di rimandarli al mittente corretti. Il conversare sullo smarthphone, con le faccine sorridenti o con le lacrime, con il pollice verso, con gli emoticon e quant’altro… Quando la domenica in parrocchia mi trovo davanti un folto gruppo di ragazzi, allora privilegio il loro linguaggio, l’alfabetizzazione delle verità di fede, la semplicità della narrazione biblica, ma soprattutto cerco con gli sguardi e le domande di capire se hanno capito. Alla fine poi è un predicare che è molto gradito anche agli adulti… In una parola, dobbiamo correggere il nostro comunicare.

La scommessa non è di saper ridire ai ragazzi l’alfabeto della fede, di condividere con loro una nuova grammatica del parlare di Dio e con Dio? Se non ne siamo consapevoli il nostro sarà solo un balbettìo. Partiamo da questo nuovo alfabeto. L’alfabeto della vita che supera le distanze, i confini e le barriere geografiche, ma anche quelle generazionali.

(La Voce del Popolo – 6 maggio 2018)

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I giovani sono i protagonisti (Enzo Bianchi)

Commento di Enzo Bianchi

Fondatore della Comunità monastica di Bose

Ci sono due aspetti fondamentali legati al prossimo sinodo dei vescovi dedicato ai giovani e al discernimento che paiono sottaciuti in molte analisi nostrane, forse a causa di un’eccessiva semplificazione dell’argomento.

Innanzitutto il fatto che si tratta di un sinodo della Chiesa cattolica, presente nei cinque continenti, e non di un’assise limitata alla sola Italia o all’Europa e ai paesi di antica cristianità. Questo significa che non si può trascurare il fatto che le Chiese in cui la presenza giovanile è più scarsa sono quelle anche di più antica tradizione e che le Chiese più giovani per epoca di fondazione sono anche quelle dove i giovani per età anagrafica sono più numerosi, in linea con l’età media della società circostante. Il che comporta, tra le altre cose, che la trasmissione della sapienza legata all’anzianità avviene con maggior difficoltà se non si favoriscono gli scambi e i contatti tra Chiese di paesi e regioni non omogenei: avremo da un lato Chiese esperte che parlano ad anziani e faticano a trovare linguaggi per le nuove generazioni e, d’altro lato, Chiese con radici ancora fragili cui mancano riferimenti e interlocutori che abbiano fatto tesoro di secoli di confronto con società via via sempre meno “cristiane”. E questa differenza di composizione anagrafica delle diverse Chiese si aggiunge a quelle legate alle caratteristiche etniche, culturali, economiche e sociali che contraddistinguono le società all’interno delle quali la Chiesa si pone come istanza significativa di una “differenza cristiana” radicata nel Vangelo.

Il secondo dato è che “oggetto” – e, in qualche misura compatibile con la natura stessa di un sinodo dei vescovi, “soggetto” – delle riflessioni sono i giovani e le giovani presenti o assenti nelle nostre comunità ecclesiali. Troppo spesso diamo per scontata questa “inclusività”, ma chi ha un minimo di esperienza diretta del mondo giovanile è perfettamente cosciente di quanto le più serie indagini sociologiche registrano regolarmente: vi sono differenze significative nei comportamenti e nel linguaggio legate anche al genere.

Tenendo queste due osservazioni preliminari come retroterra critico e focalizzando la riflessione sul mondo italiano ed europeo che frequento maggiormente, va sottolineato come nei decenni passati ci sia stata un’attenzione alla cosiddetta pastorale giovanile mai così accentuata nella storia; ma purtroppo questa fatica non è stata sufficiente, anche perché si è continuato a pensare a un rapporto esteriore tra la Chiesa da un lato e i giovani dall’altro. Non basta ascoltare i giovani né tanto meno ingabbiarli in stereotipi che fanno di loro “il futuro della Chiesa” o “le sentinelle dell’avvenire”; occorre invece considerarli e sentirli non come una categoria teologica o un’entità esterna cui la Chiesa si rivolge, bensì come una componente della Chiesa di oggi, attori e protagonisti già ora; occorre pensarli nel “noi” della Chiesa.
Il documento preparatorio per il sinodo chiama i giovani e le giovani a «essere protagonisti» (III, 1) e «capaci di creare nuove opportunità» (I, 3), indicando così a tutta la Chiesa vie di evangelizzazione e stili di vita nuovi. Solo un ascolto reciproco, un confronto, un dialogo tra tutte le componenti del popolo di Dio di qualunque età e di entrambi i sessi possono innescare un processo di “inclusività” delle nuove generazioni nella Chiesa. Questa la sfida del prossimo sinodo.

E la volontà di papa Francesco di farlo precedere da incontri in cui i giovani potessero prendere la parola e sentirsi partecipi della “conversione” richiesta a tutta la Chiesa ha posto le premesse favorevoli al passaggio da una pastorale “per i giovani” a una pastorale “con i giovani”.

Si tratta, per usare un’espressione cara a papa Francesco, di «iniziare dei processi», non di fare conquiste, né di «far ritornare» i giovani alla Chiesa, o di misurare la riuscita sul numero delle risposte ottenute. Occorre “una Chiesa in uscita”, capace di unirsi ai giovani che già la frequentano per andare dove si trovano i loro coetanei, dove questi abitano, vivono, soffrono e sperano. Occorre raggiungerli in modo non generalizzato e massificante, bensì con atteggiamenti e parole in grado di rispettare e ridestare la specificità di ciascuno: i giovani hanno sete di incontri personali, di dialoghi faccia a faccia, soprattutto nel nostro contesto sociale dominato dal virtuale, e domandano silenziosamente, senza riuscire a esprimersi in modo compiuto, di essere “riconosciuti” ciascuno e ciascuna lungo il proprio cammino di ricerca di senso e di pienezza di vita.

Questo significa per gli adulti cambiare lo sguardo sui giovani, accettare di mettere in discussione le proprie acquisizioni, di non riuscire sempre a capirli e tuttavia rinnovare sempre la fiducia in loro, guardando ai giovani come a “storie personalissime” e sostenendo la loro faticosa ricerca di una vita buona.

In questa forma di pastorale “con” i giovani, oltre alla cultura dell’incontro deve emergere anche quella della gratuità. Se infatti «la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione» (Evangelii gaudium 14), occorre vivere ogni atteggiamento di evangelizzazione sotto il segno della gratuità, senza l’ansia di risultati in termini numerici di giovani coinvolti, vocazioni suscitate o servizi assunti.
L’incontro che si deve favorire è quello umanissimo nel quale sia gratuitamente possibile entrare in relazione con Gesù attraverso la fede e la testimonianza dell’evangelizzatore. Non dunque l’incontro con una dottrina, tanto meno con una grande idea o con una morale, ma con una realtà viva che intrighi, sia portatrice di senso e promessa di vita piena. La gratuità è uno dei valori più sentiti e vissuti dai giovani: incontro gratuito e disponibilità a camminare insieme restano urgenze assolute in un nuovo paradigma di evangelizzazione nella società odierna.

La mia esperienza di ascolto, incontro e cammino con tanti giovani – diversissimi per cultura e atteggiamenti verso l’interiorità, la spiritualità, la religione e la Chiesa – mi convince sempre di più che quando approdano a conoscere la vita di Gesù ne restano affascinati e toccati. La vita di Gesù come vita buona, nella quale egli “ha fatto il bene”, cioè ha scelto l’amore, la vicinanza, la relazione mai escludente, la cura dell’altro e soprattutto dei bisognosi, è vita non solo esemplare ma capace di affascinare e di rivelare la possibilità di una “bontà” che si vorrebbe ispiratrice per la propria vita. Ma vi è anche un’attrazione nei confronti della vita bella vissuta da Gesù: il suo non essere mai isolato, il suo vivere in una comunità, in una rete di affetti, il suo vivere l’amicizia, il suo rapporto con la natura restano molto eloquenti. Infine vi è grande interesse per la sua vita beata, non nel senso di una vita esente da fatiche, crisi e contraddizioni, ma beata in quanto Gesù aveva una ragione per cui valeva la pena spendere la vita e dare la vita, fino alla morte: questa la sua gioia, la sua beatitudine.

I giovani non sono insensibili, refrattari ai grandi interrogativi dell’esistenza, ma desiderano essere aiutati in questo cammino da adulti affidabili che sappiano accompagnarli senza pretese e senza accaparramenti sui cammini che tendono alla pienezza della vita e dell’amore.

(DONNE CHIESA MONDO, Mensile dell’Osservatore Romano n. 70 – Luglio 2018)

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Lo Spirito ci dona il discernimento (Gianfranco Ravasi)

Commento di Gianfranco Ravasi

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie

L’effusione dello Spirito Santo nella Pentecoste s’irradia in luce e amore, come attesta la simbologia del fuoco. Abbiamo, così, pensato in questa solennità di interrompere la nostra ormai lunga serie di storie di vocazione e di fermarci su una parola che evoca un’illuminazione spirituale. Se osserviamo il titolo assegnato da papa Francesco al Sinodo dei vescovi di ottobre, notiamo infatti la presenza di un vocabolo che è diventato piuttosto comune nel linguaggio ecclesiale di questi ultimi tempi: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale».

Ecco, dunque, il termine che considereremo: «discernimento», che nella Bibbia è da cercare sotto un ventaglio di parole dai molteplici signi ficati, soprattutto nel linguaggio neotestamentario. C’è, così, una costellazione di verbi greci che citiamo innanzitutto per essere fedeli all’originale ma anche perché sono difficili da rendere in modo univoco: krínein è “giudicare”, ma anche saper vagliare, discriminare, persino condannare; dokimázein è “mettere alla prova, verificare, discernere, misurare”, ma anche approvare e interpretare; sýnesis è la “comprensione”, ma anche l’intelligenza, l’intelletto, la capacità di dare senso; ghinóskein è un “conoscere”, che però comprende non solo l’attività intellettiva ma anche quella volitiva, affettiva, effettiva fi no a giungere all’amore.

Questo arcobaleno di termini evidenzia quanto sia complessa l’opera di discernimento nei confronti delle scelte da compiere. Bisogna essere capaci di mettere sul tavolo la molteplicità dei doni personali ma anche delle vie che si aprono davanti a noi; si deve avere la coscienza del proprio limite ma anche la consapevolezza delle potenzialità che ci sono donate; è indispensabile avere una sensibilità morale che distingue bene e male, vero e falso, giusto e ingiusto; si deve essere pronti alla prova che verifica l’autenticità del cuore.

A quest’ultimo proposito sono significative alcune espressioni bibliche. Da un lato, c’è la certezza che Dio è «giusto giudice, scrutatore dei reni e del cuore» (così, ad esempio, in Geremia 11,20). San Paolo usa l’immagine del fuoco per descrivere l’azione giudicatrice del Signore nei confronti della vocazione e missione del discepolo: «L’opera di ciascuno sarà resa palese; la svelerà quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco saggerà l’opera di ciascuno» (1Corinzi 3,13). D’altro lato, c’è lo stesso credente che presenta con sincerità sé stesso a Dio perché egli trapassi con la sua luce la coscienza: «Scruta il mio cuore, vaglialo nella notte, provami nel crogiuolo: in me non troverai alcun crimine » (Salmo 17,3).

Ma alla fine è lo Spirito Santo il principio del discernimento attraverso i suoi doni che sono elencati dal profeta Isaia in uno dei suoi canti messianici: «Spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore» (11,2). Attraverso questa serie di virtù che illuminano l’anima, il fedele riesce ad avere la sapienza e l’intelligenza di Salomone e dei saggi, il consiglio e la fortezza di Mosè e di Davide, il timore del Signore testimoniato dai patriarchi e dai profeti. Con questa dotazione di virtù si potrà «distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Filippesi 1,10), che è poi anche il tempo della nostra vocazione.

(Famiglia Cristiana – 17 maggio 2018)

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Sulla questione giovanile la Chiesa si gioca il futuro (Armando Matteo)

Intervista a don Armando Matteo

Professore straordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma

a cura di Iacopo Scaramuzzi

Si è aperto il Sinodo dei vescovi, a suo avviso cosa hanno da dire i giovani alla Chiesa e cosa ha da dire la Chiesa alle nuove generazioni?

I giovani mandano un messaggio chiaro: facciamo fatica a mettere insieme la nostra crescita, il nostro cammino verso l’età adulta e l’esperienza religiosa. C’è un forte disinteresse per l’esperienza cristiana. Contemporaneamente emerge anche una richiesta di aiuto: la nostra società tende a condannare i giovani ad un destino di marginalizzazione e loro chiedono di essere aiutati a capire meglio come può servire la religione cristiana per la vita adulta. La Chiesa, da parte sua, senza riallacciare i rapporti con il mondo giovanile rischia l’implosione. Calano le vocazioni, molte persone decidono di non accedere più al matrimonio religioso, le nostre comunità sono prive dello spirito, dell’entusiasmo delle forze giovanili. In questo senso penso che nelle intenzioni di Papa Francesco ci sia la volontà di porsi in dialogo e in ascolto. È la prima volta che la Chiesa lo fa in questo modo. Aggiungerei che non sono molti quelli che nella Chiesa hanno capito che questo Sinodo è fondamentale, più importante di quelli celebrati in passato. C’è in gioco l’interesse di intere generazioni, nonché il destino della Chiesa. Il tema dei giovani riguarda tutti.

Si può dire che per Papa Francesco affrontare la questione giovanile sia anche un modo per riproporre, tramite lo sguardo dei giovani, la necessità di una riforma della Chiesa?

L’attuale fatica che i giovani hanno di credere ci dice che tutto ciò che facciamo, la pastorale giovanile, non riesce a generare nuovi credenti, mette in crisi il carattere materno della Chiesa. E questo sta a cuore a Papa Francesco. Perciò, per generare nuovi credenti, il Papa esorta ad una riforma missionaria della Chiesa. Se la Chiesa dovrebbe essere il luogo in cui le persone si incontrano con Gesù e vivono una vita piena, questo non sta capitando più e l’universo giovanile ce lo restituisce in modo molto forte. Le indagini a riguardo sono chiare. L’ultimo studio, pubblicato dall’Istituto Toniolo all’inizi odi questa estate, registrava che in Italia c’è una fascia veramente ampia di popolazione giovanile che vivrebbe tranquillamente senza religione. Anche il documento preparatorio del Sinodo sottolinea che la maggioranza impara a vivere senza Dio e senza Chiesa non perché non abbia occasione di incontrarla, ma perché attualmente il modo di presentare Gesù e l’esperienza della fede non ottiene quell’innesco di interesse reale nelle nuove generazioni. Questo certamente richiede dei cambiamenti.

In realtà, sebbene propongano un cattolicesimo piuttosto distante dal Concilio vaticano II, i settori che si potrebbero definire fondamentalisti, realtà ecclesiali che presentano una fede fortemente identitaria, hanno una notevole attrattiva anche tra i giovani…

È stato Zygmunt Bauman ad identificare questo strano paradosso, questa eterogenesi dei fini: una mentalità liquida produce “consiglieri capaci”, punti di riferimento estremamente solidi, granitici. Un certo fondamentalismo è una sorta di derivato della cultura contemporanea. L’ampliamento delle opzioni, il fatto che ogni soggetto debba rispondere di sé perché non ci sono più morali condivise spinge una parte della popolazione a ridare fiducia a tradizioni culturali, politiche, ma anche religiose che si presentino più forti, più chiare. Certamente questo approccio, le idee super-chiare e super-distinte, hanno una certa attrattiva, ma non mi sembra sia la risposta migliore, anche perché l’atteggiamento dell’irrigidimento è sempre una strategia a breve respiro, e la specie umana non agisce così. Le svolte epocali sono dolorose ma c’è sempre la capacità di adattarsi. Il cristianesimo, nella sua migliore tradizione, vive secondo la logica dell’incarnazione, e quindi non teme di mettere in discussione questo modello di fare Chiesa, di presentare il Vangelo, di celebrare i sacramenti in ascolto constante della parola del Vangelo ma anche della storia degli uomini. Mi pare che questo sia l’appello di Papa Francesco quando dice di stare in ascolto dei poveri, che poi possono essere ad esempio le coppie di divorziati risposate ma anche, come ha detto di recente il cardinale Gualtiero Bassetti, il mondo giovanile. Un punto delicato è la fatica della comunità ecclesiale ad accordarsi con l’invito di Papa Francesco ad una uscita missionaria. Una difficoltà forse accresciuta anche dalla grande longevità che c’è in Occidente, per cui le comunità non sono mai del tutto vuote e, per così dire, facciamo fatica a sentire la mancanza dei giovani che mancano. Ci stiamo un po’ abituando a campare. Aprendo il pre-sinodo il Papa ha usato parole bellissime quando ha detto ai giovani: noi siamo qui non perché vogliamo a tutti i costi avere i giovani, ma perché sappiamo che una comunità senza giovani è monca, ci manca una parte di accesso al mistero divino. Ogni cambiamento, ogni riforma richiede una qualche sofferenza, e non possiamo pensare di portare a termine una Chiesa veramente missionaria senza attraversare anche un processo di morte e risurrezione. Per citare Benedetto Croce, lasciar morire quel che è morto e promuovere ciò che è vivo. Il cristianesimo che abbiamo ereditato, insomma, non è l’unica possibilità di cristianesimo: è una possibilità, formata ascoltando esigenze di un’altra epoca, ma oggi non funziona più. Nella esortazione Evangelii gaudium Papa Francesco lo dice chiaramente, la pastorale giovanile non risponde più perché i cambiamenti in atto sono moltissimi. Questo non è il problema, il problema è quando manca la disponibilità a cambiare.

Nel suo libro “La prima generazione incredula” lei sostiene che una riforma si realizza se la Chiesa si «mette a dieta» e ripensa anche la «geografia della salvezza»: può spiegarcelo?

Veniamo da una cultura nella quale l’elemento religioso era non solo presente, ma addirittura promosso nelle famiglie e nelle dinamiche sociali, e questo ha favorito il fatto che la Chiesa si potesse occupare di tantissime altre cose. La Chiesa si è occupata di scuole, ospedali, formazione alla politica, teatro: non c’è quasi ambito dell’umano di cui la Chiesa non si sia occupata. E ha sempre potuto delegare la generazione della fede alle famiglie, alle mamme e alle nonne, alle scuole, allo stesso contesto culturale. Oggi ci troviamo con un corpo ecclesiale mastodontico, ogni parrocchia si occupa di tantissime cose, ma sempre di più è in difficoltà a fare quel che deve fare, ossia generare nuovi credenti in Cristo. Oggi assistiamo a quello che io chiamo l’eclissi del cristianesimo domestico: a casa si prega pochissimo, non si legge il Vangelo, il cuore degli adulti si è spostato verso tanti altri lidi, e questo chiede maggiore impegno a concentrare le proprie energie sulla generazione alla fede, a ripensare i processi di iniziazione alla fede in modo diverso, a fare più sul serio. Lo stesso vale per la geografia: quando in Italia, in Europa, l’uomo era naturaliter cristiano, ogni quartiere, ogni piccolo paese di montagna o di campagna aveva la sua parrocchia. Oggi questo non ci è più permesso, viviamo nuovi fenomeni di urbanizzazione, c’è da prendere consapevolezza che il numero dei sacerdoti o diminuito o invecchiato. Oggi c’è una dispersione di energie ecclesiali enormi, legate a un mondo che non è più quello in cui sono nate. Se l’obiettivo prioritario diventa quello di aiutare gli adulti a recuperare l’interesse a alla religione, si deve anche riscrivere nuova geografia della presenza cristiana. Anche questo è molto difficile, Papa Francesco aveva chiesto ai vescovi italiani di ripensare il numero delle diocesi, e quindi degli uffici diocesani, delle parrocchie… ma sappiamo che questa richiesta ha incontrato delle resistenze. Inevitabilmente ogni cambiamento comporta sofferenze. Ma è necessario ripensare una presenza della Chiesa non più “a pioggia”, come è attualmente, ma in funzione di questo scopo primario, la generazione della fede.

Ma cosa possono fare i vescovi del Sinodo, in tre settimane, a risolvere problemi così grandi, epocali? Ora è uscito in libreria un suo libro, “ Tutti giovani, nessun giovane” (Piemme), nel quale denuncia la «fatica a essere giovani». In che senso?

Il Sinodo potrebbe essere l’occasione buona per mettere alcuni paletti, provare a fare una diagnosi un po’ condivisa. Innanzitutto la parte giovanile del mondo, sia in Occidente che altrove, fa fatica a vivere la propria età della vita. Dovrebbe ereditare il mondo nell’età di massima potenza, di massima energia, per migliorarlo, e invece si trova confrontata con generazioni adulte che tengono tutto in mano, che anzi continuano a dire ai giovani “non abbiamo bisogno di voi, vogliamo rimanere giovani noi”. Questo produce paralisi della fiducia, gli adulti, che dovrebbero essere coloro che traghettano i giovani verso la vita, in realtà fanno opera di contenimento, spegnimento delle passioni. C’è un grande disagio, un grido di giustizia dei giovani, perché quando gli adulti non fanno gli adulti i giovani non possono fare i giovani. Il Sinodo può dunque innanzitutto servire a mettere a fuoco che noi adulti siamo il problema e i giovani sono la risorsa. In secondo luogo, bisogna lavorare più seriamente con gli adulti. C’è da attivare una pastorale della seconda età, perché con adulti che vivono una “religione della giovinezza” si è interrotta la trasmissione della fede. Non possiamo parlare di giovani senza tenere in conto che i giovani hanno il loro sguardo sugli adulti, se non ci interroghiamo su come gli adulti vivono e trasmettono la loro fede. E in terzo luogo, seguendo la Gaudete et exsultate di Papa Francesco, bisogna recuperare la dimensione gioiosa dalla fede: credere per vivere con più gioia la nostra vita umana, si va a messa per vivere una esperienza di festa e di gioia. Nel mio ultimo libro, da ultimo, provocatoriamente dico che il Sinodo potrebbe anche essere il luogo da cui la Chiesa esce con proposta un po’ strana forse: smettere di parlare di giovani di persone con più di 30 anni. Un’operazione di pulizia linguistica a cui può corrispondere pulizia mentale che possa rimettere in asse le generazioni. Le generazioni sono i giovani e gli adulti, e gli adulti aiutano i giovani a prendere il loro posto, a ereditare il mondo.

Il Sinodo sui giovani cade in un momento in cui la Chiesa è scossa dal nuovo emergere degli abusi sessuali: un motivo di allontanamento dei giovani dalla Chiesa?

La questione del rapporto dei giovani con la Chiesa è l’unica vera questione che abbiamo, per cui questo Sinodo, sebbene si svolga non sotto le condizioni più favorevoli a causa dell’emergere di questi scandali e di forti divisioni nella Chiesa, è comunque una grande benedizione. Probabilmente è più l’attivazione di un processo che non la parola definitiva. Ad ogni modo, sarebbe un’occasione persa non farlo. C’è ance da dire che, ben prima di queste situazione di scandalo, non molti si erano infervorati per questo Sinodo, anche i mass media non sono sembrati molto attenti… perché viviamo in una società che parla tanto dei giovani solo per farli fuori. Certo gli scandali non aiutano, la virtù principale del mondo giovanile oggi è l’autenticità ed è chiaro che ovunque emergano macchie ci sia delusione, i giovani avvertono immediatamente, con allergia, con ripugnanza, questi fatti. Va anche detto, però, che le indagini fatte, almeno in Europa, registrano che il punto più problematico, per cui non scatta un reale interesse dei giovani per le cose della Chiesa e della fede, non sia lo scandalo. Penso che il punto nodale rimanga il fatto che c’è una grandissima fascia della popolazione adulta che nel cuore ha messo un sacco di cose e ha tolto Dio, la Chiesa, la preghiera, Gesù Cristo, e per questo non ha testimoniato nelle relazioni educative il perché rimanere cristiani dopo che si smette di essere bambini. Questa a me pare la vera questione.

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I giovani non sono perduti per la fede (Enzo Bianchi)

Commento di Enzo Bianchi

Fondatore della Comunità monastica di Bose

Questo mese di ottobre nella Chiesa cattolica è vissuto quasi interamente (dal 3 al 28) come “sinodo”, un camminare insieme sotto la guida del Papa, convergendo a Roma, interrogandosi e riflettendo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. È un evento che potrebbe essere significativo. E, forse, anche decisivo per la presenza dei giovani nella Chiesa, una porzione di popolo di Dio che si sta assottigliando, soprattutto in occidente. E che rischia di mancare alla Chiesa di domani.

In questi anni di preparazione e di attesa ho sentito più volte la domanda: «Ma è possibile un Sinodo che non sia solo sui giovani ma anche dei giovani?». Infatti, l’assemblea sinodale è composta da circa duecento vescovi, da alcuni esperti e auditores, ma non è certo un’assemblea di giovani.

Alcuni di questi saranno presenti, ma il Sinodo è un’istituzione episcopale, non un’assemblea ecclesiale. I padri sinodali sono, appunto, “padri” e non possono essere i giovani.
Ma ho colto anche un’altra perplessità: quali giovani? I giovani sono presenti in tutto il pianeta, in tutte le Chiese sparse per il mondo, ma cosa li unisce, al di là della loro età, della comune giovinezza? Un giovane di Milano non credo abbia molto in comune con un giovane della Nigeria.

Così come un giovane di New York è altro rispetto a un giovane dell’Eritrea. Queste evidenze potrebbero portarci a giudicare il Sinodo come un’impresa impossibile, perché troppo grande è la differenza e troppo articolata è la complessità della vita nelle diverse aree continentali e regionali.

Va tuttavia riconosciuto che, essendoci stata una consultazione dei giovani in molte Chiese locali, il loro ascolto sarebbe possibile se i lavori del Sinodo avverranno in modo ordinato. Così da giungere a individuare come le Chiese regionali possono rispondere alle attese dei giovani e aprire loro delle vie che li rendano soggetti ecclesiali, protagonisti nella vita cristiana. Avendo già partecipato come esperto a due Sinodi dei vescovi e avendo quindi acquisito una certa esperienza nell’ordo laboris, mi auguro che questa volta nell’ordinare gli interventi si tenga conto dell’Instrumentum laboris e della “regionalità” delle proposte, delle suggestioni e degli interrogativi sottoposti all’attenzione dell’assemblea sinodale.

Da parte mia, quale auditor invitato da papa Francesco al Sinodo, vorrei dare un umile apporto proveniente dall’ascolto dei giovani in varie Chiese locali dell’Europa occidentale neolatina e nella mia comunità. Sovente ho posto ai giovani la domanda: «Che cosa vorreste che la Chiesa dicesse di voi e a voi giovani? Come voi giovani vi sentite e vorreste sentirvi soggetti protagonisti nelle vostre Chiese locali?». Le risposte sono state moltissime e, nel leggerle con attenzione, ho trovato conferma alla mia speranza: le nuove generazioni non sono perdute per la fede cristiana, ma sono molto esigenti nella loro ricerca. E, pur sorprendendoci, non sono tuttavia divenute estranee a Gesù Cristo e al Vangelo.

Da questo ascolto dei giovani vorrei porre alcune urgenze che il Sinodo potrebbe recepire.

Innanzitutto i giovani temono una certa retorica della Chiesa nei loro confronti: chiamarli in modo ossessivo “futuro della Chiesa” o “sentinelle dell’avvenire”, non è sufficiente per intrigarli. Essi vogliono essere riconosciuti Chiesa già oggi, presente della Chiesa, porzione del popolo di Dio.

Vogliono sentirsi soggetti ecclesiali oggi, nella loro condizione giovanile, certo, ma senza sentirsi chiamati solo al domani della Chiesa.

Ma occorre anche dire che i giovani non vogliono essere adulati, vezzeggiati dai cristiani adulti: vogliono semplicemente essere presi sul serio. Chiedono che sia accolta la loro differenza, accettando anche il fatto di non poter sempre essere capiti. Anelano che si mostri fiducia in loro, sostenendo la loro ricerca senza avere la pretesa di dirigerla. Quanto poi a questa loro ricerca, sarà bene tener conto di alcune realtà ormai assodate nella lettura sociologica e nella cosiddetta pastorale giovanile, realtà che non vanno edulcorate o addirittura deformate perché risultano faticose e dolorose. Anche ciò che è critico, che fa male agli adulti nella Chiesa, va ascoltato, assunto e non rimosso, in modo da poter essere “pensato” alla ricerca di possibili risposte.

Altre volte ho scritto che ormai per le nuove generazioni “Dio” è una parola indifferente. E, in alcuni casi, troppo ambigua. Non solo le immagini di Dio ricevute dalla tradizione sono contestate e appaiono incapaci di interessare i giovani, ma questi pensano di poter vivere bene senza la ricerca di Dio. Sono dunque perse le “antenne della fede”, secondo l’espressione di Armando Matteo? Indubbiamente la ricerca dei giovani è innanzitutto ricerca di sé, ricerca di diventare se stessi, cammino di umanizzazione per vivere una vita sensata e avere un’esistenza “salvata”.

Come rispondere a questa ricerca che forse è l’unica che oggi accomuna i giovani dell’occidente? La tentazione — diffusa, mi rincresce dirlo, anche all’interno della Chiesa — è quella di rispondere con un “teismo etico terapeutico”, cioè con un’affermazione nebulosa di Dio dalla quale discende la possibilità di una vita eticamente buona che porta allo star bene con sé stessi. Questa, purtroppo, è la spiritualità dominante anche nella Chiesa. E gli occhi accecati non riescono a discernere che così avviene lo svuotamento della fede cristiana. Oggi si cerca di parlare di Dio ai giovani e, per essere efficaci, si ricorre all’immagine di un Dio “energia primordiale” che è a nostra disposizione per una vita segnata da benessere interiore e psichico.

Occorre, allora, essere vigilanti e consapevoli che per i giovani la parola “Dio” sia diventata ormai estranea e non sostituibile con un “sacro” o un “divino” forgiato da noi e dalle nostre angosce. Sono convinto che questa estraneità del termine Dio sia, in realtà, una chiamata a essere veramente cristiani, nella pratica di andare a Dio solo attraverso Gesù Cristo: «Nessuno può andare al Padre, Dio, se non attraverso di me!» (cf Gv 14,6). Urge allora “far vedere” Gesù Cristo ai giovani: così sarà apertala strada per andare al Padre, a Dio. Oggi o si fa vedere Gesù con azioni, comportamenti, stile, parole oppure si è condannati a rendere la speranza del Vangelo estranea alle nuove generazioni.

I giovani sono sempre sensibili a Gesù Cristo, sono intrigati dalla sua umanità, sono toccati dall’ascolto attento del Vangelo. Questa è la via da percorrere senza paura: Gesù Cristo è colui che con il Vangelo dà pienezza alla vita umana, è colui che dà la possibilità a un giovane di sentirsi gratificato di esistere come esiste. Gesù Cristo è colui che mette vita nella vita perché è lui il Vangelo, la buona notizia che dà senso alla vita! Gesù Cristo è la “via” per andare a Dio: in questo cammino è dato di riconoscere anche il suo corpo che è la Chiesa.

L’auspicio e la preghiera è che al Sinodo si abbia la parresia di mettere al centro del confronto sui giovani Gesù Cristo, colui che ci ha insegnato a vivere in questo mondo (cf Tt 2,12) come esseri umani degni di tale nome. E ci ha donato con la sua resurrezione la speranza dell’amore che vince la morte.

(“Vita Pastorale” – ottobre 2018)

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I ragazzi, protagonisti del Sinodo (Lorenzo Baldisseri)

Intervista a Lorenzo Baldisseri
Segretario generale del Sinodo dei Vescovi

Avvenire.it19 ottobre 2016:

Eminenza, come è maturata la scelta? 
È uscita con molta forza dalle consultazioni. Sia nel primo sondaggio che è stato fatto nell’ultimo Sinodo, sia nelle consultazione degli episcopati occidentali e orientali, degli uffici della Curia e degli ordini religiosi. Anche il Consiglio della segreteria ha proposto preminentemente questo tema. E il Papa ha accolto questa indicazione.

Tecnicamente come avviene la scelta del tema? 
Il Consiglio propone alcuni temi in ordine di preferenza e il Papa sceglie, essendo libero anche di andare al di fuori. Questa volta comunque ha fatto propria la proposta prevalente.

Secondo indiscrezioni giornalistiche tra i temi suggeriti ci sarebbe stato quello dei ministeri ordinati e quindi anche del celibato…
C’erano delle proposte ad un livello più generale: parlare del clero, dei presbiteri, senza andare nel dettaglio. Ma alla fine il Papa ha scelto che sarà su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.

Quindi? 
Si parlerà di tutti i giovani. A prescindere dalla loro nazionalità, razza o religione. Si affronterà la questione di come la Chiesa può trasmettere e proporre la fede ai giovani nel difficile contesto odierno. E ci occuperemo di come i giovani possono discernere la loro vocazione, il loro progetto di vita, nel senso più ampio di questo termine, a 360 gradi. Vocazione al matrimonio, vocazione ad una determinata professione, e anche vocazione al sacerdozio e alla vita religiosa.

La macchina del sinodo si è già attivata? 
Sì. Stiamo studiando un progetto di Lineamenta, il documento preparatorio, da inviare a tutti gli episcopati e gli aventi diritto. Cercheremo di fare in modo di poter arrivare anche alla base in forma diretta, un po’ come già avvenuto nei due sinodi sulla famiglia. Ci aspettiamo quindi delle risposte non solo dai nostri interlocutori istituzionali ma anche direttamente dalla base ecclesiale in genere e dagli stessi giovani in particolare.

Quando prevede che i Lineamenta saranno pronti? 
La prossima sessione del Consiglio di segreteria è fissata per il 20 novembre. Si prevede, come è successo nel passato, che sarà presente anche il Papa che è il presidente del Sinodo. In quella sede potrebbero essere discussi e approvati i LIneamenta. Dopodiché avremo un anno pieno per la preparazione delle risposte. Un periodo più lungo di quello avuto nei sinodi precedenti. Questo darà alle conferenze episcopale più tempo per la consultazione delle parrocchie e delle diverse realtà ecclesiali.

Si può prevedere che al Sinodo partecipino direttamente dei giovani? 
Stiamo studiando ancora in che forma questo possa avvenire. A norma di statuto il Sinodo è dei vescovi, comunque stiamo cercando di capire in che forma potremo cooptarli nella celebrazione dell’assise.

A proposito di Statuto si sta studiando un aggiornamento dell’Ordo Synodi? 
Ci stiamo lavorando facendo tesoro delle modifiche metodologiche e procedurali già adottate nei due Sinodi passati. Allo stesso tempo abbiamo messo a tema anche un approfondimento dottrinale sulla sinodalità. A questo proposito è prossima la pubblicazioni degli atti del Simposio che abbiamo celebrato sul tema lo scorso febbraio.

Che fine faranno i Sinodi continentali che pure sono stati celebrati in passato? 
Per il momento sono in una posizione, per così dire, di stand by. Stiamo studiando se ed eventualmente in che modo continuare questa esperienza. Ovviamente sarà poi il Papa a dire una parola decisiva.

Il Consiglio della segreteria è l’organismo che più da vicino collabora col Papa anche nell’applicazione dell’esortazione postsinodale. Ritiene possibile un intervento formale che offra una specie di “interpretazione autentica” di alcuni punti delicati dell’Amoris laetitia, come quello sui divorziati risposati? 
Non credo. Il Papa, quasi antevedendo questo tipo di richiesta, nell’Amoris laetitia ha ben spiegato che «non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi». Infatti dal momento che – come ha affermato il Sinodo – «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi», occorre procedere con «un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolare».

A cura di a cura di Gianni Cardinale

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Giovani. Un mondo, frammentato, inquieto, ricco di speranze ed illusioni (Gianfranco Ravasi)

Commento di Gianfranco Ravasi

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie

Quanto più si avvicina il Sinodo dei Vescovi, che si terrà a Roma nel prossimo ottobre, tanto più si moltiplica la fioritura di testi dedicati al tema che in quell’assise verrà discusso, cioè l’attuale tipologia giovanile. Talvolta si tratta di analisi settoriali specifiche (trionfa l’attenzione all’infosfera in cui i giovani vivono, spesso ignorando o mettendo tra parentesi il mondo reale), altre volte siamo in presenza di sguardi panoramici d’insieme. Non di rado si ha l’impressione di leggere mappe elaborate da esperti che notomizzano fenomeni incasellandoli nei loro algoritmi sociologici senza sporcarsi troppo nello scendere direttamente per la verifica concreta di territori un po’ repellenti o, comunque, troppo mobili ed estranei.

Vorremmo anche noi affacciarci sulla soglia di questo orizzonte, consapevoli di rischiare la riedizione di stereotipi già ampiamente declinati da altri. Per questa volta non entreremo nell’ambito che più è per noi specifico, quello religioso. Ma – sulla scorta anche delle testimonianze offerte dai «Cortili degli studenti» sviluppati nella cornice del «Cortile dei Gentili», cioè nel dialogo tra credenti e non credenti – proporremo qualche nota attorno a due nodi generali, il modello antropologico che si sta configurando e le nuove coordinate delle relazioni sociali. Sono solo schizzi tematici che, peraltro, ormai lambiscono anche la fenomenologia degli stessi adulti. È ovvio che la questione antropologica sia complessa, tenendo conto del fatto che non c’è neppure un concetto condiviso di «natura umana» (le teorie del gender, pur oggi appannate rispetto a ieri, ne sono un emblema).

Indichiamo, allora, solo il fenomeno dell’io frammentato, legato al primato delle emozioni, a ciò che è più immediato e gratificante, all’accumulo lineare di cose più che all’approfondimento dei significati. La società, infatti, cerca di soddisfare tutti i bisogni ma spegne i grandi desideri ed elude i progetti a più largo respiro, creando così uno stato di frustrazione e soprattutto la sfiducia in un futuro. La vita personale è sazia di consumi eppur vuota, stinta e talora persino spiritualmente estinta. Fiorisce, così, il narcisismo, ossia l’autoreferenzialità che ha vari emblemi simbolici come il «selfie», la cuffia auricolare, o anche il «branco» omologato, la discoteca o l’esteriorità corporea. Ma si ha anche la deriva antitetica del rigetto radicale espresso attraverso la protesta fine a se stessa o il bullismo brutale o la violenza verbale e iconica sulle bacheche dei social, oppure l’indifferenza generalizzata con la caduta nelle tossicodipendenze o con gli stessi suicidi in giovane età. Si configura, quindi, un nuovo fenotipo di società. Per tentare un’esemplificazione significativa di questo secondo aspetto della nostra analisi – rimandando comunque alla sterminata documentazione sociologica elaborata in modo continuo – proponiamo una sintesi attraverso una battuta del filosofo Paul Ricoeur: «Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini».

Domina, infatti, il primato dello strumento rispetto al significato, soprattutto se ultimo e globale. Pensiamo alla prevalenza della tecnica (la cosiddetta «tecnocrazia») sulla scienza; oppure al dominio della finanza sull’economia; all’aumento di capitale più che all’investimento produttivo e lavorativo; all’eccesso di specializzazione e all’assenza di sintesi, in tutti i campi del sapere, compresa la teologia; alla mera gestione dello Stato rispetto alla vera progettualità politica; alla strumentazione virtuale della comunicazione che sostituisce l’incontro personale; alla riduzione dei rapporti alla mera sessualità che emargina e alla fine elide l’eros e l’amore; all’eccesso religioso devozionale che intisichisce anziché alimentare la fede autentica e così via. Un esempio emblematico «sociale» (ma nel senso di social) è quello espresso da un asserto da tempo formalizzato: «Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», asserto che coinvolge un tema fondamentale come quello di «verità» (e anche di «natura umana»). Come è noto, nella cultura classica (ad esempio, il mito della «pianura della verità» da conquistare sviluppato nel Fedro platonico) il vero è oggettivo, ci precede e ci eccede fino al punto da essere identificato con l’eternità e l’infinito divini nelle varie teologie («Io sono la via, la verità, la vita», proclama Cristo). Compito della persona è la ricerca della verità facendola propria, cioè soggettiva.

Diverso è l’atteggiamento contemporaneo. Il filosofo Maurizio Ferraris, studiandone gli esiti sociali nel saggio Postverità e altri enigmi (Mulino 2017), commentava: «Frase potente e promettente questa sul primato dell’interpretazione, perché offre in premio la più bella delle illusioni: quella di avere sempre ragione, indipendentemente da qualunque smentita». Si pensi al fatto che ora i politici più potenti impugnano senza esitazione le loro interpretazioni e postverità come strumenti di governo, le fanno proliferare così da renderle apparentemente «vere». Ferraris concludeva: «Che cosa potrà mai essere un mondo o anche semplicemente una democrazia in cui si accetti la regola che non ci sono fatti ma solo interpretazioni?». Soprattutto quando queste fake news sono frutto di una manovra ingannatrice ramificata lungo le arterie virtuali della rete informatica? Molti altri sono i temi che s’intrecciano nell’esperienza contemporanea non solo giovanile ma comune a tutti. Pensiamo ai problemi sollevati dall’ecologia e dalla sostenibilità (si veda la Laudato si’), nei cui confronti i giovani sono particolarmente sensibili, o il citato appiattimento dell’economia sulla finanza che crea l’accumulo enorme di capitali ma anche la loro fragilità «virtuale», generando crisi sociali gravi e, in connessione, la piaga della disoccupazione o della sotto-occupazione mal retribuita. Pensiamo anche a temi più specifici come il nesso tra estetica e cultura, in particolare il rilievo dei nuovi linguaggi musicali per i giovani e così via.

Importante, però, è ribadire che l’attenzione ai cambi di paradigma socio-culturali non dev’essere mai né un atto di mera esecrazione, né la tentazione di ritirarsi in oasi protette, risalendo nostalgicamente a un passato mitizzato. Il mondo in cui ora viviamo è ricco di fermenti e di sfide rivolte alla cultura e alla stessa fede, ma è anche dotato di grandi risorse umane e spirituali delle quali i giovani sono spesso portatori: basti solo citare la solidarietà vissuta, il volontariato, l’universalismo, l’anelito di libertà, la vittoria su molte malattie, il progresso straordinario della scienza, l’autenticità testimoniale richiesta dai giovani alle religioni e alla politica e così via. Ma questo è un altro capitolo molto importante da scrivere in parallelo a quello finora abbozzato e che esula dall’approccio limitato che abbiamo scelto. Esso dovrà coinvolgere necessariamente anche l’orizzonte religioso che si deve confrontare con un fenomeno pervasivo come quello della secolarizzazione, un tema che merita una trattazione specifica.

(“Il Sole 24 Ore” – 30 settembre 2018)

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